Il vizio totale di mente: l’evoluzione del concetto di infermità

Il vizio totale di mente: l’evoluzione del concetto di infermità

Sommario1.1 Il paradigma medico – 1.2 Il paradigma giuridico – 1.3 “La sentenza Raso” – 1.4 Dottrina e giurisprudenza “sentenza Raso” – 1.5 Prospettive de iure condendo

1.1 Il paradigma medico

L’infermità riveste un ruolo centrale all’ interno della disciplina del vizio totale di mente che figura nel codice penale quale causa di esclusione dell’imputabilità.[1] Infatti, l’infermità si pone quale suo antecedente logico e giuridico. Volendo tracciare la parabola evolutiva di tale concetto, non si può non tener conto degli eterogenei paradigmi interpretativi che sono stati prospettati nei diversi ambiti del sapere. La difficoltà di individuare un’interpretazione univoca di tale concetto discende essenzialmente dal fatto che il legislatore ha investito l’interprete dell’oneroso compito di definire un concetto soggetto ad un’interpretazione extra giuridica e, come tale, esposto ai mutamenti determinati dagli sviluppi della scienza medica, della psicologia e della psichiatria. Gli indirizzi più seguiti in dottrina ed in giurisprudenza sono l’indirizzo medico e quello psicologico.

Per analizzare il paradigma medico, è illuminante il contributo fornito dalle Sezioni Unite nella Sentenza Raso: “Secondo il più tradizionale e risalente paradigma medico, le infermità mentali sono vere e proprie malattie del cervello o del sistema nervoso, aventi, per ciò, un substrato organico o biologico. Tale modello nosografico (compiutamente elaborato da Emil Kraepelin sul finire dell’ottocento) afferma, in sostanza, la piena identità tra l’infermità di mente ed ogni altra manifestazione patologica sostanziale, postula la configurazione di specifici modelli di infermità e della loro sintomatologia, propone il disturbo psichico come infermità “certa e documentabile”, escludendosi ogni peculiarità, sotto tale profilo, rispetto ad altre manifestazioni patologiche; e comporta, quindi, che in tanto un disturbo psichico possa essere riconducibile ad una malattia mentale, in quanto sia nosograficamente inquadrato. Se ne è, quindi, inferito, tra l’altro, che l’accertamento della causa organica rimarrebbe assorbito dalla sussumibilità del disturbo nelle classificazioni nosografiche elaborate dalla scienza psichiatrica, nel “quadro-tipo di una determinata malattia” (per cui “quando il disturbo psichico e aspecifico non corrisponde al quadro-tipo di una data malattia, non esiste uno stato patologico coincidente col vizio parziale di mente”: così, ad esempio, Cass., Sez. I, n. 930/1979). Pur nell’ ambito di tale paradigma, non mancano, tuttavia, diversi riferimenti ad una prospettiva c.d. psicopatologica, per la quale il vizio di mente è da riconoscere in presenza di uno stato o processo morboso, indipendentemente dall’ accertamento di un substrato organico e di una sua classificazione nella nosografia ufficiale (si è affermato, quindi, che, “se è esatto che il vizio di mente può sussistere anche in mancanza di una malattia di mente tipica, inquadrata nella classificazione scientifica delle infermità mentali, è pur sempre necessario che il vizio parziale discenda da uno stato morboso, dipendente da una alterazione patologica clinicamente accertabile…”: così Cass., Sez. I, n. 9739/1997)”.

Il paradigma medico si scinde, dunque, in tre distinte concezioni: la concezione nosografica, la concezione organistica e la concezione patologica.[2] Secondo la concezione nosografica, le infermità rilevanti sono malattie del cervello o del sistema nervoso e, conseguentemente, sono solo quelle sussumibili all’ interno di un preciso quadro clinico[3]. In base al filone organicistico, invece, nel concetto di infermità rientrano tutte le alterazioni biologiche ed organiche anche se non inquadrabili entro un quadro strettamente nosografico[4]. Infine, in base all’ articolazione patologica il discrimine fra le infermità rilevanti ai sensi dell’art. 88 c.p. e quelle non rilevanti risiede nella sussistenza o meno di uno stato patologico che determina un’alterazione, rectius esclusione, della capacità di intendere e di volere[5].

Quest’ultima articolazione interna al modello medico sembra essere quella che avuto più fortuna, come attestato dal credito che ha riscontrato in ambito dottrinale. La Professoressa Bertolino, infatti, nella disamina dei diversi paradigmi del concetto di infermità, sottolinea come il modello medico, riconnettendo l’infermità ad una malattia, ha il pregio di sottolineare la derivazione patologica dell’infermità rilevante ai sensi dell’art. 88 c.p. Il Mantovani nell’ analizzare le peculiarità di questa concezione afferma che, in base all’ articolazione patologica, l’infermità “intesa come stato patologico abbraccia anzitutto le malattie in senso stretto (…) ed anche altre anomalie psichiche che sfuggono ad una precisa classificazione nosografica o che non sono provviste di una ben precisa base organica”.

Al di là delle correnti interne al paradigma medico, tale indirizzo sembra, prima facie, quello prescelto dal legislatore del 1930. Infatti, la dottrina afferma che l’infermità rilevante ai sensi dell’art. 88 c.p. deve essere definita come una malattia.[6] Coerente a tale posizione anche il contributo del Manzini secondo cui assimilando la nozione di infermità a quella di malattia “si è escluso da un lato ogni stato di incapacità non derivante da infermità e, dall’ altro, si è compresa tanto l’incapacità di intendere e di volere inerente a sola malattia di mente, quanto quella prodotta dal corpo”. Il legislatore avrebbe dunque preferito ancorare le valutazioni in merito alla sussistenza della infermità a parametri certi ed indiscutibili, quali quelli offerti dalla scienza medica, per garantire il principio della certezza giuridica e per evitare facili assoluzioni che sarebbero determinate dall’ attribuzione di un ambito di operatività all’ art. 88 c.p. eccessivamente ampio[7]. Inoltre, la conformità di tale indirizzo alla volontà del legislatore viene suffragata tenendo conto di quella diffidenza, rectius scetticismo, manifestata nei confronti della cosiddetta “psicologia del profondo”[8] da parte dei giuristi del Primo Novecento che impedisce un’ apertura a modelli diversi da quello medico.

Questa iniziale posizione di chiusura nei confronti delle acquisizioni proprie della scienza psicologica, che trova all’ inizio del Novecento un modestissimo riconoscimento all’ interno della giurisprudenza, è stata, peraltro, messa in luce nella sentenza Raso del 25 gennaio 2005 che rappresenta un punto di riferimento imprescindibile nell’ analisi dell’evoluzione del concetto di infermità[9]. Corollario di tale impostazione rigorosa è l’esclusione, sia in dottrina sia in giurisprudenza, della rilevanza delle anomalie psichiche e dei disturbi della personalità, come messo in luce dalla Corte di Cassazione in numerose sentenze[10]. Rientrano nei non meglio definiti disturbi della personalità il disturbo paranoide, il disturbo schizoide, il narcisista, il borderline e l’antisociale. Inoltre, coerentemente alla granitica premessa secondo cui l’infermità è solo quella di tipo medico legale, tale indirizzo esclude la riconducibilità a tale nozione delle nevrosi e delle psicopatie[11]. La giurisprudenza recepisce, nell’ operare tali selezioni, le soluzioni prospettate dallo psichiatra e psicologo tedesco Emil Krapelin che distingue nettamente fra psicosi, intesa come patologia mentale, e psicopatia, configurabile come una disarmonia caratteriale. Si afferma l’esigenza che il disturbo rientri in una tassonomia, cioè sia in pratica classificabile secondo le categorie elaborate dalla psichiatria. La dottrina osserva invece che le psicopatie e le nevrosi sono delle mere alterazioni caratteriali o delle forme degenerative del sentimento, come tali relative alla sfera affettiva e dunque prive di rilievo giuridico. Tale concezione è suffragata dall’ art.90 c.p. che nega rilevanza scusante agli stati emotivi e passionali[12], estranei alla sfera intellettiva e alla sfera volitiva, prese in considerazione dell’art.85 c.p. ai fini dell’accertamento sulla capacità di intendere e di volere[13]. Rilevante l’apporto del giurista Bettiol che condivide la premessa della normale irrilevanza giuridica delle psicopatie e delle nevrosi, ma riconosce che tale regola contempla un’eccezione. L’eccezione risiede nel dato secondo il quale “una grave alterazione degli istinti può costituire materia per concludere circa la presenza di una personalità psicopatica incapace di diritto penale”. Si tratta di una lettura più aggiornata e flessibile del paradigma medico.

1.2 Il paradigma giuridico

Antitetico all’ indirizzo medico è quello giuridico che si articola in diverse correnti di pensiero unite da un comune denominatore: l’ampliamento del concetto di infermità rilevante per la configurabilità del vizio totale di mente.

Un embrionale tentativo di attribuire un significato più ampio al concetto di infermità è posto in essere agli inizi del Novecento, quando è ancora imperante l’indirizzo medico. Infatti, si diffonde la concezione psicologica che, basandosi sulla tripartizione freudiana dell’individuo in Es, che corrisponde al livello dell’inconscio, Ego, che si ricollega alla sfera del conscio, e Super Ego, che indica ciò che la coscienza sociale impone all’ esterno, anticipa soluzioni che troveranno un corale accoglimento negli anni Sessanta e Settanta. Se la persona non è affetta da disturbi solo quando l’Es ed il Super Ego sono in perfetta armonia, ne discende che è ravvisabile un’infermità quando l’equilibrio viene meno e prevale la sfera dell’inconscio sulla realtà.

La Corte di Cassazione fornisce un’accurata descrizione di tale concezione: “Agli albori del ‘900, sotto l’influenza dell’opera freudiana (e con la scoperta dell’inconscio, di un mondo, cioè, nascosto dentro di noi, “privo di confini fisiologicamente individuabili”, attraverso l’esame dei tre livelli della personalità: l’Es, il livello più basso e originario, permanentemente inconscio; l’Io, la parte ampiamente conscia, che obbedisce al principio di realtà; il Super-io, che costituisce la “coscienza sociale” e consente la interiorizzazione dei valori e delle norme sociali), prese a proporsi un diverso paradigma, quello psicologico, per il quale i disturbi mentali rappresentano disarmonie dell’apparato psichico, nelle quali la realtà inconscia prevale sul mondo reale, e nel loro studio vanno individuate le costanti che regolano gli avvenimenti psicologici, valorizzando i fatti interpersonali, di carattere dinamico, piuttosto che quelli biologici, di carattere statico. I disturbi mentali vengono, quindi, ricondotti a “disarmonie dell’apparato psichico in cui le fantasie inconsce raggiungono un tale potere che la realtà psicologica diventa, per il soggetto, più significante della realtà esterna” e, “quando questa realtà inconscia prevale sul mondo reale, si manifesta la malattia mentale”. Il concetto di infermità, quindi, si allarga, fino a comprendere non solo le psicosi organiche, ma anche altri disturbi morbosi dell’attività psichica, come le psicopatie, le nevrosi, i disturbi dell’affettività: oggetto dell’indagine, quindi, non è più la persona-corpo, ma la persona-psiche”.

Intorno agli anni Settanta si diffonde, all’ interno del paradigma giuridico, la concezione sociologica in base alla quale le infermità da prendere in considerazione devono necessariamente avere la loro scaturigine in un disagio mentale, in una condizione di ghettizzazione e disadattamento del soggetto. Opportuno citare la sentenza Raso: “Intorno agli anni ‘70 del secolo scorso si è proposto un altro indirizzo, quello sociologico, per il quale la malattia mentale è disturbo psicologico avente origine sociale, non più attribuibile ad una causa individuale di natura organica o psicologica, ma a relazioni inadeguate nell’ ambiente in cui il soggetto vive; esso nega la natura fisiologica dell’infermità e pone in discussione anche la sua natura psicologica ed i principi della psichiatria classica, proponendo, in sostanza, un concetto di infermità di mente come “malattia sociale”. Dal nucleo di tale indirizzo si sono, quindi, sviluppati orientamenti scientifici che rifiutano l’esistenza della malattia mentale come fenomeno organico o psicopatologico (la c.d. “antipsichiatria”, o “psichiatria alternativa”)”.

Infine, la recente concezione integrata ripudia una spiegazione mono causale dell’infermità, ma, al contrario delle precedenti concezioni, ha il merito di evidenziare come il disturbo psichico possa dipendere da numerose variabili di natura biologica, psicologica e sociale. E’ questa una soluzione appagante che ha il merito di sintetizzare le precedenti concezioni monolitiche che mirano a rintracciare una sola causa per tutte le varie forme di infermità. A tal proposito, significato il contributo delle Sezioni Unite: “Nella scienza psichiatrica attuale sono presenti orientamenti che affermano un “modello integrato” della malattia mentale, in grado di spiegare il disturbo psichico sulla base di diverse ipotesi esplicative della sua natura e della sua origine: trattasi, in sostanza, di “una visione integrata, che tenga conto di tutte le variabili, biologiche, psicologiche, sociali, relazionali, che entrano in gioco nel determinismo della malattia”, in tal guisa superandosi la visione eziologica mono causale della malattia mentale, pervenendosi ad una concezione multifattoriale integrata. In dipendenza di tale prospettiva, trovano nuovo spazio gli orientamenti ispirati ad una prevalenza del dato medico, valorizzanti l’eziologia biologica della malattia mentale (psichiatria c.d. biologica), e, contro i rischi di un facile approccio biologico, si sviluppa la c.d. psichiatria dinamico-strutturale, che considera il comportamento umano sotto il duplice aspetto biologico e psichico. Si assiste anche ad una rivalutazione del metodo nosografico, cui, tuttavia, non si attribuisce, come per il passato, un ruolo di rigido codice psichiatrico di interpretazione e diagnosi della malattia mentale, ma piuttosto quello di “una forma di linguaggio che deve trovare il più ampio consenso onde, raggiunta la massima diffusione, consenta la massima comprensione”. In tale contesto, i più accreditati sistemi di classificazione (ad esempio, il DSM-IV, o l’ICPC o l’ICD-10) dovrebbero assumere il valore di parametri di riferimento aperto, in grado di comporre le divergenti teorie interpretative della malattia mentale e fungere, quindi, da contenitori unici”.

La condivisibile concezione giuridica nasce da una rivendicazione di autonomia dei giuristi rispetto ai rigidi paradigmi scientifici. Tale concezione è suffragata analizzando il tenore dell’articolo 88 c.p., in cui il legislatore, facendo riferimento ad un concetto ampio quale quello di “infermità”, manifesta in maniera chiara la volontà di ricomprendere in esso anche disturbi diversi da quelli strettamente riconducibili ad un quadro clinico. Inoltre, se si privilegia un’interpretazione coerente con la ratio sottesa all’ istituto dell’imputabilità bisogna a fortiori ammettere che ai fini del giudizio sulla capacità di intendere e di volere ciò che rileva non è la riconducibilità dell’infermità ad una definizione medica quanto piuttosto la sua attitudine a compromettere la sfera intellettiva e/o volitiva.

Tale indirizzo risulta essere accolto e in dottrina e in giurisprudenza dopo che, a seguito degli sviluppi scientifici, crolla l’idea che sia possibile ricondurre entro una cornice nosografica ogni disturbo psichico. In dottrina, sostenitore del paradigma giuridico è il Mantovani che lo accoglie con favore in quanto riconosce che, alla luce delle nuove acquisizioni in ambito medico e della conseguente evoluzione del concetto di malattia mentale, l’infermità non può essere racchiusa entro rigide classificazioni, ma deve essere interpretata in base alle norme sull’ imputabilità. Anche in giurisprudenza la nozione di infermità si è andata progressivamente affrancando da quella di malattia mentale stricto sensu. Infatti la Corte di Cassazione, nella sentenza La Placa, ha chiaramente statuito che lo stato patologico può caratterizzare non solo “le malattie (fisiche o mentali), in senso stretto, che incidono sui processi intellettivi e volitivi della persona, ma anche le anomalie psichiche, che seppure non classificabili, secondo precisi schemi nosografici, perché sprovviste di una sicura base organica, siano tali per la loro intensità da escludere o da scemare grandemente la capacità di intendere e di volere”[14].

Si assiste quindi ad una apertura verso il riconoscimento di quei disturbi che, sebbene non inquadrabili in rigide classificazioni, determinano in concreto un’esclusione (o diminuzione) della capacità di intendere e di volere. L’accoglimento di questo indirizzo determina conseguenze pratiche di rilevante importanza. Difatti, partendo dalla granitica premessa secondo cui il concetto di infermità non è sussumibile in quello di malattia mentale in quanto è un concetto più ampio, la giurisprudenza ha dato rilievo anche alle nevrosi e alle psicopatie nonché ai disturbi della personalità[15]. Significativa la sentenza della Corte di Cassazione in cui, con riferimento allo stato borderline, è stato chiarito che un simile stato limite, rilevatosi e acutizzatosi in una donna in occasione del parto, può essere considerato “uno stato morboso tale da determinare l’incapacità di intendere e di volere rispetto alla soppressione del neonato”[16]. La giurisprudenza ha anche riconosciuto la rilevanza delle “reazioni a corto circuito”, tipiche degli psicopatici che consistono in impulsi travolgenti ed incontrastabili, in veri raptus. In particolare, in una sentenza del 1997, la Corte di Cassazione sottolinea che le “reazioni a corto circuito, anche se normalmente riferibili a stati emotivi e passionali non integranti una condizione patologica, possono tuttavia costituire, in determinate situazioni, manifestazioni di una vera e propria malattia che compromette la capacità di intendere e di volere, incidendo soprattutto sull’ attitudine della persona a determinarsi in modo autonomo, con possibilità di optare per la condotta adatta al motivo più ragionevole e, quindi, di resistere agli stimoli degli avvenimenti esterni”[17].

Dunque, se rilevanti sono i risvolti pratici determinati dall’ accoglimento del paradigma giuridico in ambito giurisprudenziale, non si può, d’altro canto, trascurare che anche a livello dottrinale sono state poste le basi per una ridefinizione del concetto di infermità. In particolare, una volta contestata dalla psichiatria la capacità del tradizionale modello medico di spiegare scientificamente i molteplici disturbi catalogati nei manuali di psichiatria, nella dottrina penalistica è sorta la consapevolezza dei limiti intrinseci al paradigma medico[18]. La dottrina penalistica si è spinta oltre, riconoscendo la necessità di una modifica, de lege ferenda, dell’istituto dell’imputabilità e della connessa disciplina sul vizio di mente, dato che dalla psichiatria non è stato elaborato un valido paradigma sostitutivo a quello medico.

Si pone, insomma, la necessità di risolvere il dilemma relativo al significato della nozione di infermità; necessità che viene soddisfatta dalle Sezioni Unite nella nota sentenza Raso.

1.3 “La sentenza Raso”

Nonostante l’indirizzo psicologico si sia affermato come valida alternativa al tradizionale indirizzo medico, quest’ultimo non risulta, prima della decisiva sentenza Raso, essere stato definitivamente superato. A dimostrazione della persistenza dei due paradigmi fino ad un passato recente, basti considerare che la Corte di Cassazione, per quanto abbia tendenzialmente aderito alla concezione psicologica, ha privilegiato in alcune sentenze, anche recenti, l’adesione al tradizionale modello medico[19] e che la dottrina ha auspicato, a più riprese, un intervento riformatore.

Un’importanza notevole nell’ individuazione della soluzione più confacente al sistema normativo che possa determinare il superamento della dualità fra il paradigma medico e quello giuridico è rivestita dalla Sentenza Raso[20]. Le Sezioni Unite, in tale autorevole sentenza, partono dall’ oggettiva constatazione della persistenza di un contrasto giurisprudenziale nelle decisioni della Corte di Cassazione, contrasto incentrato sul significato attribuibile alla nozione di infermità[21].

Dato che il primo motivo di ricorso verte intorno al quesito se, ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, rientrino nel concetto di “infermità” anche i “gravi disturbi della personalità”, la Corte di Cassazione affronta tale vexata quaestio ricostruendo il paradigma evolutivo della nozione di infermità[22]. La Corte riconosce che in una prima fase il modello medico, basato sulle elaborazioni di Kraeplin, è stato l’indirizzo imperante.[23] Quindi, rintraccia l’origine di un nuovo paradigma, quello psicologico, nella diffusione della concezione freudiana basata sulla ripartizione dell’essere umano in tre entità: Es, Ego, Super Ego. Questo nuovo indirizzo determina un vero revirement, in ambito giurisprudenziale e dottrinale, in merito all’ interpretazione del concetto di infermità che si allarga per comprendere “non solo le psicosi organiche, ma anche altri disturbi morbosi dell’attività psichica, come le psicopatie, le nevrosi, i disturbi dell’affettività”[24]. Proseguendo in tale disamina, la Corte di Cassazione allude alla nascita di altri due modelli: quello sociale e quello integrato.[25] E’proprio quest’ultimo indirizzo che ripudia una concezione mono causale della malattia ad essere, secondo la Suprema Corte, quello più condiviso e condivisibile.[26]

Dopo aver ricostruito i diversi modelli interpretativi che si sono succeduti, rectius affiancati, nel corso del tempo, la Corte entra nel vivo della questione per risolvere il primo motivo di ricorso. Densa di significato è l’affermazione secondo cui “si rivendica all’ area giuridico-penale la determinazione del contenuto e della funzione del concetto di imputabilità e del vizio di mente, esso – “implicando una presa di posizione su ciò che l’ordinamento poteva pretendere da lui nella situazione data” – rimanendo una “questione normativa di ultimativa competenza del giudice, il quale ne assume la responsabilità di fronte alla società nel cui nome amministra la giustizia”.” Questa granitica premessa sta alla base della decisione della Corte in merito al riconoscimento o meno della rilevanza dei disturbi della personalità ai sensi dell’art. 88 c.p.

Sebbene, infatti, le Sezioni Unite ammettano che all’ epoca in cui il Codice Rocco vide la luce era  imperante il modello medico-nosografico, statuiscono contestualmente che non è possibile trascurare il dato incontrovertibile che i tempi sono cambiati e che l’entrata in vigore del testo costituzionale, la nascita di nuovi paradigmi accanto a quello medico e l’emergere di nuova scienza ermeneutica hanno “comportato un adeguamento delle soluzioni, sul tema della imputabilità, alle nuove prospettive ed esigenze del diritto penale moderno”. Ciò implica che non è possibile condividere l’indirizzo dottrinale che sostiene che il criterio nosografico sia stato recepito nel nostro ordinamento, in conformità alla voluntas legis. Infatti la Corte osserva che in realtà nel Codice Rocco il legislatore non ha recepito la soluzione restrittiva propria del modello medico, ma ha formulato l’art. 88 c.p. adottando la tecnica della “normazione sintetica” con il precipuo scopo di rendere necessaria una sua integrazione per via extra giuridica[27]. Non è possibile dunque accettare una soluzione preconfezionata e ritenere che un parametro anacronistico come quello medico sia cristallizzato all’ interno del nostro ordinamento. Piuttosto, è compito oneroso dell’interprete prospettare la soluzione adeguata, tenendo conto degli sviluppi medico-scientifici che inevitabilmente influenzano l’interpretazione di una nozione dai confini fluidi, quale è quella di infermità.

La Corte continua il suo iter argomentativo indicando vari elementi che suffragano la sua tesi circa il superamento del modello medico.

Nello specifico, in primis, compie delle osservazioni di carattere testuale:

  • il riferimento nell’art. 88 ad una “infermità” che induce il soggetto “in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e di volere” e non ad un’infermità mentale stricto sensu: ciò è la chiara dimostrazione di come l’attenzione vada polarizzata più sul vizio mentale che sull’infermità[28];

  • la presenza nell’art. 88 c.p. del termine “infermità”, termine dal significato più ampio di quello di malattia e, come tale, non interamente sussumibile in quest’ultimo[29];

  • lo stretto rapporto esistente fra gli artt. 85 c.p. e 88 c.p. che determina che “non interessa tanto che la condizione del soggetto sia esattamente catalogabile nel novero delle malattie elencate nei trattati di medicina, quanto che il disturbo abbia in concreto l’attitudine a compromettere gravemente la capacità sia di percepire il disvalore del fatto commesso, sia di recepire il significato del trattamento punitivo”.

In secondo luogo, la Corte avvalora la propria posizione, prendendo come punto di riferimento una fonte autorevole, cioè il Manuale Diagnostico e statistico dei disturbi mentali, il DSM-IV, messo a punto dall’American Psychiatric Association nel 1994 che enuclea i principali disturbi mentali in diciassette classi diagnostiche e, tra queste, include l’autonoma categoria nosografica dei disturbi della personalità. Tale riferimento è appropriato se si considera che nella psichiatria più recente è valorizzato il concetto nosografico di malattia mentale ancorato non più ad un quadro-tipo rigido, ma ad uno schema di classificazione come quello del DSM-IV che contiene categorie aperte e idonee a ricomprendere le eterogenee manifestazioni di disturbo mentale che è impossibile “ingabbiare” all’ interno di parametri chiusi. Infatti, come osservato dalla Corte, tale manuale menziona anche una categoria residuale, quella del “disturbo di personalità non altrimenti specificato”, che possa fungere da contenitore idoneo a ricomprendere ogni forma di disturbo non inquadrabile all’ interno delle diciassette categorie. Tale sentenza ha il grande pregio di riconoscere il legame sussistente fra giustizia penale e scienza; legame che non deve tradursi in un asservimento totale della giustizia penale alle acquisizioni scientifiche.

Degno di integrale menzione il passaggio in cui la Corte di Cassazione analizza il rapporto fra giustizia penale e scienza: ” Quanto al rapporto ed al contenuto dei due piani del giudizio (quello biologico e quello normativo), il secondo non appare poter prescindere, in ogni caso, dai contenuti del sapere scientifico, dovendosi anche ritenere superato l’orientamento inteso a sostenere la “estrema normativizzazione del giudizio sulla imputabilità”, che sostanzialmente finisce col negare la base empirica del giudizio medesimo, pervenendo “alla creazione di un concetto artificiale”; sicché, postulandosi, nella simbiosi di un piano empirico e di uno normativo, una necessaria collaborazione tra giustizia penale e scienza, a quest’ultima il giudice non può in ogni caso rinunciare – pena la impossibilità stessa di esprimere un qualsiasi giudizio – e, pur in presenza di una varietà di paradigmi interpretativi, non può che fare riferimento alle acquisizioni scientifiche che, per un verso, siano quelle più aggiornate e, per altro verso, siano quelle più generalmente accolte, più condivise, finendo col costituire generalizzata (anche se non unica, unanime) prassi applicativa dei relativi protocolli scientifici”.

In terzo luogo, le Sezione Unite fanno leva anche su un dato comparatistico, nell’ ottica di un processo di armonizzazione/confronto fra le varie legislazioni. Infatti le più recenti legislazioni di altri paesi (l’art. 122.1 del codice penale francese, modificato nel 1993; l’art. 20 del codice penale tedesco, modificato nel 1975; l’art. 37 del codice penale olandese; l’art. 20 del codice penale spagnolo, modificato nel 1995; l’art. 104 del codice penale portoghese, modificato nel 1995; l’art. 16 del codice penale sloveno del 1995; una nuova legge in materia psichiatrica introdotta in Svezia nel 1992) utilizzano formule aperte ed elastiche “idonee ad attribuire rilevanza anche ai disturbi della personalità ai fini della imputabilità del soggetto agente”. “E ciò che accomuna queste disposizioni normative appare essere non solo l’adozione di formule “aperte”, elastiche, ma anche l’aver ancorato la valutazione del disturbo alla sua incidenza sulla capacità di valutazione del fatto di reato e quindi della capacità di comportarsi secondo tale valutazione, con la prospettazione, quindi, di un nesso eziologico fra infermità e reato, assunto a requisito della non imputabilità”.

Infine, la Corte rimanda ai diversi progetti di riforma del Codice Penale nei quali appare pacifico che si debba dare rilevanza anche ai disturbi della personalità, alla luce delle più recenti acquisizioni psichiatriche, criminologiche e medico legali.

In base a tali condivisibili rilievi, la Corte giunge ad una conclusione che avrebbe dovuto dirimere ogni futuro contrasto in tema di infermità. Statuisce in maniera icastica e lapidaria che “i disturbi della personalità possono acquisire rilevanza solo ove siano di consistenza, intensità, rilevanza e gravità tali da concretamente incidere sulla capacità di intendere e di volere[30]. Vuole, cioè, dirsi che i disturbi della personalità, come in genere quelli da nevrosi e psicopatie, quand’ anche non inquadrabili nelle figure tipiche della nosografia clinica e non iscrivibili al più ristretto novero delle “malattie” mentali, possono costituire anch’ esse “infermità”, anche transeunte, rilevante ai fini degli artt. 88 e 89 c. p., ove determinino lo stesso risultato di pregiudicare, totalmente o grandemente, le capacità intellettive e volitive.”

La decisione della Corte ha il merito di mediare fra gli antitetici orientamenti elaborati: se da una parte, si prescinde dalla riconducibilità del disturbo entro una cornice rigida, dall’altra parte, per evitare una disinvolta applicazione dell’art. 88 c.p., si chiarisce che i disturbi rilevanti devono essere di “consistenza, intensità, rilevanza e gravità tali da concretamente incidere sulla capacità di intendere e di volere”. In pratica, la Corte richiede la sussistenza di precisi requisiti che possano fungere da puntelli per evitare un’eccessiva operatività dell’art. 88 c.p.; requisiti che peraltro più volte sono stati evocati dalla giurisprudenza di legittimità[31]. La diretta e logica conseguenza della necessaria presenza dei requisiti richiesti per l’affermazione di un vizio totale di mente che possa operare come causa di esclusione dell’imputabilità è indicata dalla Corte, prima di decidere sul merito.

Le Sezioni Unite statuiscono infatti che “non possono avere rilievo, ai fini della imputabilità, altre “anomalie caratteriali”, “disarmonie della personalità”, “alterazioni di tipo caratteriale”, “deviazioni del carattere e del sentimento”, quelle legate “alla indole” del soggetto, che, pur afferendo alla sfera del processo psichico di determinazione e di inibizione, non si rivestano, tuttavia, delle connotazioni testé indicate e non attingano, quindi, a quel rilievo di incisività sulla capacità di autodeterminazione del soggetto agente, nei termini e nella misura voluta dalla norma, secondo quanto sopra si è detto”.

1.4 Dottrina e giurisprudenza post “sentenza Raso”

La sentenza Raso si configura come un punto di riferimento fondamentale per l’interpretazione della nozione di infermità rilevante ai sensi dell’art. 88 c.p. Oggetto di attenzione e di analisi da parte della dottrina penalistica, tale decisione ha influenzato profondamente l’iter giurisprudenziale successivo. È innegabile infatti che dopo la statuizione delle Sezioni Unite i giudici attingono a tale sentenza per dirimere i problemi applicativi legati all’art. 88 c.p. e, in particolare, per stabilire la sussistenza o meno di un vizio di mente che possa operare come causa di esclusione dell’imputabilità.

Per quanto riguarda il panorama dottrinale, degna di considerazione è la riflessione del giurista Domenico Pulitanò che rileva come il principio “di diritto” consacrato nella sentenza stia nel riconoscimento di un collegamento aperto fra il diritto ed un sapere scientifico in costante ed inarrestabile evoluzione e come la conclusione sui disturbi della personalità sia un corollario di tale premessa e non la sostanza giuridica della decisione[32]. Tale statuizione è condivisibile in quanto conferma l’assodata relazione fra scienza e diritto; relazione che ha determinato dapprima la riconsiderazione e poi il superamento di un paradigma medico che, alla luce delle recenti acquisizioni scientifiche, risulta essere anacronistico. D’altronde, lo stesso Pulitanò ha a più riprese messo in evidenza il collegamento fra scienza e diritto, sostenendo che “dalle scienze, il diritto si attende il sapere sul mondo di cui ha bisogno: conoscenze fattuali, leggi scientifiche, criteri di accertamento dei fatti”[33]. Rilevante anche il contributo del Fiandaca sulla sentenza Raso. Il giurista, una volta stabilito il legame inscindibile fra scienza e diritto, osserva giustamente come sia difficile che l’incertezza intrinseca del sapere psichiatrico possa essere colmata e controbilanciata da un uso avveduto e controllato delle categorie penalistiche. A tal proposito, Maria Militello riconosce che nella sentenza in esame le Sezioni Unite mostrano la chiara volontà di aderire a quell’ orientamento proprio della scienza psichiatrica che ritiene rilevante l’accertamento della compromissione della capacità di intendere e di volere determinata dall’ anomalia, a prescindere dalla sua riconducibilità all’ interno di un preciso quadro clinico[34]. D’ altronde, è palese che la Cassazione privilegia un’impostazione volta a riconoscere rilevanza anche a quei disturbi della personalità che, sebbene non sussumibili entro rigide classificazione mediche, abbiano concretamente eliso (o diminuito) la capacità di intendere e di volere.

A livello giurisprudenziale, è possibile cogliere la funzione orientativa della sentenza del 2005 da un dato oggettivo ed inconfutabile: la giurisprudenza successiva alla Sentenza Raso non si è, tendenzialmente, discostata dal principio di diritto scolpito in essa[35].

Così si è affermato, in perfetta consonanza al tenore della sentenza del 25 gennaio 2005, che “l’infermità mentale di cui agli articoli 88 e 89 c.p. è un concetto più ampio rispetto a quello di malattia mentale potendo in essa rientrare anche i disturbi della personalità che per consistenza, rilevanza e gravità siano tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere e di volere, proponendosi, quindi come causa idonea ad escluderla o a scemarla[36]. O ancora la sentenza Raso viene puntualmente richiamata dai giudici di legittimità, come vero e proprio “precedente giuridico” da tenere in considerazione: “in linea con quanto affermato dalle Sezioni Unite, ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i disturbi della personalità possono rientrare nel concetto di infermità rilevante ex artt. 88 e 89 c.p., purchè però da un lato siano di intensità tale da escludere o scemare grandemente la capacità di intendere e di volere e, dall’ altro, siano legati da un nesso eziologico con la condotta criminosa”[37].

Conforme a tale orientamento, la paradigmatica sentenza della Cassazione 48841/2013, incentrata sull’ esistenza di un disturbo dell’adattamento dipendente da una situazione psichica riconducibile al lavoro ed in particolar, ad un fenomeno di mobbing, causa di stress.

Tale caso è richiamato dalla Corte nella sentenza 45156/2015 per motivare la decisione di annullamento con rinvio della sentenza della Corte di Appello di Milano che aveva confermato la decisione del giudice dell’udienza preliminare del tribunale della medesima città con cui F.S. era stato dichiarato colpevole del delitto di rapina. L’imputato, a mezzo del proprio difensore, presenta ricorso per Cassazione deducendo fra i motivi[38] la violazione degli articoli 88-89 c.p. Infatti, la difesa, in punto di fatto, rileva che F.S., affetto dal morbo di Parkinson, ha sviluppato un impulso indomabile al gioco di azzardo, a causa dei farmaci assunti, e che ha commesso la rapina per procurarsi il denaro necessario per giocare. La Corte di Appello aveva negato la sussistenza del vizio di mente, adducendo la seguente testuale motivazione: “la Corte rileva che, se pure i farmaci assunti dall’appellante, potessero aver aumentato l’impulso al gioco d’azzardo, sicuramente non potevano aver influito sulla sua determinazione a procurarsi il denaro per ripianare i debiti del gioco, perché non era dovuta ad un impulso ‘compulsivo- la pianificazione di procurarsi il denaro che gli serviva, attraverso la commissione di una rapina, ma proprio per questo motivo F. era uscito di casa, armato di un coltello di grandi dimensioni, che aveva usato per minacciare il farmacista, dopo aver valutato, nell’arco di diverse ore, che per lui tale azione era maggiormente praticabile, rispetto all’aggressione e alla minaccia rivolta a qualche persona per la strada alla quale sottrarre la borsa, scegliendo quindi il modo di agire; nessuna azione di impulso era stata da lui compiuta”. La difesa non condivide tale motivazione in quanto risulta “incentrata sui requisiti della colpevolezza e della conseguente sussistenza del dolo desunta dall’ammissione dell’ideazione del reato causa i debiti di gioco da una parte, e dall’assenza di ‘compulsività’ nella condotta del F. dall’altra, ma non una parola è spesa per trattare la questione pregiudiziale dell’imputabilità, posto che la sentenza impugnata è incorsa nell’errore di assimilare quest’ultima categoria giuridica in quella diversa della ‘colpevolezza”.

La Sezione II della Corte di Cassazione ritiene fondata la censura in merito alla violazione degli artt. 88-89 c.p. sia in punto di fatto[39] sia in punto di diritto. Interessante, ai fini della ricostruzione dell’orientamento giurisprudenziale dopo la sentenza Raso, è l’analisi dell’iter argomentativo in punto di diritto seguito dai giudici di legittimità. In primo luogo, la Corte fonda la propria decisione sull ’incontestabile rilievo che il soggetto non è imputabile qualora venga meno la capacità di intendere e/o la capacità di volere[40]. Infatti è assunto generale che a fronte di una formula unitaria per contraddistinguere l’imputabilità, i concetti di “capacità di intendere” e “capacità di volere” vanno interpretati come due concetti autonomi fra loro. Conseguenza pratica ne è appunto che per escludere o limitare l’imputabilità basta accertare il venir meno di una delle due capacità.

Partendo da questa granitica ed incontestabile premessa la Corte giunge alla conclusione che “ in tema di imputabilità, l’assenza della capacità di volere può assumere rilevanza autonoma e decisiva, valorizzabile agli effetti del giudizio ex artt. 85 e 88 cod. pen., anche in presenza di accertata capacità di intendere (e di comprendere il disvalore sociale della azione delittuosa), ove sussistano due essenziali e concorrenti condizioni: a) gli impulsi all’azione che l’agente percepisce e riconosce come riprovevole (in quanto dotato di capacità di intendere) siano di tale ampiezza e consistenza da vanificare la capacità di apprezzarne le conseguenze; b) ricorra un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato da quello specifico disturbo mentale, che deve appunto essere ritenuto idoneo ad alterare non l’intendere, ma il solo volere dell’autore della condotta illecita”. Nel caso di specie, risulta che la Corte di Appello ha motivato la propria decisione con riferimento alla sussistenza della sola capacità di intendere, ma non ha, d’altro canto, accertato la sussistenza della capacità di volere.

In secondo luogo, la Corte di Cassazione si sofferma sulla questione relativa al significato del termine “infermità”. Testualmente afferma che “in tema di imputabilità, ai fini del riconoscimento dei vizio totale o parziale di mente, possono rientrare nel concetto di ‘infermità’ anche i disturbi della personalità o comunque tutte quelle anomalie psichiche non inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, purchè siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere e di volere, escludendola o facendola scemare grandemente, e sussista un nesso eziologico tra disturbo mentale e condotta criminosa, mentre nessun rilievo deve riconoscersi ad altre anomalie caratteriali o alterazioni o disarmonie della personalità prive dei caratteri predetti, nonché agli stati emotivi e passionali che non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di infermità”. Questa parte della sentenza dimostra che la Sezione II, nel caso in esame, ancora la propria valutazione al principio di diritto consacrato dalla Cassazione nel 2005. Infatti, nell’ annullare la sentenza di rinvio, la Corte di Cassazione stabilisce che nel nuovo giudizio la Corte d’Appello dovrà, in primis, accertare “se la conclamata patologia da gioco di azzardo da cui il F. era affetto, fosse di natura tale da poter rientrare o meno nel concetto di infermità”, tenendo conto della definizione di infermità accolta in seno alla giurisprudenza di legittimità.

È dunque ragionevole ritenere che i giudici intendano percorrere il cammino indicato dalle Sezioni Unite nella nota sentenza Raso, in tema di inclusione all’ interno dell’infermità, rilevante ai sensi dell’art. 88 c.p., dei disturbi della personalità purchè dotati dei requisiti richiesti. La sentenza del 2005 è, in termini metaforici, una sorta di faro che illumina il modus operandi dei giudici i quali necessitano di precisi punti di riferimento a fronte dei fisiologici mutamenti che investono il diritto, branca del sapere costantemente in fieri.

1.5 Prospettive de iure condendo

La sentenza Raso rappresenta sicuramente un imprescindibile punto di riferimento nella storia della giurisprudenza italiana. Essa ha il pregio di legare gli assetti del passato a quelli del presente, di trovare una perfetta soluzione di sintesi fra i vari paradigmi nonché di contemperare le diverse istanze sottese all’ istituto dell’imputabilità.

Tuttavia, la querelle interpretativa non è stata ancora definitivamente superata. Se è vero che il paradigma giuridico è il paradigma prevalente, è anche vero che non è l’unico paradigma, in quanto l’antitetico modello medico non è definitivamente accantonato. La contrapposizione fra i due diversi paradigmi si spiega se si considera che l’accoglimento dell’uno piuttosto che dell’altro determina riflessi pratici di notevole rilievo. Infatti, appare palese come, al di là della questione meramente nominalistica, la preferenza verso il modello medico o verso il modello giuridico dipenda dalle finalità che si intendono perseguire. Se prevalgono le istanze di difesa sociale, si nega l’ampliamento del concetto di infermità. Difatti, un’estensione dell’ambito di operatività dell’art. 88 c.p. porta a disinvolte assoluzioni, giustificate dalla sussistenza di generici “disturbi mentali”, e alla totale deresponsabilizzazione dei soggetti affetti da disturbi anche lievi, in quanto potrebbero confidare in un’esenzione da pena tout court. Se invece prevale la necessità di rispettare la ratio propria dell’istituto dell’imputabilità, si finisce per ritenere necessario e non più procrastinabile l’ampliamento del concetto di imputabilità per garantire la corretta applicazione dell’art. 85 c.p.

Data la persistenza di un dibattito che affonda le proprie radici in un passato ormai remoto, non è forse lecito, o meglio auspicabile, un intervento del legislatore de iure condendo? D’ altronde la mancanza di determinatezza dell’art. 88 c.p. che non definisce in maniera sufficientemente tipizzata la fattispecie è stata la causa della nascita dei vari paradigmi interpretativi. Per tale ragione, da più parti si è auspicato un intervento riformistico volto a definire in maniera più chiara il vizio di mente e ad integrare il tanto discusso concetto di infermità.

I diversi progetti riformistici di Codice Penale che sono stati elaborati hanno affrontato la questione relativa alla presunta incompletezza/indeterminatezza dell’art.88 c.p., con riferimento alla nozione di infermità.

Nel progetto Pagliaro[41] è prevista all’art. 34 la esclusione della imputabilità per il soggetto che, al momento della condotta, “era, per infermità di mente o per altra anomalia…, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere o di volere”. La novità risiede nell’ esplicito riferimento, accanto all’ infermità, all’ “anomalia”, nozione di ampio respiro in grado di ricomprendere ogni forma di disturbo. Questa soluzione avrebbe determinato l’accoglimento, a livello normativo, del paradigma giuridico ed il superamento dei dubbi ingenerati dall’ uso nel Codice del 1930 di un termine ristretto e bisogno di un’interpretazione extra giuridica, quale quello di infermità.

Analogamente nel Progetto Ritz[42] è stabilito all’ art. 83 che “non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità o per gravissima anomalia psichica, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e di volere”. La specificazione della gravità risulta condivisibile in quanto in tal modo l’estensione dell’ambito operativo dell’art. 88 c.p., determinata dall’ inserimento all’ interno dell’articolo dell’“anomalia”, non avverrebbe in maniera eccessiva ed indiscriminata, essendo necessario valutare preliminarmente la gravità del disturbo nel singolo caso concreto.

Medesima soluzione viene accolta nel Progetto Grosso[43], nel testo del 12 settembre 2000. L’ art. 96 recita che “non è imputabile chi, per infermità o per altra grave anomalia…., nel momento in cui ha commesso il fatto, era in condizioni di mente tali da escludere la possibilità di comprendere l’illiceità del fatto o di agire in conformità a tale valutazione”. Dalla Relazione di tale Progetto si evince che la Commissione propende per una modifica legislativa che integri lo scarno riferimento all’ infermità per illuminare le decisioni dei giudici dinnanzi ai casi più controversi. Si legge nella Relazione che “potrebbe anche ritenersi sufficiente la formula del codice vigente, incentrata sul concetto di infermità, alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale cui essa ha dato luogo; ma che, nondimeno, si ritiene preferibile un chiarimento legislativo, mediante l’introduzione, accanto alla infermità, della formula della grave anomalia psichica, che renderebbe più sicura la strada per una possibile rilevanza, quali cause di esclusione dell’imputabilità, di situazioni problematiche, come le nevrosi e le psicopatie, o stati momentanei di profondo disturbo emotivo, che fossero tali da togliere base ad un ragionevole rimprovero di colpevolezza”. Successivamente nella versione del 26 maggio 2001 dello stesso Progetto, si sostituisce la nozione di “grave anomalia” con quella di “grave disturbo della personalità”. Infatti l’art 96. prevede che “non è imputabile chi, per infermità o altro grave disturbo della personalità…, nel momento in cui ha commesso il fatto era in condizioni di mente tali da escludere la possibilità di comprendere il significato del fatto o di agire in conformità a tale valutazione”. Tale sostituzione è giustificata, come magistralmente affermato nella sentenza Raso, sia per lo scetticismo mostrato dalla scienza psichiatrica che preferisce l’ utilizzo della più scientifica definizione “disturbo mentale” sia per le critiche mosse dalla dottrina penalistica che ha rilevato come il generico termine “anomalia” si affianchi a quello altrettanto generico di “infermità” con il rischio di aprire varchi eccessivi a disturbi minori, senza che il richiamo alla “gravità” possa fungere da serio elemento frenante.

Nel Progetto Nordio[44] del 2004 all’ art. 48 si legge, invece, sic et simpliciter, che “nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come reato se nel momento della condotta costitutiva non aveva, per infermità, la capacità di intendere e di volere, sempre che il fatto sia stato condizionato dalla incapacità. Agli effetti della legge penale la capacità di intendere e di volere è intesa come possibilità di comprendere il significato del fatto e di agire in conformità a tale valutazione”. Tale Progetto, in controtendenza agli altri Progetti di riforma, propone il mantenimento del riferimento al solo concetto di infermità. Il motivo di tale scelta è spiegato nel commento di accompagnamento ove è chiarito che “si ritiene irrinunciabile il riferimento all’ infermità, pur tenendosi presenti i diversi orientamenti teorici, sulla base delle classiche acquisizioni scientifiche della psichiatria, della criminologia e della medicina legale, onde evitare gli sbandamenti applicativi – con apertura a tutti i più originali e diversificati fenomeni in chiave meramente psicologica od emozionale – quanto mai da impedire in questo delicato campo, quali connessi a formule generiche ed onnicomprensive del tipo disturbo psichico, disturbo della personalità, psicopatia”.

Comparando i diversi Progetti di riforma emerge in maniera trasparente la volontà di procedere ad una riscrittura, rectius integrazione, dell’art. 88 c.p. attraverso l’inserimento, accanto al tradizionale concetto di infermità, di formule aperte e flessibili in grado di ricomprendere i molteplici disturbi che possono affliggere la psiche umana e che non possono essere incardinati entro predefiniti parametri. Solo nel Progetto Nordio sembra prevalere invece la necessità di mantenere l’attuale formulazione dell’art.88 c.p. per evitare quelli che vengono definiti nel commento di accompagnamento “sbandamenti applicativi”.

Inoltre, un intervento risolutore del legislatore è preferibile per allineare la nostra legislazione agli standard adoperati dalle legislazioni più moderne degli Stati Europei e per evitare che il nostro Codice Penale sia un codice “non più al passo con i tempi”.

Infatti, il Codice penale francese, il Codice Penale tedesco, come modificato nel 1975, il   Codice Penale olandese, il Codice Penale spagnolo, come modificato nel 1995, il Codice Penale portoghese e il Codice Penale sloveno utilizzano clausole aperte per identificare i disturbi rilevanti e si discostano quindi dalla scelta adottata dal legislatore italiano del 1930.

Infine, per completare l’individuazione degli elementi che depongono a favore di una modifica legislativa de iure condendo, non si può non ricordare che è stata sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 88 c.p. (insieme agli artt. 85, 89 e 90 c.p.) in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione.

Il rimettente, cioè il Tribunale di Ancora, osserva in via preliminare come il tenore dell’art. 88 c.p. abbia alimentato, in ambito giurisprudenziale, la tendenza ad identificare l’infermità di mente in una patologica clinicamente accertata che abbia una base organica “limitando quindi, di regola, le infermità rilevanti alle sole psicosi, con esclusione, invece, delle c.d. nevrosi”. Tale orientamento non è condiviso dal Tribunale[45] che ritiene, in conclusione, che la base scientifica su cui poggiano le norme richiamate sia “incontrovertibilmente erronea” o determini, comunque, “un livello di indeterminatezza tale da non consentire in alcun modo un’interpretazione ed un’applicazione razionali da parte del giudice”. Da qui, il rimettente postula il contrasto fra l’art. 88 c.p. (e gli altri articoli oggetto del ricorso) con il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. e con il principio del giusto processo di cui all’ art. 111 Cost. e auspica l’eliminazione di tale norma dal sistema[46].

La Corte Costituzionale con sentenza 374/2004 dichiara inammissibile la questione prospettata in quanto la rilevanza della questione appare puramente ipotetica ed eventuale poiché il Tribunale di Ancona formula il quesito di costituzionalità prima ancora di aver accertato se l’imputato fosse concretamente affetto, al momento del fatto, da un qualche disturbo mentale. La doglianza che fonda il quesito è, difatti, nella sostanza, una doglianza di inadeguatezza “per difetto” della vigente disciplina: il rimettente si limita a reputare piuttosto ingiustificata la radicale esclusione dal novero delle infermità rilevanti di alcuni disturbi quali le nevrosi e i disturbi della personalità.

La decisione della Corte è razionale e condivisibile, in quanto una pronuncia di illegittimità costituzionale avrebbe determinato un intervento che in realtà spetta al legislatore, unico organo in grado di dirimere la vexata quaestio. Alla luce di tale rilievi, è dunque auspicabile e ipotizzabile un intervento riformistico de iure condendo.


[1] L’ art. 88 c.p. recita: “Non è imputabile chi nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere o di volere”.
[2] Militello M., Imputabilità, infermità di mente e disturbi della personalità nella evoluzione giurisprudenziale, in “Diritto e formazione”, XII, 2005, pp. 1601-1608.
[3] Cassazione Penale 10 gennaio 1984.
[4] Cassazione Penale 23 ottobre 1978.
[5] A tal proposito, illuminante la Sentenza della Cassazione del 2 luglio del 1990 nella quale è stato statuito che le psicopatie, in linea di massima irrilevanti secondo il paradigma medico, possono escludere l’imputabilità quando si innestano in uno stato patologico che altera la capacità di intendere e di volere.
[6] BERTOLINO M., Raccolta di studi di Diritto Penale. Fondata da G. Delitala. Diretta da A. Crespi.. 47: M.Bertolino, L’imputabilità e il vizio di mente nel sistema penale, Giuffrè, Milano, 1990, pp. 396-397.
[7] MOSCARINI P., La verifica dell’infermità mentale nell’accertamento giudiziario penale, in “Diritto penale e processo”, VIII, 2017, pp. 985-995.
[8] La “psicologia del profondo” si avvale di un metodo di indagine che correla l’Io con gli strati psichici non attinenti all’Io. Esponente di spicco di tale indirizzo è Sigmund Freud.
[9] “All’epoca in cui venne emanato l’attuale codice penale era ancora imperante il paradigma medico-organicistico, ancorchè già messo in crisi, quantomeno in termini di certezza, dalle altre proposte del modello psicologico, poi successivamente diffusosi. Ed il legislatore dell’epoca, mosso da un intento general-preventivo, mirante a bloccare alla radice dispute avanzate su basi malsicure e pretestuose (…), quindi, poteva fare affidamento su concetti ai quali si riconosceva una corrispondente base empirica: quello di infermità mentale identificava la malattia mentale in senso medico-nosografico”.
[10] “La malattia di mente rilevante per la sua esclusione o riduzione è solo quella medico-legale, dipendente da uno stato patologico serio che comporti una degenerazione della sfera intellettiva o volitiva della gente. Ne consegue che la capacità di intendere e di volere non è esclusa dal fatto che il soggetto sia affetto non da infermità in senso patologico, ma solo da anomalie psichiche o da disturbi della personalità (Cass, sez.I, 25 marzo 2004-9 aprile 2004, n. 16940)”.
[11] “Le anomalie che influiscono sulla capacità di intendere e di volere sono le malattie mentali in senso stretto, cioè le insufficienze cerebrali originarie e quelle derivanti da conseguenze stabilizzate di danni cerebrali di varia natura, nonché le psicosi acute o croniche, contraddistinte quest’ultime, da un complesso di fenomeni psichici che differiscono da quelli tipici di uno stato di normalità per qualità e non per quantità. Ne consegue che esula dalla nozione di infermità mentale il gruppo delle cosiddette abnormità psichiche, come le nevrosi e le psicopatie, che non sono indicative di uno stato morboso e si sostanziano in anomalie del carattere non rilevanti ai fini dell’applicabilità degli articoli 88-89 c.p. in quanto hanno natura transeunte, si riferiscono alla sfera psico-intellettiva e volitiva e costituiscono il naturale portato di stati emotivi e passionali (Cass., sez. VI, 7 aprile 2003-22 maggio 2003, n. 22765)”.
[12] Con riferimento agli stati emotivi e passionali, l’ 90 c.p. prevede che “gli stati emotivi e passionali non escludono né diminuiscono l’imputabilità”. Nonostante larga parte della dottrina reputi tale norma poco utile, si coglie l’intento del legislatore di evitare un’ampia applicazione dell’ inimputabilità che porterebbe ad escludere la configurabilità del reato in tutti quei casi in cui il fatto sia sorretto “da stati emotivi e passionali”. La Corte di Cassazione, pur rispettosa della volontà del legislatore, ha precisato che gli stati emotivi e passionali possono essere rilevanti ai fini dell’eliminazione o della attenuazione della capacità di intendere e di volere quando “essi, esorbitando dalla sfera puramente psicologica, degenerino in un vero e proprio, anche se transitorio, squilibrio mentale tale da obnubilare, da attenuare la coscienza e da paralizzare totalmente o notevolmente i freni inibitori e connessi alla loro volontà”. Questo apprezzabile chiarimento, volto a mitigare il rigore del dettato normativo, è la lampante dimostrazione che le cause patologiche di esclusione o limitazione della capacità di intendere e di volere codificate dal legislatore non danno luogo ad un elenco tassativo, ma costituiscono un mero elenco esemplificativo, soggetto, come tale, ad integrazioni.
[13] Infatti, l’art. 85 c.p. prevede che “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile. È imputabile chi ha capacità di intendere e di volere”.
[14] Cass. 25.2.1991, La Placa, CED 187953.
[15] “Il concetto di infermità è più ampio rispetto a quello di malattia mentale di guisa che, non essendo tutte le malattie di mente inquadrate nella classificazione scientifica della infermità, nella categoria dei malati di mente potrebbero rientrare anche dei soggetti affetti da nevrosi e psicopatie, nel caso che queste si manifestino con elevato grado di intensità e con forme piu’ complesse tanto da integrare gli estremi di una vera e propria psicosi (Cass 24.4.2003)”.
[16] Cass 24.2.1986.
[17] LATTANZI G., Codice penale annotato con la giurisprudenza, Giuffrè, Milano, 2016, pp. 427-428.
[18] BERTOLINO M., Raccolta di studi di Diritto Penale. Fondata da G. Delitala. Diretta da A. Crespi.. 47: M.Bertolino, L’imputabilità e il vizio di mente nel sistema penale, Giuffrè, Milano, 1990, pp. 412-414.
[19] “Esula dalla nozione di infermità mentale il gruppo delle cosiddette abnormità psichiche, come le nevrosi e le psicopatie, che non sono indicative di uno stato morboso e si sostanziano in anomalie del carattere non rilevanti ai fini dell’applicabilità degli art. 88-89 c.p., in quanto hanno natura transeunte, si riferiscono alla sfera psico-intellettiva e volitiva e costituiscono il naturale portato di stati emotivi e passionali (Cass 5.6.2003 CED 225560)”.
[20] Sezioni Unite 8 marzo 2005 n.9163.
[21] “Si registra da tempo un contrasto giurisprudenziale nelle decisioni di questa Suprema Corte. Le oscillazioni interpretative sono state essenzialmente determinate dal difficile rapporto tra giustizia penale e scienza psichiatrica, insorto dal momento in cui quest’ultima ha sottoposto a revisione critica paradigmi in precedenza condivisi, ponendo in crisi tradizionali elaborazioni metodologiche e, nel contempo, legittimando una sempre più accentuata tendenza verso il pluralismo interpretativo; sicché accanto ad un indirizzo “medico” (all’interno del quale si sono distinti un orientamento “organicista” ed uno “nosografico”), si è proposto quello “giuridico” (volta a volta accompagnato, o temperato, dal criterio della patologicità, da quello della intensità, da quello eziologico), che ha, in sostanza, sviluppato una nozione più ampia di infermità rispetto a quello di malattia psichiatrica”.
[22] Il primo motivo di ricorso è espresso dalla Corte in questi termini: “vizi di violazione di legge e di motivazione, in relazione agli artt. 89, 575 c.p.. Deduce che la sentenza impugnata non aveva tenuto conto degli esiti delle disposte consulenze e perizia, e contraddittoriamente aveva escluso la seminfermità di mente, pur dando atto che “la personalità dell’imputato era certamente disturbata… e che tale disturbo fornì all’imputato stesso gli impulsi anomali a commettere quei particolari delitti contestatigli e, con la pressione di un violento ed esasperato vissuto di persecuzione, gli attenuò le capacità di autocontrollo’”. In particolare, nel primo motivo di ricorso si afferma (ed in ciò sta il perno della questione che “la varietà delle infermità mentali è così complessa che non può racchiudersi nell’ambito di tipologie circoscritte alla malattia”) che (all’uopo richiamando arresti giurisprudenziali di questa Suprema Corte) “anche le anomalie psichiche costituiscono vera e propria malattia ai sensi della legge penale quando abbiano avuto un sicuro determinismo rispetto all’azione delittuosa e quindi ‘un rapporto motivante con il fatto delittuoso commesso’…”.
[23]“Secondo il più tradizionale e risalente paradigma medico, le infermità mentali sono vere e proprie malattie del cervello o del sistema nervoso, aventi, per ciò, un substrato organico o biologico. Tale modello nosografico (compiutamente elaborato da Emil Kraepelin sul finire dell’ottocento) afferma, in sostanza, la piena identità tra l’infermità di mente ed ogni altra manifestazione patologica sostanziale, postula la configurazione di specifici modelli di infermità e della loro sintomatologia, propone il disturbo psichico come infermità “certa e documentabile”, escludendosi ogni peculiarità, sotto tale profilo, rispetto ad altre manifestazioni patologiche; e comporta, quindi, che in tanto un disturbo psichico possa essere riconducibile ad una malattia mentale, in quanto sia nosograficamente inquadrato. Se ne è, quindi, inferito, tra l’altro, che l’accertamento della causa organica rimarrebbe assorbito dalla sussumibilità del disturbo nelle classificazioni nosografiche elaborate dalla scienza psichiatrica, nel “quadro-tipo di una determinata malattia” (per cui “quando il disturbo psichico e aspecifico non corrisponde al quadro-tipo di una data malattia, non esiste uno stato patologico coincidente col vizio parziale di mente”: così, ad esempio, Cass., Sez. I, n. 930/1979). Pur nell’ambito di tale paradigma, non mancano, tuttavia, diversi riferimenti ad una prospettiva c.d. psicopatologica, per la quale il vizio di mente è da riconoscere in presenza di uno stato o processo morboso, indipendentemente dall’accertamento di un substrato organico e di una sua classificazione nella nosografia ufficiale (si è affermato, quindi, che, “se è esatto che il vizio di mente può sussistere anche in mancanza di una malattia di mente tipica, inquadrata nella classificazione scientifica delle infermità mentali, è pur sempre necessario che il vizio parziale discenda da uno stato morboso, dipendente da una alterazione patologica clinicamente accertabile…”: così Cass., Sez. I, n. 9739/1997)”.
[24] “Agli albori del ‘900, sotto l’influenza dell’opera freudiana (e con la scoperta dell’inconscio, di un mondo, cioè, nascosto dentro di noi, “privo di confini fisiologicamente individuabili”, attraverso l’esame dei tre livelli della personalità: l’Es, il livello più basso e originario, permanentemente inconscio; l’Io, la parte ampiamente conscia, che obbedisce al principio di realtà; il Super-io, che costituisce la “coscienza sociale” e consente la interiorizzazione dei valori e delle norme sociali), prese a proporsi un diverso paradigma, quello psicologico, per il quale i disturbi mentali rappresentano disarmonie dell’apparato psichico, nelle quali la realtà inconscia prevale sul mondo reale, e nel loro studio vanno individuate le costanti che regolano gli avvenimenti psicologici, valorizzando i fatti interpersonali, di carattere dinamico, piuttosto che quelli biologici, di carattere statico. I disturbi mentali vengono, quindi, ricondotti a “disarmonie dell’apparato psichico in cui le fantasie inconsce raggiungono un tale potere che la realtà psicologica diventa, per il soggetto, più significante della realtà esterna” e, “quando questa realtà inconscia prevale sul mondo reale, si manifesta la malattia mentale”. Il concetto di infermità, quindi, si allarga, fino a comprendere non solo le psicosi organiche, ma anche altri disturbi morbosi dell’attività psichica, come le psicopatie, le nevrosi, i disturbi dell’affettività: oggetto dell’indagine, quindi, non è più la persona-corpo, ma la persona-psiche”.
[25] “Intorno agli anni ‘70 del secolo scorso si è proposto un altro indirizzo, quello sociologico, per il quale la malattia mentale è disturbo psicologico avente origine sociale, non più attribuibile ad una causa individuale di natura organica o psicologica, ma a relazioni inadeguate nell’ambiente in cui il soggetto vive; esso nega la natura fisiologica dell’infermità e pone in discussione anche la sua natura psicologica ed i principi della psichiatria classica, proponendo, in sostanza, un concetto di infermità di mente come “malattia sociale”. Dal nucleo di tale indirizzo si sono, quindi, sviluppati orientamenti scientifici che rifiutano l’esistenza della malattia mentale come fenomeno organico o psicopatologico (la c.d. “antipsichiatria”, o “psichiatria alternativa”). Nella scienza psichiatrica attuale sono presenti orientamenti che affermano un “modello integrato” della malattia mentale, in grado di spiegare il disturbo psichico sulla base di diverse ipotesi esplicative della sua natura e della sua origine: trattasi, in sostanza, di “una visione integrata, che tenga conto di tutte le variabili, biologiche, psicologiche, sociali, relazionali, che entrano in gioco nel determinismo della malattia”, in tal guisa superandosi la visione eziologica monocausale della malattia mentale, pervenendosi ad una concezione “multifattoriale integrata. In dipendenza di tale prospettiva, trovano nuovo spazio gli orientamenti ispirati ad una prevalenza del dato medico, valorizzanti l’eziologia biologica della malattia mentale (psichiatria c.d. biologica), e, contro i rischi di un facile approccio biologico, si sviluppa la c.d. psichiatria dinamico-strutturale, che considera il comportamento umano sotto il duplice aspetto biologico e psichico. Si assiste anche ad una rivalutazione del metodo nosografico, cui, tuttavia, non si attribuisce, come per il passato, un ruolo di rigido codice psichiatrico di interpretazione e diagnosi della malattia mentale, ma piuttosto quello di “una forma di linguaggio che deve trovare il più ampio consenso onde, raggiunta la massima diffusione, consenta la massima comprensione” . In tale contesto, i più accreditati sistemi di classificazione (ad esempio, il DSM-IV, o l’ICPC o l’ICD-10) dovrebbero assumere il valore di parametri di riferimento aperto, in grado di comporre le divergenti teorie interpretative della malattia mentale e fungere, quindi, da contenitori unici”.
[26] “È stato anche rilevato che può, oggi, sicuramente ritenersi superata una concezione unitaria di malattia mentale, affermatasi, invece, una concezione integrata di essa, che comporta, tra l’altro, un approccio il più possibile individualizzato, con esclusione del ricorso a categorie o a vecchi e rigidi schemi nosografici”.
[27]Il legislatore rinuncia in partenza a definire in termini descrittivi tutti i parametri della fattispecie, ma mediante una formula di sintesi (elemento normativo) rinvia ad una realtà valutativa contenuta in una norma diversa, giuridica o extragiuridica (etica, sociale, psichiatrica, psicologica)”.
[28] Il discorso è esteso dalla Corte anche all’art 89 c.p., quindi anche al vizio parziale di mente.
[29] “ll termine “infermità”, invece, dal latino infirmitas, a sua volta derivato da infirmus (in privativo e firmus, fermo, saldo, forte), è dai dizionari della lingua italiana assunto come “termine generico per indicare qualsiasi malattia che colpisca l’organismo (o, più precisamente, lo stato, la condizione di chi ne è affetto), soprattutto se permanente o di lunga durata e tale da immobilizzare l’individuo, o da renderlo totalmente o parzialmente inabile alle sue normali attività….”; esso indica la “condizione di chi è ammalato, invalido. In particolare: qualsiasi tipo di malattia o di affezione morbosa, per lo più grave e di carattere permanente, che colpisce una persona, o, per estensione, il corpo, un suo membro, una sua parte…. Difetto fisico, menomazione… Insufficienza, deficienza; inadeguatezza…”. E la predetta sentenza di questa Suprema Corte ulteriormente rileva che tale termine “esprime un concetto statico, un modo di essere senza alcun riferimento al tempo di durata…”; sicché, in sostanza, “la nozione medico-legale di ‘malattia di mente viene identificata nell’ambito della più vasta categoria delle ‘infermità’…”, riconoscendosi “un valore generico al termine ‘infermità’ e un valore specifico al termine ‘malattia’…”.
[30] CARUSO G.-SBABO E. in RONCO M.- ARDIZZONE S., Codice penale annotato con la giurisprudenza, UTET giuridica, Torino, 2008.
[31] “Tali requisiti ha più volte evocato la giurisprudenza di questa Suprema Corte che ha esaminato la incidenza, in subiecta materia, per lo più delle psicopatie, nel cui novero sono ascrivibili, come s’é detto, i disturbi della personalità. Si è, così, fatto riferimento, nei diversi e variegati contesti motivazionali apprezzati, ai casi in cui “… “le c.d. personalità psicopatiche…, per la loro gravità, cagionino un vero e proprio stato patologico, uno squilibrio mentale incidente sulla capacità di intendere e di volere” (Cass., Sez. I, n. 33130/2004 , in una fattispecie in cui è stata esclusa la rilevanza di un disturbo della personalità di tipo bordeline, “analiticamente e puntualmente motivato”; id., Sez. VI, n. 7845/1997, ancora in tema di un disturbo della personalità bordeline); al “carattere di cogente imperatività” (Cass., Sez. I, n. 27708/2004, in riferimento a “disturbo delirante cronico”); alla infermità “che incida in modo rilevante sui processi intellettivi e volitivi”, rendendo il soggetto incapace “di rendersi conto del valore delle proprie azioni e di determinarsi in modo coerente con le rappresentazioni apprese” (Cass., Sez. I, n. 24255/2004, a proposito di “particolari tratti della personalità” e di un prospettato, ma escluso, “disturbo bordeline di personalità”); alla manifestazione del disturbo “con elevato grado di intensità e con forme più complesse tanto da integrare gli estremi di una vera e propria psicosi” (Cass., Sez. I, n. 19532/2003, a proposito di “nevrosi e psicopatie”; id. Sez. I, n. 3536/1997, ancora a proposito di “nevrosi e psicopatie” e sussistenza o meno di una “degenerazione della sfera intellettiva e cognitiva dell’agente”); alla sussistenza di “una persistente coscienza ed organizzazione del pensiero”, o di “un’avvenuta rottura del rapporto con la realtà” (Cass., Sez. I, n. 15419/2002, a proposito di “disturbi della personalità di tipo bordeline” con “componenti narcisistiche”, ritenute, nella specie, non “sufficienti a configurare una situazione di impossibilità di scegliere”); ad “uno squilibrio mentale a causa della intensità delle deviazioni caratteriali” (Cass., Sez. I, n. 13029/1989, indotto da “una gravità della psicopatia tale da determinare un vero e proprio stato patologico”); ad una “rivoluzione psicologica interna per cui l’individuo è diventato estraneo a se stesso”, ad “una effettiva compromissione della coscienza, attestata da uno stato confusionale acuto” (Cass., Sez. I, n. 4492/1987)”.
[32] BERTOLINO M. in DOLCINI E.-GATTA G.L., Codice penale Commentato, Wolters Kluwer, Milano, 2015, pp 1598-1599.
[33] PULITANO’ D., La disciplina dell’imputabilità fra diritto e scienza, in “Legislazione penale”, I, 2006, pp. 242-256.
[34] MILITELLO M., Imputabilità, infermità di mente e disturbi della personalità nell’evoluzione giurisprudenziale, in “Diritto e formazione”, XII, 2005, pp.1601.1608.
[35] FERRARI S., Disturbi della personalità, in “Giurisprudenza italiana”, VI, 2007, pp. 1502-1507.
[36] Cassazione, Sezione I, 31 marzo 2005.
[37] Cassazione, Sezione I, 15 giugno 2005.
[38] L’altro motivo di ricorso consiste nella presunta violazione degli articoli 132-133 c.p., violazione causata dalla motivazione di mero stile della Corte di Appello.
[39] Viene sottolineato che corrisponde al vero che l’imputato al momento della rapina è affetto dal morbo di Parkinson ed è sottoposto a cure farmacologiche e che è pacifico che i farmaci possono provocare la cd ‘Sindrome di disregolazione della dopamina’ che si manifesta con comportamenti compulsivi incontrollabili ed infine è rilevato che le relazioni dell’Asl attestano che l’imputato ha sviluppato la sindrome del gioco d’azzardo a causa della terapia farmacologica.
[40] “In punto di diritto, va osservato che gli artt. 88-89 cod. pen. prevedono il vizio totale o parziale di mente quando l’imputato si trovi, per infermità, in uno stato di mente tale da escludere o scemare grandemente la capacità d’intendere o di volere: il che significa che il vizio totale o parziale di mente può essere riconosciuto anche se la malattia incide su uno dei due suddetti elementi che concorrono all’imputabilità”.
[41] Il Progetto Pagliaro è elaborato da una Commissione di studiosi presieduta dal penalista Antonio Pagliaro e composta dai professori Bricola, Mantovani, Padovani, Fiorella e Latagliata. Tale Commissione è nominata nel febbraio del 1988 dal Ministro della Giustizia, Giuliano Vassalli perché elabori uno schema di legge-delega per un nuovo codice penale. Verso la fine del 1991, i lavori giungono al termine; solo nel 1993, dopo che per più di un anno lo schema di legge-delega rimane negli archivi del Ministero della Giustizia, il Guardasigilli del governo Ciampi, Giovanni Conso, decide di inviarlo per osservazioni e pareri alle facoltà giuridiche, ai consigli giudiziari e agli ordini forensi. Organismi questi che, a giudizio di Vassalli, non dimostrano quell’attenzione e quell’interesse che il Progetto avrebbe invece meritato. Tale elaborato suscita invece l’interesse della dottrina che organizza numerosi convegni per discutere le scelte e le soluzioni indicate nel Progetto.
[42] Nel dicembre del 1994, nel corso della XII legislatura, è istituito presso la Commissione giustizia del Senato un comitato per la riforma del codice penale il quale presenta un disegno di legge che ha come primo firmatario il senatore Riz (da qui il nome Progetto Riz). Il Progetto tiene in massimo conto dei lavori della Commissione Pagliaro che, come si legge nella Relazione dello stesso, costituiscono “l’ossatura base sulla quale si potrà instaurare il dialogo parlamentare”.
[43] Con D.M. 1 ottobre 1998 il Ministro della Giustizia, Giovanni Flick, nomina una Commissione per la riforma del codice penale, presieduta dal Prof. Carlo Federico Grosso, e composta da cinque professori universitari (Proff. Francesco Palazzo, Paolo Pisa, Domenico Pulitanò, Sergio Seminara, Filippo Sgubbi), da quattro magistrati (Dott. Giovanni Canzio, Giovanni Silvestri, Giuliano Turone, Vladimiro Zagrebelsky), da quattro avvocati rappresentativi di organismi ufficiali della avvocatura (Avv. Fabrizio Corbi, Ettore Randazzo, Filippo Siciliano, Giampaolo Zancan) e assistita da un Comitato scientifico e chiamata ad operare con la partecipazione del Capo di Gabinetto. Tale Commissione viene investita del compito di provvedere alla stesura di un documento che approfondisca i temi della riforma del codice penale, tenendo conto dei lavori svolti da Commissioni Ministeriali e Parlamentari (Commissione Pagliaro, Comitato Riz), dei provvedimenti all’esame del Parlamento, delle elaborazioni in corso presso il Ministero su aspetti collegati, della più recente elaborazione della dottrina e della legislazione penale europea.
[44] Nel 2002 il Ministro della Giustizia, Roberto Castelli affida la presidenza della Commissione per la riforma del Codice penale al magistrato Carlo Nordio. Questi, per espletare l’incarico prestigioso ricevuto, prende come riferimento i precedenti Progetti sui quali apporta alcune modifiche.
[45]Dovrebbe ritenersi ormai acclarato, infatti — alla stregua delle odierne risultanze delle neuroscienze e della biomedicina — che la complessità dell’organismo vivente è tale «che immaginare una mente ad un piano superiore ed un corpo confinato nel sottoscala è un’ipotesi del tutto infruttuosa»: onde sarebbe inesatto negare «in partenza» la qualifica di malattia mentale al disturbo della personalità”.
[46] “L’eliminazione del complesso delle disposizioni impugnate — all’apparenza basilari — non provocherebbe, d’altra parte, scompensi nel sistema pena”.

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