La diffamazione a mezzo stampa e social. I possibili strumenti di tutela della vittima

La diffamazione a mezzo stampa e social. I possibili strumenti di tutela della vittima

Il mondo digitale propone nuove modalità di comunicazione e di diffusione delle notizie, improntate tutte sulla velocità di divulgazione, con la conseguenza che una data informazione raggiunge un numero elevatissimo di utenti del web in un tempo piuttosto ridotto. Nel grande marasma di notizie non è raro imbattersi in messaggi dal contenuto denigratorio, come commenti sgradevoli nei confronti di una persona, che hanno un impatto sociale ancora più forte se si tratta di personaggi noti al pubblico, ma anche diffusione di notizie diffamatorie di varia natura. Chiaro è che più si espande la portata divulgativa delle informazioni, maggiore sarà la ricezione, soprattutto se le notizie approdano su piattaforme social. Dunque, quello che circola tra un numero limitato di persone può trasformarsi in un fenomeno di elevata portata, per cui la diffamazione può assumere connotati più estesi se approda nel mondo social.

La diffamazione è un reato disciplinato dal codice penale all’art. 595 c.p., il cui comma 1 prevede che ” Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a 1.032,00 euro”. L’art. 595 c.p., dopo aver sinteticamente descritto cos’è il reato di diffamazione, nei commi successivi prevede delle ipotesi aggravate del reato in esame con i conseguenti aumenti di pena, come il caso in cui l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, ovvero quando la notizia è diffusa con i mezzi della stampa o altro mezzo di pubblicità, o ancora quando l’offesa è arrecata a un corpo politico, amministrativo o giudiziario.

Si analizzano i requisiti minimi del reato in oggetto, quali l’offesa dell’altrui reputazione e la comunicazione con più persone. L’offesa dell’altrui reputazione è la lesione delle qualità personali, morali, sociali e professionali di un individuo. Ciò che rileva è più che altro il tono offensivo e non tanto le parole che sono utilizzate per diffamare una persona, per cui potrebbero essere lesive anche quelle espressioni che non sono volgari ma che se usate per offendere assumono in toto carattere diffamatorio ( Cass. pen., sez. V n. 34145/2019, con cui la Cassazione, annullando una sentenza di assoluzione, ha riconosciuto il carattere diffamatorio del termine “animale” utilizzato dal soggetto imputato, un padre che in una chat di gruppo ha definito in tal modo un bambino che aveva ferito la figlia al volto). Bisogna poi tener conto anche del contesto in cui certe espressioni sono utilizzate: ad esempio nel caso del gossip è opportuno esprimersi secondo i parametri della critica di costume, con possibilità di ricorrere anche a toni sferzanti purché contestualizzati e non offensivi. Per quanto riguarda il secondo requisito, la comunicazione con più persone, essa può avvenire oralmente o per iscritto, ma non è necessaria la contemporaneità. Questo accade quando la notizia è pubblicata sui social networks, poiché è inevitabile la diffusione con condivisione da parte degli utenti (Cass., pen., sez. V, n. 8328/2015).

Per quel che concerne la vittima, non è necessario che sia identificato in modo preciso per nome e cognome, ma è sufficiente che sia facilmente individuabile anche in un numero ristretto di persone, a condizione che quanti recepiscono la notizia diffamatoria sono a conoscenza di alcuni particolari della vita privata della vittima, come il lavoro che svolge o in generale le abitudini di vita.

Riguardo l’elemento soggettivo, è sufficiente il dolo generico, dunque il soggetto reo deve essere consapevole di pronunciare o scrivere un contenuto di natura diffamatoria nei confronti della vittima. Tra le circostanze aggravanti del reato di diffamazione rientra l’ipotesi di diffusione dell’offesa a mezzo stampa, pubblicità o atto pubblico e risulta pacifico che tra le varie forme vi rientri la diffusione tramite social networks. Su questo punto la giurisprudenza ha riconosciuto la forma aggravata quando ” il messaggio viene inoltrato a destinatari molteplici e diversi, per esempio attraverso la funzione di forward o a gruppi di Whatsapp, su Twitter o su Facebook (Cass. pen., sez. V, n. 7904/2019). In questi casi se l’individuazione della vittima è di facile reperimento, lo stesso non può dirsi per l’identificazione del reo, poiché la notizia può partire da un qualunque dispositivo. Per cui è necessario risalire all’indirizzo IP, ovvero al codice numerico assegnato ad ogni dispositivo elettronico nell’esatto momento della connessione ad una data prestazione del servizio telefonico.

Un aspetto rilevante è il tema del consenso prestato per la pubblicazione di un contenuto o anche di una immagine. In questo caso il fatto di dare il proprio consenso per la divulgazione di una certa notizia non esclude il reato di diffamazione qualora il consenso sia stato prestato per un certo scopo e poi la notizia o l’immagine sono diffusi per altre finalità (Cass. pen., sez. III, n. 19659/2019).

Chi è vittima di diffamazione ha la possibilità di ricevere tutela attraverso il risarcimento del danno, che può avere sia natura patrimoniale sia natura non patrimoniale. Nel primo caso, è possibile difendersi adducendo come prova in giudizio l’effettiva riduzione dei propri redditi a cui si aggiungono testimonianze di mancate occasioni professionali e lavorative come conseguenza del fatto diffamatorio. Nell’ipotesi di danno non patrimoniale, la vittima può avvalersi di prove, anche di natura documentale, da cui emerga l’esistenza di danni al proprio onore e la concreta difficoltà di sostenere relazioni di natura sociale, compromesse dalla diffamazione subìta. Nel caso specifico di diffamazione a mezzo stampa, oltre il risarcimento del danno previsto dall’art. 185 c.p., è possibile ottenere una somma a titolo di riparazione, secondo quanto dispone l’art. 12 della l. 47/1948 , tenuto conto della gravità dell’offesa e della diffusione dello stampato. La valutazione del quantum da risarcire avviene secondo alcuni parametri, quali la diffusione a mezzo social, il numero di utenti venuti a conoscenza del contenuto diffamatorio e  la rilevanza sociale della notizia.

La vittima può scegliere di sporgere querela contro il presunto autore del reato, senza costituirsi parte civile nel processo penale, poiché può avanzare istanza di risarcimento danni. La conseguenza è l’instaurazione di due procedimenti, l’uno indipendente dall’altro, nel senso che un eventuale esito assolutorio nel giudizio penale, anche se definitivo, non ha alcuna influenza nel giudizio civile di danno, se è stato avviato prima della sentenza penale di primo grado e l’azione civile non è stata trasferita nel giudizio penale, nell’esercizio di una libera facoltà del soggetto danneggiato. Nell’ipotesi di tutela penale, la vittima di diffamazione può sporgere querela nel termine di 90 giorni dai fatti di reato, a pena di improcedibilità; si attende la prosecuzione del procedimento penale se la persona offesa intende costituirsi parte civile, al fine di ottenere il risarcimento del danno. Nel caso di tutela esclusivamente civile, la vittima può richiedere il risarcimento del danno senza sporgere querela; prima di instaurare il predetto giudizio potrà avviare un procedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c. volto ad ottenere la cancellazione del contenuto diffamatorio; tuttavia ciò non si applica in riferimento ai contenuti diffamatori pubblicati su giornali cartacei e telematici, in virtù del disposto di cui all’art. 21 comma 3 Cost., che limita le ipotesi di sequestro della stampa, escluse per la diffamazione a mezzo stampa. Anche in sede penale può essere richiesto il sequestro preventivo, ma con le limitazioni precedentemente esposte.


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