La compatibilità della funzione cautelare con i principi costituzionali

La compatibilità della funzione cautelare con i principi costituzionali

Sommario: 1. L’art. 13 della Costituzione e la restrizione della libertà personale – 2. L’individuazione delle finalità giustificanti le restrizioni ante iudicatum della libertà personale – 3. L’art. 27 della Costituzione e la presunzione di non colpevolezza dell’imputato

 

1. L’art. 13 della Costituzione e la restrizione della libertà personale

L’art. 13 Cost. afferma solennemente al comma 1 che «la libertà personale è inviolabile», sancendo una inequivocabile volontà del legislatore costituente di esaltarne la natura prioritaria, non solo per la sua collocazione in apertura del titolo della Carta fondamentale dedicato ai rapporti civili, ma anche perché intesa come presupposto di tutte le altre libertà delle quali rende possibile l’esplicazione.

Tanto premesso, il principio di inviolabilità della libertà personale può assumere diversi significati che possono essere sintetizzati nei termini che seguono.

Anzitutto, va posto in risalto il requisito dell’inviolabilità, rappresentando la regola in materia di libertà personale, destinata a rimanere ferma ove non risulti espressamente derogata nelle forme previste dalla stessa Costituzione.

In secondo luogo, grazie al ruolo cardine assunto da tale regola all’interno del sistema e grazie al collegamento con la presunzione costituzionale di non colpevolezza, essa fonda anche un chiaro e preciso canone di orientamento per gli organi chiamati a interpretare e applicare le singole disposizioni di legge attinenti al tema della libertà personale: in altre parole, tutte le volte in cui possa esservi incertezza tra la salvaguardia della libertà e il suo sacrificio, debba necessariamente affermarsi il primato dell’inviolabilità, quale risultato espresso dal brocardo di matrice garantistica in dubbio pro libertate.

In terzo luogo, riferendosi alle situazioni in cui la legge stabilisce i confini alla naturale espansione dell’esercizio della libertà personale intesa come inviolabile, tali limiti dovranno ubbidire al criterio della stretta necessità e, quindi, essere coerentemente disciplinati con l’esigenza di un sacrificio minimo, ancorché compatibile con la tutela di altri valori ritenuti meritevoli di protezione.

Ai fini del presente elaborato, è inoltre interessante il dibattito interpretativo inerente al concetto di libertà personale.

Difatti, a fronte di un orientamento più risalente nel tempo[1] secondo cui la libertà personale consiste esclusivamente nell’assenza di coercizioni fisiche sul corpo, ha trovato successivamente sviluppo un’ulteriore concezione, più ampia, che fa rientrare nell’ambito della libertà personale anche la libertà morale, con conseguente divieto di utilizzo di strumenti di coazione psichica nei confronti dell’individuo (ad esempio, la psicoanalisi, la narcoanalisi e ogni forma di manipolazione del processo formativo di opinioni e decisioni)[2].

Anche la giurisprudenza costituzionale, chiamata ad esprimersi sul tema, talvolta ha accolto l’orientamento secondo cui la libertà personale va intesa come mera assenza di arbitrarie coercizioni fisiche[3]; talaltra, ha ricondotto nella tutela dell’art 13 Cost. anche la libertà morale[4].

Il 2 comma dell’art 13 Cost. prevede la possibilità di configurare alcune deviazioni dalla regola generale secondo cui non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale né qualsiasi altra forma di restrizione della libertà personale, prescrivendo che le deroghe non sono configurabili «se non per atto motivato della autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge».

Ed è qui, per l’appunto, che si esplicitano tre garanzie fondamentali dell’inviolabilità della libertà personale: la riserva di legge, la riserva di giurisdizione ed il principio di motivazione.

Più in particolare, quella posta dall’art. 13, comma 2, Cost. è una riserva assoluta di legge statale: si attribuisce esclusivamente a quest’ultima e agli atti ad essa equiparati la disciplina delle limitazioni alla libertà personale, escludendo che sulla materia si possa intervenire con altre fonti subordinate[5]. Inoltre, la legge deve determinare anche con sufficiente grado di specificazione sia i casi in cui può essere disposto un atto coercitivo, sia il procedimento e i modi attraverso i quali può avvenire la restrizione.

La seconda garanzia posta a presidio della libertà personale è la clausola che riserva ogni provvedimento coercitivo all’ «autorità giudiziaria». Infatti, le limitazioni della libertà personale sono ammesse a condizione non soltanto che la legge le preveda, ma anche che sia l’«autorità giudiziaria» a disporle.

In materia di misure cautelari, la riserva di giurisdizione è prevista dalla disposizione dell’art. 279 del c.p.p., rubricato «giudice competente», espressione della «giurisdizionalizzazione del sistema cautelare»[6], in quanto è prescritto che «sull’applicazione e sulla revoca delle misure nonché sulle modifiche delle loro modalità esecutive, provvede il giudice che procede» (precisando anche che «prima dell’esercizio dell’azione penale provvede il giudice delle indagini preliminari»).

Inoltre, deve osservarsi che non si tratta di una di una riserva di giurisdizione assoluta atteso che essa è inizialmente superabile; la conclusione si giustifica tenuto conto di quanto stabilisce il comma 3 dell’art. 13 dove è previsto che «in casi eccezionali di necessità e urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto».

Il suddetto comma, dunque, consente una deroga alla riserva di giurisdizione permettendo anche all’autorità di pubblica sicurezza l’adozione di provvedimenti che incidono sulla libertà personale dell’individuo, seppure in via provvisoria e solo nei casi tassativamente individuati dalla legge. Tuttavia, anche in questi casi è sempre necessario un controllo a posteriori da parte dell’autorità giudiziaria, il cui intervento si impone come obbligatorio e successivo, ai fini della convalida, tesa ad un esame nel merito delle restrizioni adottate, pena la caducazione degli effetti del provvedimento restrittivo[7].

In sintesi, si può affermare che nella materia dei provvedimenti che possono comportare un sacrificio della libertà personale, la previsione costituzionale sottolinea la centralità della pronuncia giurisdizionale che deve pur sempre intervenire: di norma in via preventiva – «per atto motivato dell’autorità giudiziaria» – ed eccezionalmente in via successiva attraverso il procedimento di convalida della misura adottata – «in casi eccezionali di gravità e urgenza».

Infine, è necessario evidenziare che, come già anticipato, ogni provvedimento con cui viene disposta una forma di coercizione personale deve essere motivato. La discrezionalità giurisdizionale viene, in tal modo, ad essere circoscritta, dal momento che, nell’adottare un provvedimento limitativo, l’autorità giudiziaria deve illustrare tutte le ragioni (di fatto e di diritto) che hanno determinato l’emanazione della misura restrittiva.

2. L’individuazione delle finalità giustificanti le restrizioni ante iudicatum della libertà personale

Va, anzitutto, premesso che la disciplina delle misure restrittive per esigenze cautelari, suddivise in misure cautelari personali e misure cautelari reali, ha ad oggetto quei provvedimenti disposti dall’autorità giudiziaria, provvisori ed immediatamente esecutivi, emessi nel periodo che intercorre tra l’inizio del procedimento penale e l’emanazione della sentenza, diretti ad evitare che il trascorrere del tempo possa provocare pericoli in merito all’accertamento del reato (inquinamento probatorio), all’esecuzione della sentenza definitiva (fuga o, per le reali, depauperamento del patrimonio da parte del sottoposto al procedimento o processo), alle conseguenze del reato ovvero alla commissione di altri reati.

Alla luce di ciò, appare chiaro come il principale problema che per primo deve essere risolto riguarda la compatibilità di dette finalità con i principi affermati nella Costituzione e confermati anche dalle fonti internazionali ossia, in primis, con il principio di inviolabilità della libertà personale di cui all’art. 13 Cost., al fine di individuare le ragioni e le esigenze considerate meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento e per questo tali da poter legittimare il sacrificio della libertà personale dell’imputato in attesa di giudizio.

Dunque, in dottrina si è sviluppato il problema del c.d. «vuoto dei fini»[8] proprio per sottolineare che, nella lettura dell’art. 13 Cost., non sono rintracciabili elementi minimi tali da indicare la fisionomia funzionale degli strumenti coercitivi ante iudicatum, atteso che l’individuazione di tali finalità permetterebbe di realizzare un ragionevole equilibrio tra le esigenze che a vario titolo possono ricondursi al processo penale e la contrapposta esigenza di tutelare nel massimo grado possibile la libertà dell’indagato o dell’imputato, inviolabile secondo la previsione costituzionale, rendendo effettivamente eccezionali le ipotesi di ricorso ad una misura cautelare.

A tal fine, frutto di intuizioni dottrinarie[9] fu l’idea che la presunzione di non colpevolezza di cui all’ art. 27, 2 comma, Cost. in base al quale «l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva», fosse indispensabile nella ricerca dei fini della custodia preventiva, rappresentando un principio integrativo dell’art. 13 Cost.

In altre parole, emerse che l’art. 13, in quanto norma di disciplina dei mezzi limitativi della libertà personale e, perciò, norma di carattere strutturale, dovesse ricevere direzione finalistica dall’art. 27, che è norma teleologicamente orientata, raggiungendo un raccordo strutturale in grado di superare quel «vuoto dei fini» che precedentemente era rimasto irrisolto a causa di una lettura isolata dell’art. 13 Cost.

Dall’analisi del principio di cui all’art 27 Cost. ne deriva implicitamente che se l’imputato non può essere considerato colpevole fino al definitivo accertamento condotto dal giudice all’esito del processo, allora la sua libertà personale non potrà subire vincoli di alcun tipo nel corso del processo sulla base di un’anticipazione del giudizio di colpevolezza, che trasformerebbe la misura cautelare in un’anticipazione illegittima della pena.

A tali considerazioni è giunta anche la Corte cost. la quale si è pronunciata sul tema affermando che «la carcerazione preventiva va disciplinata in modo da non contrastare con la presunzione di non colpevolezza dell’imputato, e non può avere la funzione di anticipare la pena, ma va disposta in vista della soddisfazione di esigenze di carattere cautelare o strettamente inerenti al processo»[10].

Sulla scorta di ciò, la dottrina ha ulteriormente escluso che le misure cautelari possano avere uno scopo intimidativo od esemplare, essendo l’esemplarità una categoria che implica un riconoscimento univoco della colpevolezza che non può giustificare il trattamento inflitto a chi sia solo imputato, per quanto gravi possano essere gli indizi a suo carico[11].

Analogo discorso può essere fatto in relazione ai motivi di «allarme sociale» che possono seguire al reato e che sono finalizzati a placare il turbamento collettivo, perché anche qui l’equivoco di fondo è sempre quello di una equiparazione tra l’imputato e il colpevole, nella logica della presunta colpevolezza[12].

Anzi in questo caso sarebbe ancora più irragionevole la restrizione della libertà personale, dipendendo essa da fattori esterni ed estranei rispetto al processo, e cioè dal grado di ansie e timori suscitati nella collettività dalla commissione del reato.

È chiaro che la commissione del reato possa destare nella collettività un certo allarme, che rivendicherebbe esigenze di tutela della stessa, ma a ciò dovrebbe rispondersi con la pena o con la misura di sicurezza quando però la colpevolezza possa dirsi certa.

Insomma, la misura cautelare in questi casi sarebbe una sostituzione provvisoria della pena, in chiaro contrasto con l’art. 27, comma 2 della Costituzione.

3. L’art. 27 della Costituzione e la presunzione di non colpevolezza dell’imputato

La presunzione di non colpevolezza è un principio del diritto penale che vige all’interno del nostro ordinamento (art. 27 co. 2 della Costituzione) secondo il quale un imputato è considerato non colpevole sino a condanna definitiva ovvero sino all’esito del terzo grado di giudizio emesso dalla Corte Suprema di Cassazione.

Insomma, la responsabilità penale in capo a un soggetto potrà sorgere solo nel momento in cui questo è riconosciuto colpevole della commissione di un reato e non in un momento antecedente ed, infatti, recita testualmente l’art. 27 comma 2 della Costituzione: «l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva».

L’imputato non può essere assimilato al colpevole prima della emanazione della sentenza e ciò se da un lato comporta il divieto di anticipare la pena, dall’altro consente l’emanazione delle misure cautelari.

Infatti, le uniche limitazioni possibili della libertà personale prima della condanna definitiva, sono rappresentate dall’applicazione delle misure cautelari che hanno finalità di tutela del processo.

Sotto il profilo terminologico, è nata una contrapposizione dal raffronto di due fonti normative: la Cost. parla di “presunzione di non colpevolezza”, mentre la Convenzione Europea e il Patto universale fanno riferimento alla “presunzione di innocenza”.

Allora: presunzione di innocenza o presunzione di non colpevolezza?

A favore della prima si schiera la dottrina che reputa la scelta costituzionale poco felice sul piano tecnico o discutibile su quello politico, dal momento che la formula adottata dalla Costituzione si presta ad opposte interpretazioni: «quella che ripropone una sostanziale elusione della forza cogente del principio e quella che fa perno sulla più genuina consacrazione che il principio riceve dalle Carte internazionali»[13].

Dall’altro lato, le opinioni tradizionali muovono dalla convinzione della mancanza di un conflitto tra Costituzione e Carte convenzionali, ritenendo altresì che il principio affermato sia concettualmente il medesimo in entrambe le fonti, per cui le formulazioni si integrano e si chiariscono a vicenda[14].

Sul punto è intervenuta anche in più occasioni la Corte cost., la quale, affermando che non si tratterebbe di una vera e propria presunzione d’innocenza perché altrimenti incompatibile con la custodia cautelare, ha espressamente sostenuto che la previsione di cui all’art. 27 co.2 si limiterebbe a dire che «durante il processo non esiste un colpevole ma solo un imputato»[15].

In realtà, si può tranquillamente affermare che le formule “innocente” e “non colpevole” rappresentano due varianti semantiche di un identico concetto, e che la diversità tra di esse rappresenta solo il frutto di concezioni storico–culturali differenti, oppure di mere opzioni lessicali contingenti[16].

In conclusione, se in dottrina vi sono divergenze circa l’eventuale compatibilità delle specifiche restrizioni cautelari con l’una o l’altra espressione, è pacifico che il principio minimo inderogabile espresso dall’art. 27, comma 2, consista nel divieto di equiparare l’imputato al colpevole.

Alla luce delle considerazioni appena fatte, disporre una misura cautelare nel corso del procedimento, o del processo penale, potrebbe apparire manifestamente contrario al divieto di equiparazione dell’imputato al colpevole.

Ed, invero, affiora una situazione che appare quantomeno contraddittoria: da una parte l’imputato, come vuole la Costituzione, dovrebbe essere trattato come innocente, ma dall’altra viene sottoposto a misure che non sono tanto distanti dalle conseguenze che deriverebbero dall’accertamento della colpevolezza.

Dunque, per ritenere legittime le misure cautelari a fronte del dettato costituzionale, il problema si sposta appunto sull’analisi delle finalità reputate sufficienti a giustificare la restrizione della libertà personale di un soggetto – imputato – che, fino a quando il processo non è concluso con sentenza definitiva di condanna, è visto dalla Costituzione come non colpevole.

Ecco allora che riemergono le considerazioni già fatte e la stretta relazione che intercorre e caratterizza le previsioni costituzionali degli artt. 13 e 27, comma 2, Cost, congiuntamente al bisogno di verificare se gli scopi delle restrizioni ante iudicatum siano, dunque, compatibili anche con la presunzione d’innocenza.

Innanzitutto, per quanto concerne il pericolo dell’inquinamento probatorio (esigenza cautelare di cui all’art. 274 lett A c.p.p.), esso appare in sintonia con la regola di cui all’art. 27 comma 2, in quanto non sembri comportare anticipati giudizi di colpevolezza nei confronti dell’imputato.

In secondo luogo, quanto all’esigenza cautelare costituita dalla fuga o dal concreto pericolo di fuga dell’imputato (lett B del medesimo articolo), va effettuata una riflessione: per considerare necessario restringere la libertà personale di un individuo, nella ragionevole previsione che si sottragga all’esecuzione dell’eventuale pena, si dovrebbe logicamente muovere dalla supposizione che egli possa essere condannato e che, sulla base di questa ipotesi, tale soggetto possa darsi alla fuga.

Tale duplice valutazione sembrerebbe assimilare, anche se in via provvisoria, l’imputato al colpevole e, allora, contrastare con la presunzione d’innocenza[17].

Tuttavia, al contempo appare molto arduo poter sostenere che le misure cautelari non abbiano alcun rapporto con l’ipotesi di una eventuale condanna, che rappresenta uno degli epiloghi del processo.

Alla luce di tale riflessione, il punto cruciale non risiede nell’impedire ogni valutazione di probabile colpevolezza da parte del giudice, ma nell’evitare che, sulla base di quell’unica ed esclusiva valutazione prognostica, venga affidata alla custodia cautelare una valenza sanzionatoria, aggirando in tal modo il divieto di punire l’imputato prima della condanna definitiva[18].

In ultimo, quanto all’art 274, lett. C, le esigenze extraprocessuali di tipo special-preventivo sembrerebbero contrastare con l’art. 27 comma 2 della Costituzione.

Infatti, limitare la libertà personale dell’imputato al fine di evitare che egli commetta altri reati significa necessariamente presupporre che egli sia colpevole.

Dando per scontato che queste istanze di prevenzione speciale sono costituzionalmente giustificabili in ragione della pericolosità dell’imputato[19], si evidenzia che, in contraddizione con il principio stabilito dall’art. 27 comma 2 secondo cui il giudizio di pericolosità non può precedere l’accertamento della colpevolezza, la finalità di prevenzione speciale sembrerebbe ancorata, ovviamente, proprio ad un giudizio anticipato della responsabilità penale e di minaccia sociale.

È ovvio che in questo modo sembrano essere giustificati tutti i dubbi di compatibilità dell’art. 274 lett. c) c.p.p. con l’art. 27 comma 2 Cost.

Se è vero che è difficile accettare l’idea che un imputato pericoloso possa essere lasciato libero sino all’emanazione della sentenza definitiva di condanna, è altrettanto vero che questo obiettivo non può essere perseguito attraverso l’istituto della custodia cautelare.

Per scongiurare il pericolo che vengano commessi ulteriori reati, a parere dello scrivente, bisognerebbe allora focalizzare l’attenzione su diversi obbiettivi ossia assicurare la celere definizione del processo e l’effettiva applicazione della pena.

 

 

 

 

 


BIBLIOGRAFIA
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[1] F. CARNELUTTI, Principi del processo penale, Napoli, 1960, pp. 175 ss.
[2] D’ALESSIO, Sub art. 13, in Commentario alla Costituzione, a cura di CRISAFULLI-PALADIN, Padova, 1990, p. 80
[3] Corte cost., 22 ottobre 1990, n. 471, in www.giurcost.org
[4] Corte cost., 31 maggio 1995, n. 210, in www.giurcost.org
[5] V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, vol. II, L’ordinamento costituzionale italiano, 5a ed., Padova, 1984, pp. 55 ss.
[6] A. BARBERA, I principi costituzionali della libertà personale, Giuffrè, 1967, p. 219.
[7] G. DI CHIARA, Libertà personale dell’imputato e presunzione di non colpevolezza, in G. FIANDACA- G. DI CHIARA Una introduzione al sistema penale. Per una lettura costituzionalmente orientata, Napoli, 2003, p. 307
[8] L. ELIA, Le misure di prevenzione tra l’art. 13 e l’art. 25 della Costituzione, in Giur. cost., 1964, 951.
[9] V. GREVI, Libertà personale dell’imputato e Costituzione, Milano, 1976, p. 37.
[10] Corte cost., sent. 4 maggio 1970, n. 64, in Giur. cost., 1970, 663.
[11] G. VASSALLI, Libertà personale dell’imputato, in Aspetti e tendenze del diritto costituzionale: scritti in onore di Costantino Mortati, Milano, 1977, p. 1120.
[12] V. GREVI, Libertà personale dell’imputato e Costituzione, Milano, 1976, p 42-43.
[13] M. NOBILI, La disciplina costituzionale del processo, I, Bologna, pp. 261 ss
[14] G. ILLUMINATI, Presunzione d’innocenza e uso della carcerazione preventiva come sanzione atipica, in Riv. it. dir. proc. pen., 1978, p. 28.
[15] Corte Cost., sentenza 6 luglio 1972 n. 124, in www.giurcost.org
[16] P. PAULESU, La presunzione di non colpevolezza dell’imputato, Torino, 2009, p. 59.
[17] G. AMATO, Individuo e autorità nella disciplina della libertà personale, Milano 1967, p. 380.
[18] ILLUMINATI, La presunzione d’innocenza dell’imputato, cit., p. 46.
[19] VASSALLI, Libertà personale dell’imputato e tutela della collettività, in Giust. Pen., 1978, pp. 1 e ss.

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