La Consulta si pronuncia sulla legittimità costituzionale dell’articolo 702-ter c.p.c.

La Consulta si pronuncia sulla legittimità costituzionale dell’articolo 702-ter c.p.c.

Premessa normativa. Con l’art. 51, comma I, della legge 18 giugno 2009 n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile) il legislatore ha introdotto nell’ordinamento processual-civilistico il rito c.d. sommario inserendo il Capo III-bis (artt. 702-bis e ss.), intitolato “Del procedimento sommario di cognizione”, nel Libro IV, titolo I, del codice di rito.

La ratio di tale intervento normativo è evidente ed è intimamente legata al principio di ragionevole durata del processo. Il procedimento sommario, difatti, è volto a evitare le lungaggini del primo grado del processo civile per una serie di controversie semplici in quanto connotate da un’istruttoria non complessa. Invero, a fronte di una destrutturazione della fase istruttoria[1], il rito sommario permette di giungere a un risultato potenzialmente stabile: in tal senso, l’ordinanza conclusiva del procedimento de quo è provvisoriamente esecutiva e costituisce titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale e per la trascrizione; se non impugnata nei trenta giorni successivi alla comunicazione o notificazione, l’ordinanza conclusiva del procedimento sommario acquista inoltre il valore di cosa giudicata ex art. 2909 c.c.

Trattasi di una sommarietà formale, incidente sul quomodo dell’accertamento e non sul risultato del giudizio; tale semplificazione processuale è giustificabile nell’ottica della circoscrizione dell’ambito applicativo del rito in questione, ricondotto dall’art. 702-bis alle sole cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica. Si potrebbe asserire, dunque, una presunzione di semplicità legalmente riconosciuta per le cause di cui all’art- 50-ter c.p.c., semplicità che il giudice dovrà, nondimeno, accertare in concreto (a tal fine è rilevante il fatto che la causa verta, ad esempio, su questioni di diritto oppure che implichi un’istruttoria non complessa).

A tal uopo, qualora il giudice dovesse riconoscere ex actis la difficoltà organizzativa dell’istruttoria da espletare, lo stesso potrà convertire il rito fissando l’udienza di comparizione e trattazione secondo il rito di cognizione ordinario di cui all’art. 183 c.p.c.[2]

Il punctum dolens del rito sommario risiedeva nell’inammissibilità, prevista dall’art. 702-ter, comma II, ultimo periodo, di una domanda riconvenzionale non rientrante nella competenza del tribunale in composizione monocratica, con un evidente vulnus del principio del simultaneus processus qualora la riconvenzionale vertesse su una questione legata da un rapporto di connessione “forte” con la questione oggetto del ricorso principale.

La vicenda. Con ricorso ex art. 702-bis depositato presso la cancelleria del Tribunale di Termini Imerese, i ricorrenti agivano nei confronti del proprio genitore per il rilascio di un bene immobile dallo stesso detenuto e devoluto in successione ai ricorrenti in forza di un testamento olografo del de cuius.

Nel costituirsi, il convenuto impugnava il predetto testamento in via riconvenzionale asserendo la propria qualità di erede mercé un testamento pubblico. La domanda riconvenzionale spiegata dai ricorrenti riveste un carattere pregiudiziale in senso tecnico-giuridico rispetto a quella proposta in via principale, poiché l’accoglimento della domanda di rilascio presuppone la validità del testamento olografo con cui i ricorrenti sono stati istituiti eredi.

L’impugnazione di un testamento è una domanda di competenza del tribunale in composizione collegiale ex art. 50-bis, comma I, numero 6, c.p.c. e, in quanto tale, il giudice di Termini Imerese, attenendosi al dettato normativo, avrebbe dovuto continuare il giudizio precedentemente incardinato dichiarando, ex art. 702-ter c.p.c., l’inammissibilità della domanda riconvenzionale.

Con ordinanza del 10 ottobre 2019, il succitato Tribunale sollevava una questione di legittimità costituzionale dell’art. 702-ter per contrasto con gli articoli 3 e 24 della Costituzione nella parte in cui prevedeva una inammissibilità tout court delle riconvenzionali promosse nel corso di un giudizio incardinato con il rito sommario e non appartenenti alla competenza del tribunale in composizione monocratica, senza discernere a seconda del carattere “debole” o “forte” della connessione che lega la causa principale e quella introdotta in via riconvenzionale.

La censura dell’art. 702-ter c.p.c. si concentra, secondo il giudice rimettente, nella violazione del principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) dacché il predetto articolo determina la possibilità di un contrasto tra giudicati.

Il giudice a quo rappresenta, altresì, l’incongruenza tra l’articolo 702-ter c.p.c. e l’art. 34 c.p.c., secondo cui il giudice, se “è necessario decidere con efficacia di giudicato una questione pregiudiziale che appartiene per materia o valore alla competenza di un giudice superiore, rimette tutta la causa a quest’ultimo”; non si vede, difatti, la ratio di tale disparità di trattamento, che permette una trattazione congiunta qualora la causa pregiudiziale sia di competenza di un diverso giudice e impone, invece, di dichiarare inammissibile la riconvenzionale se di competenza del medesimo ufficio giudiziario, ma in una diversa composizione giudicante.

Secondo il Tribunale di Termini Imerese, infine, l’art. 702-ter violerebbe l’art. 24 della Costituzione poiché esso permetterebbe al ricorrente di ottenere, nelle forme più celeri del rito sommario, una decisione che non terrebbe conto della causa pregiudiziale promossa in via riconvenzionale, in quanto dichiarata inammissibile.

La sentenza n. 253/2020. La Consulta, nel ritenere fondata la questione promossa dal giudice rimettente, ricorda che quando la decisione della causa introdotta in via principale è condizionata dalla risoluzione di un’altra causa avvinta da un nesso di pregiudizialità-dipendenza con la prima, è necessaria una trattazione congiunta, un simultaneus processus, onde evitare un contrasto tra giudicati e preservare il principio di ragionevolezza.

Gli effetti scaturenti dalla causa pregiudicante, difatti, non possono che riverberarsi sulla causa pregiudicata e condizionarne l’esito, costituendone un presupposto in senso logico-giuridico.

La disposizione censurata si pone in irrimediabile contrasto con l’ordinamento processual-civilistico, il quale propende per la trattazione congiunta in presenza di un nesso di pregiudizialità-dipendenza tra cause.  Tale illazione è confermata dalla disciplina della riunione di cui all’art. 274 c.p.c. e dalla disciplina sancita dall’art. 34 c.p.c., ai sensi del quale: “il giudice, se per legge o per esplicita domanda di una delle parti è necessario decidere con efficacia di giudicato una questione pregiudiziale che appartiene per materia o valore alla competenza di un giudice superiore, rimette tutta la causa a quest’ultimo, assegnando alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa davanti a lui».

Peraltro, qualora l’art. 34 c.p.c. non realizzi il coordinamento necessitato, soccorrerebbero comunque rimedi operanti a posteriori: in particolare, la sospensione necessaria della causa pregiudicata ex art. 295 c.p.c. ove la causa pregiudicante non sia ancora stata decisa in primo grado e la sospensione facoltativa ex art. 337, comma II, qualora la causa pregiudiziale sia sub judice nella fase di impugnazione.

Il mancato coordinamento tra cause avvinte da un rapporto di connessione “forte” per pregiudizialità dipendenza comporta un contrasto tra giudicati che porterebbe alla prevalenza del giudicato successivamente formatosi, ammenoché lo stesso non sia impugnato per revocazione, contingenza possibile solo laddove la seconda decisione non abbia statuito in merito all’eccezione di giudicato.

Oltreché essere incompatibile con il sistema complessivo, la norma censurata dal giudice a quo si presenta, altresì, irragionevole rispetto allo scopo perseguito, ovvero garantire la ragionevole durata dei processi. Lo scopo ambito, difatti, per quanto mirabile, non può riflettersi in una decisione iniqua in quanto presa in assenza di una statuizione costituente un necessario presupposto giuridico; e sebbene l’ordinamento preveda rimedi di carattere processuale per tale evenienza, resta fermo il dato dell’inadeguatezza di una trattazione separata, la quale vulnera il diritto di difesa del convenuto che vede la propria domanda riconvenzionale dichiarata inammissibile.

Emergono, inoltre, delle contraddizioni esegetiche tra la lettera dell’art. 702-ter e la giurisprudenza della Suprema Corte. Secondo la Cassazione, nell’ipotesi di proposizione dinanzi a giudici diversi di una domanda principale con rito sommario e di una riconvenzionale pregiudicante riservata al tribunale in composizione collegiale, il giudice adito con ricorso ex art. 702-bis non può ricorrere al rimedio della sospensione necessaria di cui all’art. 295 c.p.c., ma deve mutare il rito fissando l’udienza di cui all’art. 183 (Corte di cassazione, sezione sesta civile, sottosezione terza, ordinanza 2 gennaio 2012, n. 3), in conformità alla disciplina ordinaria della connessione tra cause. Si noti, a tal riguardo, che la medesima soluzione interpretativa è stata promossa dalla Suprema Corte nell’ipotesi in cui le due domande, per come testé definite, siano proposte in via principale dinanzi allo stesso giudice, l’una nelle forme del rito sommario e l’altra nelle forme del rito ordinario di cognizione (Corte di cassazione, sezione sesta civile, sottosezione terza, ordinanza 7 dicembre 2018, n. 31801).

La disposizione censurata – ricorda la Corte costituzionale – risulta altresì incompatibile con la stessa disciplina normativa del rito sommario: se la riconvenzionale rientrasse nella competenza del giudice adito, difatti, il terzo comma dell’articolo 702-ter permetterebbe al giudice, valutata la complessità della causa e non ritenuti sussistenti i presupposti sostanziali per una trattazione sommaria, di disporre il mutamento del rito fissando l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c.

Nella fattispecie considerata, infine, la previsione di una pronuncia di inammissibilità senza possibilità di valutare un mutamento di rito non appare coerente rispetto alle più recenti tendenze evolutive del processo di cognizione, le quali concedono al giudice un’ampia facoltà di valutazione in ordine al rito più consono rispetto alle esigenze derivanti dalla trattazione della causa. [3]

Conclusioni. Con la sentenza n. 253/2020 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 702-ter, comma II, c.p.c. nella parte in cui non prevede la possibilità, per il giudice adito nelle forme del c.d. procedimento sommario, di disporre la conversione del rito fissando l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c. ove venga proposta, in via riconvenzionale, una causa pregiudiziale a quella oggetto del ricorso principale e appartenente alla competenza del tribunale in composizione collegiale.

Il giudice adito nelle forme del rito sommario deve poter valutare la natura e il nesso relazionale intercorrente tra la domanda proposta in via principale e quella, soggetta alla riserva di collegialità, avanzata in via riconvenzionale, disponendone la trattazione congiunta qualora tra le stesse si presenti un rapporto di pregiudizialità in senso logico-giuridico.

 

 

 

 


[1] L’art. 702-ter, comma V, c.p.c., difatti, statuisce in tal guisa: “…alla prima udienza il giudice, sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione rilevanti in relazione all’oggetto del provvedimento richiesto…”.
È la destrutturazione della fase istruttoria a giustificare la denominazione relativa alla sommarietà, poiché, come ricorda la Suprema Corte (Corte di Cassazione, sezioni unite civili, ordinanza 10 luglio 2012, n. 11512) la cognizione, nel rito di cui al capo III-bis del Libro IV, titolo I, del c.p.c., è e resta piena.
[2] Potere specularmente opposto è previsto per il giudice del processo ordinario di cognizione che, nelle medesime cause soggette all’applicazione del rito sommario, “nell’udienza di trattazione, valutata la complessità della lite e dell’istruzione probatoria, può disporre, previo contraddittorio anche mediante trattazione scritta, che si proceda a norma dell’art. 702-ter…” (art. 183-bis c.p.c., introdotto dall’art. 14 del d.l. n. 132 del 2014, convertito, con modificazioni, in legge n. 162 del 2014).
[3] A tal uopo, si ricordi il disposto dell’articolo dall’art. 702-ter, comma III (il giudice adito nelle forme di cui al capo III-bis del titolo I, libro IV, c.p.c., “se ritiene che le difese svolte dalle parti richiedono un’istruzione non sommaria…, con ordinanza non impugnabile, fissa l’udienza di cui all’art. 183”) e dell’art. 183-bis (“Nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica, il giudice nell’udienza di trattazione, valutata la complessità della lite e dell’istruzione probatoria, può disporre, previo contraddittorio anche mediante trattazione scritta, con ordinanza non impugnabile, che si proceda a norma dell’articolo 702 ter e invita le parti ad indicare, a pena di decadenza, nella stessa udienza i mezzi di prova, ivi compresi i documenti, di cui intendono avvalersi e la relativa prova contraria. Se richiesto, può fissare una nuova udienza e termine perentorio non superiore a quindici giorni per l’indicazione dei mezzi di prova e produzioni documentali e termine perentorio di ulteriori dieci giorni per le sole indicazioni di prova contraria”).

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Marcello Albanese

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