Irretroattività penale e reati a evento differito

Irretroattività penale e reati a evento differito

Il principio di irretroattività della norma penale sfavorevole al reo trova il suo fondamento nell’art. 25 c. 2 Cost. nonché nell’art. 7 CEDU, e costituisce un postulato di basilare importanza nel nostro ordinamento penale sostanziale, al punto da non essere suscettibile di bilanciamento con altri valori costituzionali.

A livello di legge ordinaria, l’art. 2 c. 4 c.p. prevede che, ove la legge del tempo in cui è commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applichi quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile.

La disposizione esprime un favor libertatis, atteso che sancisce non solo l’irretroattività della norma più sfavorevole, ma altresì la retroattività della norma penale più favorevole.

Nel diritto processuale penale, e nelle altre branche dell’ordinamento, invece, vige la regola del tempus regit actum, che prevede che l’atto sia regolato dalla legge del tempo in cui esso si verifica.

L’irretroattività trae abbrevio dal principio di legalità, che si pone a garanzia dell’imputato e si rivolge al legislatore e al giudice, e trova la sua giustificazione essenziale non solo nell’esigenza di certezza del diritto, ma più specificamente (in linea con quanto affermato da costante giurisprudenza eurounitaria) nella necessità che il reo possa conoscere anticipatamente le conseguenze delle sue azioni e regolare la propria condotta.

Infatti, anche in relazione alle funzioni della pena, il principio di irretroattività ha una precisa valenza per la sua connessione con la funzione di prevenzione generale mediante orientamento culturale: il comando normativo può motivare l’autore solo quando esista come legge. In quest’ottica, è possibile rispettare non solo la funzione di prevenzione generale, ma anche quella di prevenzione speciale positiva. La pena non può assolvere alla funzione rieducativa sua propria se il soggetto la percepisce come ingiusta, non conoscibile e, quindi, frutto dell’arbitrio del legislatore.

Di particolare delicatezza appare quindi l’esatta identificazione del tempus commissi delicti, al fine di conoscere quale disciplina debba essere applicata nel caso specifico. Nel dettaglio, ci si interroga su quale sia il trattamento sanzionatorio da eseguire qualora una condotta sia posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole, mentre l’evento sia intervenuto successivamente, nella vigenza di una legge penale più sfavorevole.

La questione problematica è sorta, quindi, nell’ambito dei reati ad effetto differito, in cui l’evento si verifica ad una certa distanza di tempo dal compimento dell’azione. In tali tipologie di reato si pone il problema di stabilire il termine di riferimento temporale qualora, nel periodo intercorrente tra il compimento dell’azione e la realizzazione dell’evento, venga emanata una nuova norma incriminatrice o intervenga una modifica relativa alla quantità o alla qualità della pena.

Il punctum pruriens consiste nel comprendere se il tempo debba essere stabilito avendo riguardo al momento in cui si è realizzata nel mondo esterno l’azione o l’omissione prevista dalla fattispecie, ovvero all’evento lesivo, causalmente connesso all’azione e, di regola, necessario per l’integrazione dell’illecito penale.

Di recente, le Sezioni Unite si sono occupate della questione, risolvendo il contrasto interpretativo, formatosi nella giurisprudenza di legittimità, in ordine al criterio di individuazione del tempus commissi delicti ai fini della successione di leggi penali.

La fattispecie, da cui trae origine la pronuncia in parola, è costituita da una vicenda in cui un soggetto, vittima di investimento in strada, è deceduto a distanza di tempo dall’azione lesiva posta in essere dall’agente.

La questione giuridica verte, quindi, sull’esatta individuazione della legge da applicare, se quella vigente al momento della condotta oppure quella in vigore al momento successivo della verificazione dell’effetto lesivo.

La risposta all’interrogativo dipende, a monte, dall’identificazione del momento di perfezionamento del reato. Appare necessario, a tal uopo, muovere dalla classificazione del reato, per distinguere le fattispecie di evento da quelle di mera condotta.

Innanzitutto, l’evento in senso naturalistico non è presente in tutti i reati. Da ciò dipende la divisione tra reati di pura condotta, che si concludono con il compimento di un’azione od omissione, e reati di evento, che invece prevedono, per il loro perfezionamento, la produzione di un determinato effetto esteriore.

Nei reati di mera condotta il legislatore descrive un’azione che, per il sol fatto di essere stata posta in essere, giustifica la sanzione penale. Il disvalore legato alla condotta rende penalmente rilevanti anche dei comportamenti che non cagionano alcun evento causalmente connesso. Il reato, in queste ipotesi, si può considerare già commesso e perfezionato con la semplice azione.

Dal momento che l’evento dipende dalla condotta, ma da esso è distinto cronologicamente, secondo tale teoria si distinguono i reati a evento differito (quando l’evento segue a distanza di un determinato lasso di tempo la condotta), reati a effetto frazionato (quando la realizzazione dell’esito si fraziona nel tempo) e reati a distanza (quando l’evento si verifica non solo in un diverso momento, ma altresì in un luogo differente dalla condotta).

Tra i reati di evento, vengono proposte due accezioni: quella naturalistica e quella giuridica. Nella concezione naturalistica, l’evento si identifica con l’effetto naturale della condotta umana, che può costituire o elemento essenziale del reato o circostanza aggravante (nei reati aggravati dall’evento). La concezione giuridica, invece, mette in risalto la lesione al bene giuridico protetto dalla norma. Pertanto può affermarsi che ogni reato ha una conseguenza, anche se non naturalisticamente rilevabile, che si sostanzia appunto nell’offesa o nella messa in pericolo del bene protetto. Di conseguenza, viene meno la distinzione tra reati di condotta e di evento, e la configurabilità di reati con doppio evento o di reati aggravati dall’evento, dovendosi propriamente parlare di un solo evento; e si dovrà distinguere, invece, tra reati con offesa e reati senza offesa, considerando questi ultimi costituzionalmente illegittimi e meritevoli di essere espunti dall’ordinamento.

Quando il legislatore specifica quale debba essere l’evento conseguente alla condotta,  perché possa realizzarsi la fattispecie di reato, l’evento in senso naturalistico e quello in senso giuridico coincidono.

Il legislatore, quindi, perché si perfezioni il reato, richiede anche la produzione dell’evento connesso all’azione: se manca l’evento, l’interprete non può sussumere il caso nella fattispecie incriminatrice. Ciò perché se manca l’evento, non c’è (ancora) reato.

La distinzione tra reati di condotta e reati di evento è importante con riguardo al momento consumativo del reato.

Con riguardo allo specifico caso, oggetto di disamina da parte della Suprema Corte, non può revocarsi in dubbio che l’omicidio sia un reato di evento, a forma libera. Tanto discende dalla volontà del legislatore di apprestare una tutela estesa al bene della vita, scegliendo di non tipizzare le condotte che causano la morte, ma di punire ogni azione idonea a ledere il bene della vita.

Se si dà rilievo al momento in cui si concretizza la lesione al bene giuridico tutelato dalla norma, sembrerebbe doversi giungere alla conclusione per cui il reato è commesso nel momento in cui la vittima è deceduta. Di conseguenza, occorre far riferimento alla legge vigente in quel momento, successivo rispetto alla condotta.

Tale impostazione, tuttavia, potrebbe portare a soluzioni poco conformi al nostro assetto costituzionale e, dunque, non condivisibili.

Invero, due pronunce della Cassazione, tra loro contrastanti, si erano occupate della delicata questione della successione di leggi penali: la prima si era occupata del decesso di due lavoratori per mesotelioma pleurico.

Tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, le vittime erano state esposte all’amianto, causa tipica di tale forma di tumore e contraddistinto da un periodo di latenza particolarmente lungo. I due soggetti morivano nei primi anni 2000 e i dirigenti dell’azienda venivano sottoposti a processo per la condotta omissiva che ne aveva cagionato la morte, poiché avrebbero dovuto predisporre le necessarie misure di sicurezza.

In tale occasione, la Corte è stata chiamata a stabilire se dovesse applicarsi la normativa vigente nel momento in cui i lavoratori erano stati esposti all’amianto, ovvero quella, decisamente più rigida, in cui si era verificata la morte dei due, in epoca successiva.

Nel caso di specie, la Cassazione ha deciso di applicare la seconda, ritenendo che non vi fosse alcun problema di successione di leggi e, dunque, nessuna violazione dell’art. 2 c. 4. c.p.., giacché il reato di omicidio, essendo di evento e a forma libera, risulta perfezionato e commesso solo nel momento (susseguente) in cui si verifica il risultato lesivo.

Il ragionamento del giudice di legittimità è risultato coerente con l’impostazione dogmatica precedentemente analizzata: se l’art. 2 c. 4 c.p. cita il reato “commesso”, allora il tempus commissi delicti coincide con la realizzazione degli elementi costitutivi del reato. Tra questi, nel caso dell’omicidio, è annoverato anche l’evento morte.

La soluzione appena prospettata ha sollevato, però, alcuni dubbi, in quanto è apparsa fedele al solo dato letterale.

Un precedente giurisprudenziale, più risalente, aveva già risolto la questione in modo analogo, ossia facendo riferimento al dato letterale. In una vicenda di omicidio colposo per violazione delle norme sulla circolazione stradale, in cui tra la condotta dell’agente e il successivo decesso della vittima era intervenuta una legge che aveva inasprito il quadro sanzionatorio, la Corte ha applicato la normativa vigente al momento della condotta; rimarcando che, nella disposizione, si facesse uso del lemma “commissione”.

Tale termine è stato interpretato nel senso che si dovesse far riferimento al momento dell’azione, e non al perfezionamento del reato (altrimenti, il legislatore avrebbe potuto riferirsi apertamente al reato come “consumato”).

È evidente che entrambe le pronunce si siano incentrate prevalentemente sul dato letterale e non abbiano fatto riferimento alla dimensione storica e alla ratio sottese alla norma.

Recentemente, invece, le Sezioni Unite si sono espresse utilizzando un criterio ermeneutico di più ampio respiro.

La Corte, infatti, ha chiarito che di fronte di una condotta interamente posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole e di un evento intervenuto nella vigenza di una legge penale più sfavorevole, deve trovare applicazione la legge vigente al momento della condotta. Il percorso argomentativo utilizzato ha mosso i propri passi da un’interpretazione logico-sistematica dell’art. 2 c.p., conforme alla Costituzione.

Detto tipo di interpretazione è ammissibile se rispettosa dei possibili significati offerti dal dato testuale, quale punto di partenza ed argine invalicabile.

Ove infatti si applicasse il criterio dell’evento, il soggetto non sarebbe in grado di adeguare la propria condotta alle mutate prescrizioni di legge. La norma successiva verrebbe così applicata retroattivamente a fatti commessi in un tempo in cui la stessa non era conoscibile. Tale criterio appare quindi come fuorviante, poiché conduce ad adottare un’interpretazione dell’art. 2 c.p. contraria al sistema di garanzie delineato nei confronti del reo da Costituzione e CEDU.

Si prenda ad esempio la disciplina, di recente modificata con l. n. 41/2016, di omicidio stradale. L’adesione al criterio dell’evento implica che il trattamento sanzionatorio dipenda in modo decisivo dal momento della morte della vittima. Pertanto, ove questa fosse morta sul colpo, si sarebbe applicata la legge penale del momento, più favorevole; se invece la persona offesa fosse deceduta dopo l’entrata in vigore della citata novella, si sarebbe dovuta applicare quest’ultima, benché più severa, e sebbene non fosse prevedibile, per il soggetto agente, il più grave trattamento sanzionatorio dipendente unicamente dalla capacità di sopravvivenza della vittima. Tale soluzione appare ancor più paradossale ove si applichi a reati colposi, nei quali la realizzazione dell’evento neppure rientra nella sfera di volizione del reo.

La necessaria prevedibilità della sanzione non va peraltro confusa con la prevedibilità in concreto dell’evento: le considerazioni che sorreggono quest’ultimo criterio non risultano utili in tema di successione di leggi, poiché non può evocarsi, e porsi a carico del soggetto attivo, l’onere di prevedere che medio tempore (dopo il compimento della condotta e prima del verificarsi dell’evento) il legislatore decida di punire il reato con maggiore gravità.

Allo stesso tempo, nella pronuncia a Sezioni Unite in parola, a differenza delle precedenti sentenze, si è assistito a una ricostruzione delle motivazioni storiche e giuridiche sottese all’art. 2 c.p..

La Corte ha chiarito che il termine “reato”, utilizzato nel quarto comma, non deve essere inteso in senso formale-giuridico, ossia come perfezionamento degli elementi costitutivi della fattispecie delittuosa, poiché viene adoperato dal legislatore in antitesi al termine “fatto”, contenuto nel comma primo.

Nel primo comma, il legislatore intende affermare che, se una condotta non è penalmente rilevante nel momento in cui è stata commessa, non può essere sanzionata sulla base di una legge intervenuta successivamente. Dunque, il termine “fatto” viene usato per indicare una condotta non giuridicamente rilevante.

Diversamente, nel quarto comma il legislatore intende fornire tutela a colui il quale compie un fatto già penalmente rilevante, che successivamente è oggetto di modifica.

La tutela offerta al soggetto agente è duplice: da una parte, si prevede che, qualora intervenga una legge, successiva alla condotta, più favorevole al reo, sia proprio quest’ultima ad essere applicata. Viene affermato un principio di favor libertatis che si ricollega all’idea per cui se il disvalore sociale legato alla condotta si è affievolito, non si avverte più l’esigenza di continuare ad applicare il trattamento sanzionatorio più rigoroso.

D’altra parte, si stabilisce che, se ad essere più favorevole è la norma vigente al momento della condotta, è quella a dover essere applicata.

La Cassazione ha ravvisato il fondamento dell’irretroattività nell’art. 25 c. 2. Cost., ponendo l’accento sul carattere assoluto di tale principio, non suscettibile di bilanciamento con altri valori pure di rango costituzionale. Si tratta di un principio fondamentale del nostro ordinamento, posto a garanzia dell’autodeterminazione dell’individuo. Come si è accennato in apertura, costui deve poter valutare e calcolare preventivamente le conseguenze penali della propria condotta. Spostare in avanti il tempus commissi delicti importerebbe uno svuotamento di significato non solo del principio di irretroattività, ma anche della garanzia di autodeterminazione della persona.

Il principio di retroattività della norma penale più favorevole, invece, trova il proprio fondamento nel principio di uguaglianza ex art. 3 Cost. e nell’art. 117 c. 1 Cost. e nell’art. 7 CEDU.; ciò comporta che esso, a differenza del principio di irretroattività summenzionato, sarà suscettibile di limitazioni e deroghe, in presenza di interessi contrapposti di analogo rilievo.

Infine, si può fare riferimento alle indicazioni che le stesse Sezioni Unite hanno fornito in ordine alle questioni derivanti dalla declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 442  c. 2 c.p.p.. In proposito, si è affermato che il principio di irretroattività ha una sorta di rigidità rinforzata, in quanto, anche nel caso in cui intervenga una pronuncia di incostituzionalità, quest’ultima non può impedire l’applicazione della norma più favorevole al reo, che, pur essendo illegittima, era vigente al momento della commissione della condotta.

Alla luce delle determinazioni cui è giunto il Supremo Consesso, pertanto, può concludersi nel senso che l’adozione al criterio dell’evento si pone in contrasto con una serie di principi fondamentali dell’ordinamento, quali quello di uguaglianza, di legalità, di colpevolezza e di adesione dell’ordinamento ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.

Con riguardo al primo, ex art. 3 Cost., si può notare l’ingiustificata disparità di trattamento tra soggetti autori di una medesima condotta nello stesso momento, sol perché l’evento del reato si verifica in tempi diversi per ragioni a loro non riferibili.

Relativamente al principio di legalità, questo deve ritenersi violato sul rilievo non solo della necessaria conoscibilità del precetto, ma altresì in punto di conoscibilità e prevedibilità della sanzione penale prevista per la relativa azione.

Il principio di colpevolezza ex art. 27 Cost. è leso, specie come declinato nella sentenza della Corte Costituzionale dichiarativa della parziale incostituzionalità dell’art. 5 c.p., poiché l’ignorantia legis, se determinata da ignoranza incolpevole, è scusata a cagione della sua inevitabilità.

Infine, il principio di cui all’art. 117 c. 1 Cost. è leso con particolare riguardo ai dettami enunciati dall’art. 7 CEDU, di accessibilità della norma penale per il destinatario e di prevedibilità delle conseguenze della sua condotta in caso di trasgressione di precetti penali.


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Avv. Ilaria Romano

Avvocato del Foro di Lecce. Specializzata con menzione in diritto penale. Docente a contratto di Diritto Processuale Penale presso la SSPL "V. Aymone" di Lecce.

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