La compatibilità della pena dell’ergastolo con la funzione rieducativa della pena

La compatibilità della pena dell’ergastolo con la funzione rieducativa della pena

La funzione rieducativa della pena ed i principi dell’ordinamento giuridico

La funzione rieducativa della pena è proclamata dagli artt. 3 CEDU e 4 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che sanciscono il divieto di tortura e di pene o trattamenti inumani o degradanti; quanto al diritto interno, trova riconoscimento nell’art. 27, III comma, Cost., al punto da divenire un corollario fondamentale dell’ordinamento giuridico, guidando il legislatore nell’individuazione del trattamento sanzionatorio più idoneo a raggiungere tale scopo. Sul punto, secondo la Corte costituzionale (sentenza n. 313/1990), la rieducazione “non può essere ritenuta estranea alla legittimazione e alla funzione stessa della pena”, poiché la tendenza a rieducare caratterizza la pena nel suo contenuto ontologico e la accompagna da quando origina nell’astratta previsione normativa sino a quando in concreto si estingue. In quest’ottica, la pena non può assolvere ad una mera funzione retributiva – intesa quale riparazione del male cagionato – ma deve essere rivolta al reinserimento del colpevole nella società, creando così i presupposti perché, una volta libero, non commetta nuovi reati.

La funzione rieducativa della pena si completa con il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità; a riguardo, infatti, la Consulta (sentenza n. 104/1982) ha osservato che “il trattamento non contrario al senso di umanità deve caratterizzare oggettivamente il contenuto del singolo tipo di pena, indipendentemente dal tipo di reato per cui un certo tipo di pena viene specificatamente comminato”. Coerentemente con ciò, la funzione rieducativa della pena si riflette su alcuni importanti principi dell’ordinamento giuridico; in primis, sul principio di offensività, ex art. 25, II comma, Cost., che impone la punibilità solo per i reati offensivi dei beni giuridici tutelati; invero, se il trattamento sanzionatorio venisse applicato per la commissione di un fatto che non ha cagionato alcuna offesa, il colpevole avvertirebbe la pena inflitta come ingiusta, con conseguente mortificazione della funzione rieducativa della pena.

In secondo luogo, sul principio di colpevolezza, ex art. 27, I comma, Cost., per cui “la responsabilità penale è personale”: infatti, se il reato non fosse ascrivibile al suo autore, quest’ultimo avvertirebbe la pena come una punizione immotivata, senza che possa sortire un effetto rieducativo.

In terzo luogo, sul principio di tassatività, ex artt. 25, II comma, Cost e 7 CEDU, secondo cui il legislatore deve garantire ai consociati l’immediata accessibilità del precetto e la facile prevedibilità delle conseguenze in caso di violazione; pertanto, se il precetto fosse formulato in modo incomprensibile, non potrebbe dirsi che il reo lo ha violato consapevolmente, con il rischio che avvertirebbe la pena inflitta come ingiusta e che non risponderebbe alla funzione rieducativa.

Infine, sul principio di proporzione, ex art. 27, III comma, Cost., che impone una corrispondenza tra la sanzione ed il disvalore del reato commesso; da cui, una pena sproporzionata difficilmente renderebbe il precetto penale meritevole di ubbidienza, vanificando così la funzione rieducativa della sanzione.

La normativa e la giurisprudenza

Malgrado la funzione rieducativa della pena venga in rilievo specie nel momento della sua esecuzione, essa riveste un ruolo importante anche nel giudizio di cognizione, poiché l’applicazione di una pena sproporzionata non stimolerebbe nel colpevole alcuna spinta ad osservarla.

Sul piano normativo, l’art. 1 della l. 26/07/1975, n. 354 dispone che “Il trattamento penitenziario deve essere conforme a umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona”, dovendo tendere al reinserimento sociale anche mediante contatti con l’ambiente esterno.

Ed ancora. La l. 27/05/1998, n. 165 ha ampliato l’ambito applicativo delle misure alternative alla detenzione nel rispetto del principio secondo cui determinate persone, stante il tipo di reato commesso e le condizioni di vita, riceverebbero un incentivo maggiore verso la rieducazione non entrando nel circuito detentivo, poiché il contatto con esso sarebbe nocivo; da cui, la funzione rieducativa della pena deve trovare riconoscimento al momento della traduzione del condannato nell’istituto penitenziario, affinché l’ambiente carcerario orienti positivamente il futuro del reo.

Quanto alla giurisprudenza costituzionale, numerose sentenze di incostituzionalità hanno avuto ad oggetto l’art. 69 c.p., nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza, sulla recidiva reiterata, per determinati reati, di specifiche circostanze attenuanti. In tempi più recenti, il Giudice delle leggi ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 216 L.F. (in tema di bancarotta fraudolenta) nella parte in cui prevedeva l’applicazione della pena accessoria dell’inabilitazione all’esercizio dell’impresa “per la durata di 10 anni” anziché “fino a 10 anni”, nonché l’incostituzionalità dell’art. 574-bis c.p. (in tema di sottrazione e trattenimento di minore all’estero) nella parte in cui prevedeva, nei casi in cui il reato era stato commesso dal genitore del minore, la sospensione automatica dell’esercizio della responsabilità genitoriale anziché la facoltà per il magistrato di disporla. Da cui, secondo la Consulta, il divieto di prevalenza, la pena fissa e l’automatismo sanzionatorio non consentirebbero al giudice di irrogare una sanzione proporzionata alla gravità del fatto commesso, con conseguente offesa alla funzione rieducativa.

La compatibilità della funzione rieducativa con la pena dell’ergastolo. C. cost., sent. n. 253/19

Malgrado l’attenzione del Legislatore e della Corte costituzionale per la funzione rieducativa della pena, vi è una sanzione che, ancora oggi, solleva dubbi di compatibilità con essa: la pena dell’ergastolo. Ai sensi dell’art. 22 c.p., “La pena dell’ergastolo è perpetua, ed è scontata in uno degli stabilimenti a ciò destinati, con l’obbligo del lavoro e con l’isolamento notturno”; da cui, se la rieducazione consiste nel favorire il positivo ritorno del condannato nella società, si può dubitare della legittimità di una pena che ne impone l’allontanamento definitivo.

Sulla materia, è intervenuta la Consulta, dichiarando l’incostituzionalità dell’applicazione dell’ergastolo ai minori con una personalità fragile ed in via di formazione – poiché verrebbe compromessa da una pena perpetua e non idonea a rieducare – giudicandola, invece, legittima per i maggiorenni colpevoli di reati di gravità tale da essere ritenuti particolarmente pericolosi. Pertanto, la pena dell’ergastolo può dirsi legittima solo se comminata per reati espressivi di elevato disvalore, poiché offensivi di valori particolarmente avvertiti nell’ordinamento. Non solo. Si impone il rispetto dei diritti del detenuto ergastolano, non potendo la pena perpetua tradursi in un trattamento inumano o degradante; da cui, l’ergastolano può anche accedere alle misure alternative alla detenzione, nonché ai permessi premio.

Ciò trova una deroga in relazione all’ergastolo ostativo, ex art. 4-bis della l. n. 354/1975, il cui I comma impedisce la concessione di permessi premio, di misure alternative alla detenzione e l’assegnazione al lavoro all’esterno per i condannati all’ergastolo per uno dei delitti indicati dalla stessa norma, che non hanno collaborato con la giustizia; tuttavia, l’art. 4-bis, comma 1-bis, della l. n. 354/1975 riconosce i predetti benefici se vi sono elementi tali da escludere collegamenti con la criminalità organizzata e terroristica, anche se la limitata partecipazione al reato (collaborazione irrilevante) o l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità (collaborazione inesigibile) rendono impossibile un’utile collaborazione con la giustizia.

Ebbene, in passato, la Consulta ha considerato l’ergastolo ostativo conforme alla finalità rieducativa della pena, malgrado il rifiuto di collaborare con la giustizia esprima un legame mai reciso con la criminalità, tale per cui il reo non è meritevole dei benefici penitenziari. In tempi più recenti, invece, la Corte Edu ha osservato che l’ergastolo ostativo viola l’art. 3 CEDU – integrando un trattamento inumano e degradante – e che l’art. 4-bis, I comma, della l. n. 354/1975 fa discendere dalla mancata collaborazione una presunzione assoluta di mantenimento del legame con il mondo delinquenziale; presunzione, tuttavia, illogica ed irragionevole, poiché la scelta di non collaborare non sempre esprime un comportamento volontario del reo, potendo essere giustificata da altri motivi. Da cui, la presunzione derivante dalla mancata collaborazione che impedisce la concessione di misure alternative e di benefici premiali viola l’art. 3 CEDU, poiché dovrebbe intendersi come trattamento inumano e/o degradante in contrasto con la finalità rieducativa della pena.

Tale censura ha avuto effetti anche sull’ordinamento giuridico italiano. Invero, con sentenza n. 253/19, la Consulta ha dichiarato illegittimo l’art. 4-bis, I comma, della l. n. 354/1975 “nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis del codice penale e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo ordin. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti”. A riguardo, veniva contestata l’assolutezza della preclusione che impediva di valutare l’effettiva pericolosità del reo, comportando per questo l’aprioristica inammissibilità di ogni richiesta di accesso ai benefici penitenziari, con relativa mortificazione della funzione rieducativa della pena. La pronuncia riguarda in via esclusiva la preclusione di accesso ai benefici penitenziari e, specie, ai permessi premio, per il condannato – non collaborante con la giustizia – per i reati di associazione mafiosa; tale preclusione impedisce al magistrato di sorveglianza “qualunque valutazione in concreto sulla pericolosità del condannato, determinando in limine l’inammissibilità di ogni richiesta di quest’ultimo di accedere ai benefici penitenziari”. Sul punto, secondo la Corte, la questione non riguarda l’ergastolo ostativo, ma i condannati per i reati ostativi – a pena perpetua o temporanea – che non possono accedere ai permessi premio, qualora non abbiano esercitato un’utile collaborazione (anche dopo la condanna), che si realizza adoperandosi per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori o aiutando l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per ricostruire i fatti, individuare o catturare gli autori dei reati. Peraltro, è consentito l’accesso ai benefici – sempre che “siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva” – qualora la collaborazione risulti inesigibile (limitata partecipazione del condannato al fatto criminoso), impossibile (per integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità operato nelle sentenza di condanna) o oggettivamente irrilevante (sempre che siano state applicate circostanze attenuanti, in ragione della riparazione del danno o del compimento di azioni volte ad attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato o perché l’opera prestata ha avuto minima importanza nella preparazione o esecuzione del reato o perché il delitto commesso è stato diverso da quello voluto da uno dei concorrenti). Da cui, salvo tali ipotesi, “la scelta di collaborare con la giustizia viene […] assunta come la sola idonea a rimuovere l’ostacolo alla concessione dei benefici indicati, in ragione della sua valenza “rescissoria” del legame con il sodalizio criminale”.

Dunque, la presunzione è relativa e l’attenuazione deriva dalla precisazione per cui il superamento della presunzione di pericolosità sociale del reo che non collabora non può essere determinato solo dalla regolare condotta carceraria o dalla partecipazione al percorso rieducativo, poiché, secondo la Corte, devono ricorrere elementi tali da far escludere sia “l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata”, sia il “pericolo di un loro ripristino” e di questi elementi “grava sullo stesso condannato che richiede il benefici l’onere di fare specifica allegazione”. In sintesi, con sentenza n. 253/2019, la Consulta ha dichiarato che la presunzione assoluta di pericolosità sociale del condannato, sulla scorta dell’assunto che il rifiuto di collaborare equivalga alla perdurante pericolosità, è illegittima poiché irragionevole ed in contrasto con l’art. 27, III comma, Cost., che – sancendo la funzione rieducativa della pena – implica la progressività trattamentale e la flessibilità della pena contro rigidi automatismi.


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Sara Ionà

- Laurea Magistrale in Giurisprudenza (LMG/01) presso l'Università degli Studi di Roma, "RomaTre", Dipartimento di Giurisprudenza, Corso di Laurea Magistrale, con tesi di laurea in diritto penale, "Le situazioni preclusive dei benefici penitenziari (art. 4-bis ord. penit.)". - Praticante Avvocato Abilitata al patrocinio.

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