La concretizzazione e la prova del c.d. metodo mafioso nelle mafie delocalizzate sul territorio e nelle mafie di nuova formazione

La concretizzazione e la prova del c.d. metodo mafioso nelle mafie delocalizzate sul territorio e nelle mafie di nuova formazione

Sommario: 1. L’associazione di stampo mafioso ex art. 416-bis c.p. – 2. Le “nuove mafie” e le “mafie delocalizzate” – 3. L’estrinsecazione e la prova del metodo mafioso

 

A distanza di più di trent’anni dall’introduzione dell’articolo 416 bis c.p.  torna ad essere oggetto di attenzione uno degli elementi cardine dell’associazione di tipo mafioso, ovvero il concetto di “metodo mafioso”.

I più recenti interventi giurisprudenziali in materia si confrontano con un aspetto particolarmente recente della criminalità organizzata, ossia l’espansione del potere criminale da regioni che storicamente convivono con il fenomeno mafioso verso regioni tipicamente refrattarie a quest’ultimo, in contesti, dunque, differenti da quelli che hanno ispirato il legislatore del 1982 alla creazione della fattispecie criminosa.

1. L’associazione di stampo mafioso ex art. 416-bis c.p.

La norma in esame è diretta a tutelare l’ordine pubblico, minacciato dall’utilizzo della forza di intimidazione (e conseguentemente dalla condizione di assoggettamento e omertà che ne derivano), tramite l’applicazione di pene a coloro che promuovono, costituiscono, organizzano o partecipano ad una associazione di stampo mafioso. Per promotore è da intendersi colui che ha stimolato inizialmente l’associazione, per costitutore colui che, insieme a quest’ultimo, determina la nascita del sodalizio mafioso, mentre per organizzatore colui che ne regolamenta l’attività; per quanto concerne il partecipe, egli è colui che mette stabilmente a disposizione il proprio contributo ed è stabilmente inserito nella struttura associativa, rilevando anche il mero concorso morale.

La norma richiede altresì la c.d. affectio societatis, ossia la consapevolezza di essersi vincolati all’associazione con la conoscenza dei connotati della stessa, fra cui gli scopi e l’utilizzo del metodo mafioso.

La corretta qualificazione giuridica della associazione di stampo mafioso di cui all’art. 416 bis c.p. passa indubbiamente attraverso la perimetrazione degli elementi distintivi rispetto alla fattispecie generale prevista dal precedente articolo 416 c.p., l’associazione per delinquere. Elemento pregnante di differenziazione delle due fattispecie risulta quello del “metodo mafioso“, essenziale ai fini di un corretto inquadramento di una realtà di criminalità organizzata. Il dato letterale dell’art. 416 bis c.p. ci fornisce una definizione ben precisa di associazione di stampo mafioso: l’associazione può ritenersi di tipo mafioso quando coloro i quali ne fanno parte si avvalgono, per il compimento di attività illecite o lecite che siano, della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo stesso e della conseguente condizione di assoggettamento ed omertà altrui (art 416 bis comma 3 : “L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali”).

Occorre sottolineare che il pericolo per l’ordine pubblico è dato dalla stessa esistenza dell’associazione mafiosa, a prescindere dalle finalità che essa persegue. Per tale motivo l’associazione può anche avere ad oggetto attività lecite. La disposizione in esame, dunque, si differenzia dall’associazione per delinquere anche con riferimento alle finalità, in quanto, oltre alla commissione di delitti, l’associazione in esame può perseguire anche finalità lecite avvalendosi del mezzo illecito della forza di intimidazione (“(…)per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici(…)”). Di conseguenza è sufficiente la presenza di una soltanto delle finalità indicate dalla norma, la cui elencazione è tassativa.

2. Le “nuove mafie” e le “mafie delocalizzate”

Storicamente l’articolo 416 bis c.p. fonda le proprie radici in contesti territoriali propri di realtà ben definite, nelle quali il semplice richiamo alla nozione di mafia provoca una diretta reazione di intimidazione ed assoggettamento. Tuttavia, è da rilevare che l’ultimo comma dell’articolo in questione opera una estensione di punibilità anche ad altre associazioni , qualora si avvalgano del medesimo metodo: “Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alla camorra, alla ‘ndrangheta e alle altre associazioni, comunque localmente denominate, anche straniere, che valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso”.

In proposito occorre fare riferimento all’espressione “nuove mafie”, con la quale si suole indicare associazioni criminose di recente genesi, non connesse alle tradizionali mafie presenti sul territorio nazionale.

Da tale espressione è necessario tenere ben distinta quella di “mafie delocalizzate”, la quale indica quelle cellule di associazioni mafiose operanti in contesti territoriali, culturali ed economici storicamente estranei al fenomeno mafioso. Le associazioni in questione si inseriscono nell’ambito del fenomeno di occupazione di territori una volta immuni da forme di manifestazione delinquenziale mafiosa, ad opera di sodalizi già ben consolidati in diverse realtà territoriali. Tali nuove realtà restano strettamente legate alla casa madre, da cui mutuano le stesse regole organizzative.

3. L’estrinsecazione e la prova del metodo mafioso

Il problema che si intende portare alla luce è se occorre verificare che l’associazione mafiosa abbia conseguito una capacità di intimidazione reale ed effettiva nel nuovo ambiente in cui opera, oppure se possa bastare anche soltanto che l’associazione in questione abbia conservato la forza di intimidazione già acquisita dall’organizzazione madre.

Sul punto si sono a lungo fronteggiati due diversi orientamenti:

– la concezione potenziale secondo la quale in zone geografiche storicamente avvezze al fenomeno mafioso tale metodo può consistere nella mera capacità potenziale del gruppo organizzato di suscitare intimidazione a prescindere da un suo effettivo utilizzo.

– la concezione effettiva secondo cui il metodo mafioso va riscontrato unicamente in presenza dell’uso effettivo della forza intimidatrice.

La questione, di carattere probatorio è, pertanto, stata risolta diversamente: mentre inizialmente la giurisprudenza negava qualsivoglia contrasto sul punto, ritenendo consolidata la concezione effettiva (si veda l’ordinanza di rimessione num. 15807/2015 II Sezione penale della corte di Cassazione), alcune pronunce successive hanno accolto l’opposta concezione potenziale (si veda CASS., Sez. 1, N. 5888 del 10/01/2012, Garcea).

Tale persistente contrasto ha spinto le sezioni unite della corte di cassazione a pronunciarsi sul tema con definitiva decisione, contenuta nel provvedimento di restituzione di atti del 17 luglio 2019. Per la seconda volta nel giro di appena quattro anni l’attesa riposta sul chiarimento è stata ripagata da un’altra mancata decisione sul tema. Difatti, come accaduto nella precedente occasione tramite l’ordinanza di restituzione degli atti del 2015, il supremo collegio ha sostenuto l’inesistenza di un effettivo contrasto sul tema.  Secondo la Corte ai fini della configurabilità di un’associazione di tipo mafioso (di qualunque tipologia) è necessaria una effettiva capacità intimidatrice del sodalizio criminale da cui derivino le condizioni di assoggettamento ed omertà di quanti vengano con esso in contatto.  Di conseguenza la differenza fra le due tipologie di “nuove mafie” e “mafie delocalizzate” non risiederebbe nell’esistenza o meno del c.d. metodo mafioso concreto ed effettivo, bensì solamente nella modalità probatoria del metodo stesso: nel caso delle “nuove mafie” è necessario riscontrare l’esternalizzazione del metodo in tutti i suoi elementi; nel caso delle “mafie delocalizzate” è sufficiente la verifica di un collegamento con la cellula principale per inferire nella cellula locale l’esistenza dei tratti distintivi del metodo mafioso. La questione ruota attorno alla corretta valutazione delle evidenze probatorie delle caratteristiche organizzative della cellula delocalizzata, oltre che dei suoi rapporti con la cellula madre, ovvero, in altri termini delle forme di esteriorizzazione del metodo mafioso, anche in forma silente.

In conclusione il provvedimento desta particolare interesse per il principio di diritto in esso enunciato: invero, l’affermazione in forza della quale è sempre richiesta una capacità intimidatrice effettiva e concretamente riscontrabile ai fini del riconoscimento della natura mafiosa di una qualunque articolazione del sodalizio risulta ineccepibile. Non è, difatti, possibile immaginare una fattispecie associativa mafiosa in cui la consistenza del metodo di cui al comma 3 dell’art. 416 bis c.p. muti a seconda delle caratteristiche delle realtà criminali a cui deve essere applicato. Anche qualora la natura dell’associazione sia quella di sodalizio delocalizzato resta sempre imprescindibile la dimostrazione della effettiva sussistenza del “metodo mafioso”.


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Claudia Ruffilli

Claudia Ruffilli, nata a Bologna il 21 aprile 1992. Ho conseguito il diploma di maturità classica presso il Liceo Classico Marco Minghetti di Bologna. Nel 2017 ho conseguito la Laurea Magistrale in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Bologna. Ho svolto la pratica forense presso uno Studio Legale ed un tirocinio formativo presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna. Nel 2019 ho conseguito l'abilitazione all'esercizio della professione forense presso la Corte di Appello a Bologna, dove lavoro.

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