Interessi diffusi ed interessi collettivi: legittimazione processuale, procedimentale e strumenti di tutela

Interessi diffusi ed interessi collettivi: legittimazione processuale, procedimentale e strumenti di tutela

La tematica degli interessi diffusi si inscrive al novero delle situazioni soggettive superindividuali: cioè a quelle aspirazioni a beni della vita di contenuto metaindividuale, insuscettibili di formare oggetto di appropriazione e godimento esclusivo da parte del singolo.

In questa prospettiva si è soliti distinguere gli interessi diffusi da quelli collettivi.

Per interessi diffusi s’intendono quegli interessi omogenei ad una categoria indifferenziata di soggetti che si proiettano verso beni che possono essere colti normalmente solo nella loro dimensione generale (si pensi all’ambiente o al patrimonio storico-artistico), senza rivelare titolari effettivi fino a quando non rappresentati da un ente ad hoc. Intanto può dirsi che gli interessi diffusi siano tali, in quanto concernono un gruppo indifferenziato di soggetti: quest’ultimo è indifferenziato, quando pur accomunato da un’omogeneità d’interesse, rimanga privo di rappresentatività.

Pertanto, trattasi di interessi adespoti, di regola non suscettibili di essere fatti valere in giudizio, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (si pensi alle azioni popolari). L’interesse da diffuso diviene collettivo, quando può dirsi riferibile ad un gruppo di soggetti differenziato: cioè ad un ente giuridico che si fa rappresentativo dell’interesse ed in quanto tale è legittimato ad agire in sua tutela.

Sul punto si discute sulla natura di detta legittimazione.

Secondo una prima lettura, di matrice formalistica, apparirebbero legittimati a rappresentare l’interesse collettivo solo quegli enti esponenziali (associazioni, comitati, ecc.) espressamente abilitati dalla legge. A tal proposito, si pensi a tutte quelle disposizioni in materia ambientale e consumeristica, le quali, oltre ad attribuire ai predetti il potere rappresentativo, indicano con precisione le azioni da essi esperibili. Questa prospettiva muove dalla concezione di interesse collettivo quale doppione dell’interesse individuale azionabile dal singolo: pertanto, andrebbe esteso a tutti i soggetti diversi da quelli individuati ex lege,  il più generale divieto previsto dall’art. 81 c.p.c. di sostituzione processuale fuori dei casi previsti dalla legge. In altri termini, ritenuto l’interesse collettivo quale proiezione generale dell’interesse individuale, tutte le volte in cui gli enti agiscono in sua tutela,  finirebbero per far valere nel processo, in nome proprio, un diritto altrui. Pertanto, in quest’ottica, sarebbe possibile per quest’ultimi, esperire la predetta azione, solo quando espressamente previsto dalla legge: la legittimazione degli enti esponenziali sarebbe ammessa, solo nelle ipotesi eccezionalmente contemplate dal legislatore.

Per contro, secondo l’opposto orientamento – maggiormente condiviso dalla giurisprudenza – sarebbe sufficiente a radicare la legittimazione degli enti in parola, la sussistenza in capo ad essi di alcuni requisiti di ordine sostanziale. Secondo questa prospettiva detta qualifica andrebbe concessa allorché ricorrano almeno contemporaneamente: la stabile organizzazione dell’ente, tale per cui possa inferirsi, in termini di continuità e non di mera occasionalità, la riferibilità dell’interesse allo stesso; l’indicazione nello statuto dell’interesse, quale finalità perseguita dalla compagine organizzativa; la vicinanza dell’ente all’interesse territoriale da tutelare. Pertanto, in presenza di questi presupposti, andrebbe riconosciuta la legittimazione in capo all’ente di agire a tutela degli interessi collettivi, anche in assenza di espressa disposizione legislativa. Ciò posto, secondo tale orientamento, funge da premessa sistematica a questa conclusione, la diversa qualificazione attribuita alla nozione di interesse collettivo. A tal proposito, quest’ultimo dovrebbe intendersi, come la sintesi degli interessi individuali comuni ai membri della categoria, e non come una mera sommatoria degli stessi. In questa prospettiva, l’interesse gode di vita propria e va distinto dagli interessi individuali, rimanendo diffuso ed indifferenziato, fino a quando non viene fatto proprio dall’ente esponenziale. Perciò, in quanto interesse autonomo proprio dell’ente, esso sfuggirebbe al divieto di cui all’art. 81 c.p.c., fondando come logica conclusione, la legittimazione processuale in capo allo stesso, anche fuori dei casi previsti dalla legge.

Quest’ultima tesi è stata avallata di recente dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato[1], la quale è intervenuta definitivamente a riconoscere la predetta legittimazione in capo agli enti, allorquando, pur in assenza di espressa attribuzione legislativa, ricorrano i presupposti sostanziali di cui sopra.

Chiariti i presupposti legittimanti l’agire dell’ente a tutela di un proprio interesse collettivo, un ulteriore problema in punto di legittimazione processuale si pone quando un atto amministrativo generale crea un conflitto d’interessi tra i membri dell’ente esponenziale inciso.

Ora, posto che un atto amministrativo generale se lesivo dell’interesse collettivo è immediatamente impugnabile, proprio perché, in quanto generale, incide direttamente sul contenuto metaindividuale della posizione giuridica tutelata dall’ente sin dalla sua adozione, occorre comprendere se continui a sussistere la legittimazione in capo alla stesso allorché detto atto determini al contempo un vantaggio per alcuni membri ed uno svantaggio per altri.

Sul punto si fronteggiano due posizioni.

La prima, di segno positivo, inclina ad ammetterne la legittimazione sul rilievo che l’interesse collettivo, in quanto posizione distinta dai singoli interessi individuali, continuerebbe a permanere in capo all’ente, non ostando a tal proposito il conflitto di interessi all’interno della categoria. In altri termini, quest’ultimo rifletterebbe i propri effetti solo sulle diverse posizioni individuali, lasciando impregiudicato l’interesse collettivo dell’ente e quindi la sua legittimazione ad agire.

Invece, secondo l’opposta tesi[2] – maggiormente seguita in giurisprudenza – il conflitto di interessi, determinando la spaccatura tra i membri dell’ente, priverebbe l’interesse collettivo del suo presupposto dell’omogeneità: cioè di quella comunanza, sulla cui base, quest’ultimo fonda la propria ragion d’essere. Ne conseguirebbe, pertanto, la perdita della legittimazione de qua, tutte le volte in cui l’atto amministrativo generale generi il predetto conflitto.

Con riferimento a tale teoria è stato da ultimo proposto un correttivo. In questa prospettiva occorrerebbe distinguere tra conflitti esogeni ed endogeni. Sono esogeni tutti quei conflitti che avvantaggiano alcuni membri non in quanto tali, ma per altre condizioni possedute individualmente, diverse dall’interesse di categoria protetto. Per contro, sono endogeni quei conflitti che avvantaggiano o svantaggiano alcuni membri in quanto tali: cioè in quanto appartenenti alla categoria il cui interesse è oggetto di tutela da parte dell’ente. Nel primo caso il conflitto non sarebbe idoneo a travolgere le legittimazione atteso che non verrebbe meno l’omogeneità dell’interesse collettivo. Nella seconda ipotesi, invece, il conflitto, generando una spaccatura interna della categoria, priverebbe l’ente della propria legittimazione processuale.

Ancora, un particolare strumento di tutela attribuito dalla legge agli enti esponenziali rappresentativi di interessi collettivi è quello dell’azione collettiva di classe.

Tale previsione si inscrive al novero di tutte quelle riforme volte alla creazione di un’amministrazione di risultato: un’amministrazione efficiente e qualitativa, che risponda sul piano dei risultati e dei servizi resi, alla tempestiva soddisfazione delle esigenze dei cittadini, in ossequio al canone del buon andamento di cui all’art. 97 Cost. Ne è derivato un rafforzamento delle azioni attribuite ai cittadini ed agli enti rappresentativi di interessi di categoria, i quali – ricorrendo i  presupposti previsti dall’art. 1del D.lgs. n. 198/2009 – possono chiedere – se incisi in modo diretto, concreto ed individuale – al giudice amministrativo (il quale giudica con giurisdizione esclusiva) di accertare e correggere i vizi gestori. In particolare, con  riguardo agli enti, tale potere si sostanzia nella facoltà per gli stessi di agire a tutela dei propri utenti e consumatori, allorquando la pubblica amministrazione ponga in essere sistematici ritardi o violazioni di tipo organizzativo. Più precisamente, tali violazioni concernono: la mancata o ritardata emanazione di atti amministrativi generali obbligatori a contenuto non normativo; la violazione di standard qualitativi ed economici stabiliti per i concessionari di servizi pubblici e più in generale delle performance di efficienza imposte alla p.a. Pertanto a seguito di reiterate disfunzioni della p.a., la legge attribuisce agli enti la possibilità di promuovere azione di esatto adempimento, chiedendo al giudice (con sentenza mista di accertamento e di condanna) di rilevare la carenza funzionale e condannare per l’effetto la p.a. ad eliminarla, attuando il comportamento doveroso.

Ciò posto, oltre alla tutela successiva del proprio interesse, l’ordinamento, a mente degli artt. 9 e 10 della legge n. 241/90, riconosce – in chiave preventiva- anche agli enti titolari di interessi collettivi, quando sono destinatari di provvedimenti da cui possa derivare un pregiudizio, la possibilità d’intervenire e partecipare al procedimento amministrativo. Ciò risponde, da un canto, all’esigenza garantistica, di porre gli enti, potenziali  destinatari di un provvedimento negativo, nelle condizioni di esprimere le proprie ragioni attraverso la presa visione degli atti e la presentazione di documenti e memorie scritte, che l’amministrazione, se pertinenti all’oggetto del procedimento, ha l’obbligo di valutare, a pena di invalidità del provvedimento finale; dall’altro, ad una migliore cura dell’interesse pubblico, atteso che l’amministrazione ha l’interesse a prendere cognizione del contributo di tutti i soggetti interessati dal provvedimento da emanare. Da ultimo, la partecipazione procedimentale permette all’ente di prepararsi con anticipo al provvedimento negativo ed alle eventuali azioni esperibili in sua tutela.

 

 


[1] Cons. Stato, Ad. plen., 20 febbraio 2020, n. 6.
[2] Ex plurimis, Cons. Stato, Ad. plen., 2 novembre 2015, n. 9.

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Avv. Gabriele Monforte

Nel 2016 ha conseguito la laurea magistrale in Giurisprudenza presso l'università di Bologna con votazione 110/110 e lode discutendo una tesi in diritto penale dal titolo "La discrezionalità dell'organo giudicante nelle cause di estinzione del reato" . Nel 2018: si è specializzato in professioni legali presso il medesimo ateneo discutendo una tesi in diritto penale dal titolo "Il concorso esterno in associazione mafiosa: dall'ermeneutica giurisprudenziale interna al vaglio di legalità della Corte Edu. Il caso Contrada e le possibili ricadute sui fratelli minori"; ha conseguito l'abilitazione all'esercizio della professione forense presso la Corte d'appello di Bologna. Nel 2022 ha iniziato ad esercitare la professione di avvocato presso il Foro di Catania.

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