La buona fede nella fase di formazione del contratto: responsabilità precontrattuale e vizi incompleti

La buona fede nella fase di formazione del contratto: responsabilità precontrattuale e vizi incompleti

La buona fede, nella sua accezione oggettiva, è una regola di comportamento alla quale le parti contraenti devono attenersi in ogni fase di formazione del rapporto contrattuale. L’autonoma valenza giuridica di tale clausola generale, fonte di doveri comportamentali a tutela della controparte e delle finalità negoziali, è stata frutto di un lungo percorso evolutivo.

Originariamente, gli interpreti guardavano con diffidenza alla buona fede, anche alla luce della vaghezza del concetto, ritenendo che il ricorso alla stessa potesse legittimare una deroga alla lex contractus. In epoca liberale, infatti, la volontà dei contraenti aveva un ruolo di assoluta centralità nel dar vita a precetti di autoregolamentazione privata degli interessi. L’esercizio della libertà negoziale delle parti era considerato insindacabile e insuscettibile di ‘critiche’ esterne e ciò garantiva certezza nei rapporti negoziali. Si riteneva che, attraverso il richiamo ad un parametro elastico, come la buona fede, il giudice potesse contrastare le scelte dei contraenti, rendendole inefficaci. Questa era la ragione per la quale, a lungo, l’operatività della buona fede venne subordinata ad uno specifico richiamo normativo.

In seguito, sebbene fosse stata riconosciuta autonomia alla clausola in esame, questa venne svuotata di significato: altro non era che un parametro di valutazione di comportamenti adempienti o inadempienti rispetto alle obbligazioni derivanti dal contratto. In quest’ottica, la buona fede andava ad appiattirsi e identificarsi con la diligenza (art. 1176 c.c.), già criterio di valutazione comportamentale in executivis. In realtà questa assimilazione era del tutto apparente, trattandosi di due istituti distinti. La diligenza attiene all’esecuzione dell’obbligazione, ovvero alla fase successiva alla formazione del regolamento contrattuale e vincola il debitore, al contrario, il dovere di buona fede grava su entrambe le parti e permea sia la fase esecutiva che quella delle trattative precontrattuali.

Proprio in ragione dell’impossibilità di ridurre la buona fede ad un mero parametro di valutazione di prestazioni, la dottrina è giunta a qualificarla quale autonoma regola di condotta, ovvero, quale dovere di agire con correttezza e lealtà nel perseguimento delle finalità contrattuali. La buona fede diviene, quindi, fonte di obblighi di protezione che accedono all’obbligazione principale di prestazione, in modo da garantire la protezione dell’altrui sfera giuridica nel perseguimento dello scopo per il quale il contratto è stato concluso. Infatti, a seguito dell’entrata in vigore della Costituzione, l’art. 1173 c.c. è stato oggetto di un mutamento interpretativo nella parte in cui lascia aperto il novero delle fonti delle obbligazioni ad “ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico”. Per “ordinamento giuridico” non deve più intendersi l’ordinamento corporativo, al quale faceva richiamo il legislatore del ’42, bensì l’insieme dei fondamentali principi costituzionali, primo tra tutti quello di solidarietà sociale (art. 2 Cost.), di cui la buona fede è diretta espressione.

L’art. 1337 c.c. codifica l’obbligo di comportarsi secondo buona fede nel corso delle trattative precontrattuali e si preoccupa di tenere distinta (testualmente) tale fase da quella di “formazione del contratto”. Questa distinzione, lungi dal risolversi in un’endiadi, evidenzia la volontà del legislatore (già in una fase meramente esplorativa) di tutelare la libertà negoziale delle parti e il loro interesse a non essere coinvolte in trattative inutili, a non stipulare contratti invalidi o inefficaci, ovvero, a non subire coartazioni o inganni.

La buona fede si sostanzia in due distinti doveri, quello di salvaguardia e quello di correttezza. In questa prima fase, la correttezza si traduce nell’adempimento di doveri informativi, in base ai quali il contraente è tenuto a fornire all’altra parte tutte le informazioni utili ai fini della stipula del contratto. Ma non soltanto, infatti, il trattante è tenuto a fornire le notizie in modo chiaro e intellegibile e, talvolta, è gravato da un obbligo di segretezza rispetto al mondo esterno. Naturalmente, tale dovere non implica la necessaria comunicazione di tutto quanto attiene alla trattativa, ovvero, di quelle informazioni che la parte ha acquisito sostenendo dei costi o adoperandosi e che non sono di accesso generalizzato, fermo restando che anche il destinatario della comunicazione è a sua volta gravato dal dovere di informarsi (principio di auto-responsabilità). In questo caso, l’omessa informazione si considera lecita, non solo per non frustrare la strategia contrattuale di parte ma anche nel rispetto della libertà di iniziativa economica privata. Infatti, è vero che il dovere di salvaguardia impone a ciascun soggetto di adottare gli accorgimenti necessari alla luce dell’utilità di controparte, ma sempre nei limiti in cui ciò non importi un apprezzabile sacrificio personale o economico.

La violazione del dovere di buona fede è fonte di responsabilità precontrattuale, codificata agli artt. 1337 e 1338 c.c. Possiamo distinguerne tre ipotesi tipiche: il recesso ingiustificato dalle trattative, la mancata comunicazione delle cause di invalidità del contratto e la sussistenza di vizi incompleti che portino alla stipula di un contratto valido ma svantaggioso.

Una prima violazione del dovere di buona fede si verifica, qualora, nel corso delle trattative, la parte si tiri indietro, senza che sussista una valida giustificazione, precludendo così la stipula del contratto. Questa ben potrà essere chiamata a risarcire, a titolo di responsabilità precontrattuale, il danno emergente (spese sostenute nel corso delle trattive) e il lucro cessante (alternative contrattuali perse inutilmente) di controparte, nei limiti dell’interesse negativo. Questo limite è giustificato dal fatto che la responsabilità, in tal caso, non si fonda tanto sul mancato raggiungimento dell’accordo contrattuale quanto sulla lesione dell’affidamento che vi era stato riposto a causa della mancata esternazione di dubbi sulla continuazione delle trattative (comunicazione dovuta secondo buona fede). Naturalmente, la sussistenza di una responsabilità contrattuale dovrà essere accertata tenendo di conto anche dello stato di avanzamento delle trattative. Alla luce di una lettura evolutiva, la violazione dell’art. 1337 c.c. viene ad oggi riscontrata anche in caso di omesso adempimento degli obblighi informativi tipizzati (nei limiti indicati in precedenza).

La violazione delle buona fede nel corso delle trattative, fonte di responsabilità precontrattuale, si ha poi nel caso di stipula di un contratto invalido, qualora, la parte a conoscenza della causa di invalidità non ne abbia dato notizia all’altra (art. 1338 c.c.). Si tratta di un’ipotesi speciale rispetto a quella analizzata in precedenza, in quanto, a seguito della mancata comunicazione, il contratto è concluso ma è invalido. Minimo comune denominatore tra le due è la violazione della libertà negoziale della parte che, in questa specifica ipotesi, aveva fatto affidamento sulla conclusione del contratto poi risultato invalido in quanto nullo, annullabile o rescindibile. Tuttavia, qualora la nullità del contratto derivi dalla violazione di una norma imperativa, rispetto alla quale si ha una presunzione di conoscenza da parte dei consociati, dovrà escludersi la responsabilità precontrattuale nell’an, non potendosi configurare in capo al destinatario della comunicazione un affidamento incolpevole rispetto alla validità del contratto da stipulare. Ancora una volta, il danno risarcibile dovrà essere perimetrato dall’interesse negativo della parte.

Infine, merita porre l’accento sul caso in cui il contratto stipulato, a seguito di una condotta contraria a buona fede, sia da considerarsi comunque valido. La violazione della regola di buona fede dà luogo, in questa terza ipotesi, ai cd. vizi incompleti, ovvero a quei vizi che sono di per sé inidonei ad invalidare il regolamento contrattuale determinandone la nullità, annullabilità o rescindibilità ma che, tuttavia, portano la parte a contrattare a condizioni diverse rispetto a quelle alle quali avrebbe prestato il proprio consenso. Si pensi, ad esempio, alla condotta posta in essere per indurre la parte in errore, che poi risulti non determinante per il consenso (errore non essenziale), al dolo incidente o, ancora, alla parte che avvalendosi dello stato di bisogno dell’altra la induca a concludere un contratto a prestazioni squilibrate infra-dimidium, e non ultra-dimidium. In queste ipotesi, la parte destinataria della condotta contraria a buona fede si vede costretta ad accettare un regolamento contrattuale che, seppur considerato valido, presenta un contenuto diverso da quello che sarebbe derivato da una negoziazione libera e corretta.

Il dibattito dottrinale e giurisprudenziale si è concentrato a lungo sulla possibilità di sussumere i vizi incompleti nell’alveo dell’art. 1338 c.c., considerando la clausola di buona fede quale norma imperativa, dalla cui violazione far discendere l’invalidità del contratto. Le SS.UU. sono intervenute sul punto, nel 2007, pronunciandosi sulla vicenda che vide coinvolto l’Istituto Bancario San Paolo e due diverse società clienti che avevano stipulato con esso contratti di intermediazione finanziaria. Nel caso di specie, le società ricorrenti eccepivano la nullità (ex art. 1418 c.c.) dei contratti di intermediazione finanziaria, avendo l’intermediario finanziario violato il dovere informativo in fase precontrattuale ed esecutiva, ponendo poi in essere operazioni per conto delle clienti senza una previa analisi della loro situazione patrimoniale. Ciò ha comportato il necessario intervento nomofilattico delle Sezioni Unite, le quali hanno sì riconosciuto natura imperativa alla clausola generale che impone agli intermediari finanziari di comportarsi con diligenza, professionalità e correttezza (in quanto la stessa non è posta a tutela del singolo contraente ma dell’integrità complessiva dei mercati finanziari) ma non hanno ritenuto che ciò fosse sufficiente a determinare la nullità dell’intero contratto. Anzitutto, era da escludersi una nullità testuale ex art. 1418 co. 3 c.c. non essendo tale conseguenza prevista espressamente da alcuna norma, doveva poi escludersi il riferimento alla nullità strutturale di cui all’art. 1418 co. 2 c.c. in quanto, è vero che la condotta dell’intermediario finanziario ha inciso sul consenso e, quindi, sull’accordo contrattuale (elemento essenziale del contratto) ma un vizio del consenso al massimo può comportare annullabilità del contratto e non assenza totale di accordo, causa di nullità. Pertanto, alle SS.UU. non restava che valutare se la violazione della clausola di buona fede, intesa come norma imperativa, potesse comportare una nullità virtuale ex art. 1418 co. 1 c.c.

Ribadendo la fondamentale distinzione tra le norme di validità e le norme di comportamento, le SS.UU. hanno evidenziato come la violazione delle seconde determini esclusivamente una responsabilità risarcitoria e la possibilità di pervenire alla risoluzione del contratto, ma non incida sulla genesi dell’atto e, di conseguenza, non sia idonea a determinarne la nullità. La buona fede, e i doveri di comportamento in generale, infatti, sono eccessivamente ancorati alle circostanze del caso concreto, per assurgere al rango di norme di validità.

Di recente, tuttavia, sembrano riscontrarsi frequenti casi in cui si verifica una commistione tra regole di comportamento e regole di validità, rispetto ai quali la violazione della clausola di buona fede viene considerata come causa di nullità del contratto. Ciò, in quanto la buona fede viene utilizzata dal legislatore come strumento di tutela del contraente debole, si pensi, ad esempio, a quelle trattative precontrattuali tra imprese in situazioni di dipendenza economica, di abuso di posizione dominante o, ancora, in materia di contratti con il consumatore, ove la buona fede è considerata parametro di vessatorietà delle clausole. In tali ambiti, la regola di correttezza non è solo fonte di obblighi di salvaguardia degli interessi di controparte ma anche strumento per correggere asimmetrie informative o di potere contrattuale. Si osserva, tuttavia, che la buona fede non rileva autonomamente, ma in connessione con altri presupposti: il comportamento scorretto viene considerato come elemento costitutivo di una fattispecie complessa, nella quale il disvalore non riguarda il comportamento precontrattuale di una o entrambe le parti bensì l’assetto concreto che questi hanno dato ai loro interessi. Le parti sono libere di determinare il regolamento negoziale e sono vietate soltanto specifiche fattispecie di abuso, nell’ambito delle quali, assume rilievo la condotta scorretta che impone ad una parte un regolamento di interessi squilibrato. Al di fuori di questi casi, non si può configurare una nullità, in quanto presupposto necessario, in tal senso, è l’esistenza di una specifica previsione normativa che vieti quel dato regolamento d’interessi. Occorre specificare che questa possibile rilevanza invalidante della buona fede non mette in discussione la distinzione tra regole di responsabilità, che prevedono le conseguenze di comportamenti materiali, e regole di validità, che presuppongono un’anomalia nella formazione o manifestazione della volontà delle parti o una difformità del regolamento contrattuale rispetto alle valutazioni di illiceità compiute dall’ordinamento giuridico.

Residua un aspetto problematico. Una volta appurato che la buona fede è regola di comportamento, la cui violazione genera responsabilità risarcitoria, ci si è chiesti se ciò valga anche rispetto ai vizi incompleti. I fautori della tesi dei vizi incompleti ritengono che la conferma positiva sia data dall’art. 1440 c.c., da considerarsi quale regola generale in materia. L’art. 1440 c.c. impone al contraente in malafede di rispondere dei danni laddove i raggiri da lui posti in essere, seppur inidonei a determinare l’annullabilità del contratto, abbiano inciso sul suo contenuto. Nonostante la giurisprudenza abbia individuato in questo articolo il riferimento normativo dei vizi incompleti, la dottrina ha, da sempre, assunto una posizione critica a riguardo. L’orientamento dottrinale escludeva rilievo giuridico a tutti quei vizi incompleti che non fossero espressamente previsti da norme giuridiche, quale appunto l’art. 1440 c.c. Tuttavia, il vero e primario problema che si poneva era stabilire quale fosse lo scostamento dalla fattispecie di legittimità necessario a dare rilievo a tali vizi. Una volta esclusa la possibilità di ancorare lo scostamento dalla clausola di buona fede al parametro del vizio “completo” (causa di invalidità), si riteneva che tutti quei comportamenti, che vanno dalla fattispecie di legittimità al vizio completo, dovessero rilevare quali vizi incompleti. Ai fini della rilevanza giuridica degli stessi, sarebbe stato necessario valutare la lesione della libertà negoziale, ovvero l’entità del pregiudizio arrecato. In altre parole, laddove l’entità del pregiudizio fosse stata tale da determinare una pretesa risarcitoria non esigua, allora, avrebbe dovuto darsi rilievo al vizio incompleto. In questo caso, è stato facile per la dottrina obbiettare che l’entità del pregiudizio può, al più, fungere da parametro per la determinazione del quantum del risarcimento, ma non anche dell’an, ovvero del diritto ad ottenere il risarcimento a seguito della lesione della propria libertà negoziale.

Da ciò, la necessità di individuare parametri diversi a sostegno della teoria. La Cassazione, con la pronuncia del 2013, sul Lodo Mondadori, ha individuato quale quid pluris necessario a dare rilievo giuridico ai vizi incompleti, la particolare intensità della scorrettezza del comportamento contrario a buona fede. Nel caso di specie, fu abbastanza semplice per la Suprema Corte individuare una significativa intensità della scorrettezza comportamentale, posto che la violazione della clausola di buona fede si era tradotta in un illecito penale. Sempre nell’ambito della stessa pronuncia, la Cassazione riconobbe l’art. 1440 c.c. non come eccezione ma come regola, nella quale trova conferma la teoria dei vizi incompleti. Ma la dottrina, ancora una volta, evidenziò come l’art. 1440 c.c. si risolva in un’eccezione e non in una regola, posto che il legislatore è intervenuto prevedendo espressamente il risarcimento del danno per violazione della clausola di buona fede, a fronte del contratto validamente concluso, solo in tal caso e non anche nelle altre ipotesi. Inoltre, anche laddove si volesse condividere la teoria dei vizi incompleti, nelle ipotesi diverse dal dolo incidente si porrebbe un ulteriore e successivo problema riguardo al tipo di intervento consentito al giudice. Il contratto è valido e al più sarà previsto un risarcimento del danno, ai sensi dell’art. 1440 c.c. Quindi è necessario che la scorrettezza, identificata come vizio incompleto, determini la stipula di un contratto avente contenuto diverso da quello previsto nel rispetto della clausola di buona fede, tale da determinare un pregiudizio di tipo economico. Tale squilibrio economico andrebbe a giustificare la risarcibilità nel limite del cd. interesse positivo virtuale, pari al minor vantaggio conseguito dalla stipula o al maggior aggravio economico, salva la prova di danni ulteriori.

Nella maggior parte dei casi, il pregiudizio arrecato non si risolve in uno squilibrio economico bensì giuridico. Quindi il problema resta, in quanto l’unica soluzione plausibile sarebbe quella di intervenire sterilizzando il regolamento contrattuale dalla clausola diversa, frutto della scorrettezza comportamentale o, quantomeno, escludendo l’efficacia della stessa. Solo l’inefficacia della clausola permetterebbe di ristabilire un equilibrio normativo tra le parti. Ma risulta chiaro che questo tipo di intervento a carattere distruttivo finirebbe per collegare, ancora, alla violazione della clausola di buona fede l’invalidità del contratto e non solo il sorgere di una responsabilità. Ancora una volta, la clausola di buona fede andrebbe a tradursi in una regola di validità e non di mera condotta come, invece, hanno sancito le SS.UU. nel 2007. Quindi, non possiamo che concludere che, nonostante i ragionamenti dottrinali e gli approdi giurisprudenziali, la problematica dei vizi incompleti resta tutt’oggi aperta.


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