La figura dell’agente provocatore nei reati di pornografia minorile

La figura dell’agente provocatore nei reati di pornografia minorile

Nella lotta alla pornografia minorile, Autorità e polizia giudiziaria dispongono di un armamentario che consta di numerosi mezzi di ricerca della prova, che vanno dalle intercettazioni, come disciplinate negli artt. 266 e ss. del codice di rito, alle perquisizioni “virtuali” e ai conseguenti sequestri, la cui struttura e i quali aspetti processuali non differiscono, se non in minima parte, rispetto a quanto disposto per gli altri reati. La l. 269/1998 – il primo provvedimento organico con cui, nel nostro ordinamento, si è introdotta una disciplina completa di contrasto alla pornografia – ha predisposto, per le indagini su alcuni di questi reati e, a tal proposito, è necessario soffermarsi sull’analisi della figura e del ruolo assai problematico del c.d. agente provocatore.

Si tratta, infatti, di un soggetto la cui presenza è contemplata dai primi due commi dell’art. 14 della suddetta legge, ove si prevede che «nell’ambito delle operazioni disposte dal questore o dal responsabile di livello almeno provinciale dell’organismo di appartenenza, gli ufficiali di polizia giudiziaria delle strutture specializzate per la repressione dei delitti sessuali o per la tutela dei minori, ovvero di quelle istituite per il contrasto dei delitti di criminalità organizzata, possono, previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria, al solo fine di acquisire elementi di prova in ordine ai delitti di cui agli articoli 600-bis, primo comma, 600-ter, commi primo, secondo e terzo, e 600-quinquies del codice penale, introdotti dalla presente legge, procedere all’acquisto simulato di materiale pornografico e alle relative attività di intermediazione, nonché partecipare alle iniziative turistiche di cui all’articolo 5 della presente legge. Dell’acquisto è data immediata comunicazione all’autorità giudiziaria che può, con decreto motivato, differire il sequestro sino alla conclusione delle indagini» e che «nell’ambito dei compiti di polizia delle telecomunicazioni, definiti con il decreto di cui all’articolo 1, comma 15, della legge 31 luglio 1997, n. 249, l’organo del Ministero dell’interno per la sicurezza e la regolarità dei servizi di telecomunicazione svolge, su richiesta dell’autorità giudiziaria, motivata a pena di nullità, le attività occorrenti per il contrasto dei delitti di cui agli articoli 600-bis, primo comma, 600-ter, commi primo, secondo e terzo, e 600-quinquies del codice penale commessi mediante l’impiego di sistemi informatici o mezzi di comunicazione telematica ovvero utilizzando reti di telecomunicazione disponibili al pubblico. A tal fine, il personale addetto può utilizzare indicazioni di copertura, anche per attivare siti nelle reti, realizzare o gestire aree di comunicazione o scambio su reti o sistemi telematici, ovvero per partecipare ad esse. Il predetto personale specializzato effettua con le medesime finalità le attività di cui al comma 1 anche per via telematica».

Pertanto, questo soggetto potrà operare e nel caso dei delitti realizzati nella loro forma “standard” e nella loro “versione online”; infatti, nel secondo comma dell’art. 14, si afferma, senza chiarire i confini entro cui la relativa attività possa estendersi [1], che «il personale addetto può utilizzare indicazioni di copertura, anche per attivare siti nelle reti, realizzare o gestire aree di comunicazione o scambio su reti o sistemi telematici, ovvero per partecipare ad esse. Il predetto personale specializzato effettua con le medesime finalità le attività di cui al comma 1 anche per via telematica».

Da sempre figura assai dibattuta in dottrina [2], l’agente provocatore si differenzia dall’altrettanto noto agente infiltrato per via del ruolo attivo che svolge nel compimento del reato, limitandosi il secondo ad agire nell’ambito di indagini preliminari ufficiali senza mai spingersi a provocare condotte delittuose che non si sarebbero, altrimenti, verificate.

La delicatezza del ruolo di chi agisce come provocatore si misura nell’apporto che egli offre nella realizzazione del reato poiché, laddove egli agisse in assenza di presupposti, sarebbe punibile sulla base di quanto disposto all’art. 110 c.p., risultando, invece, irrilevante in quanto commessa in presenza dell’esimente di cui all’art. 51 c.p., la condotta di colui che agisce nel rispetto della normativa che ne regola il comportamento da tenere, dal momento che si tratterebbe di attività di indagine atta all’accertamento di condotte criminose e all’individuazione dei potenziali autori.

La soluzione offerta dalla giurisprudenza di legittimità è orientata nel senso di ritenere scriminata la condotta dell’agente che abbia fornito un apporto da considerarsi marginale, poiché deve risultare che la condotta criminale sia stata posta in essere esclusivamente da altri [3].

Anche la giurisprudenza della Corte di Strasburgo si è espressa380 sulla materia in questione e, se la figura dell’agente infiltrato risulta tendenzialmente compatibile con la CEDU, quella dell’agente provocatore risulta più problematica, in quanto lesiva dell’art. 6, § 1 CEDU, che garantisce il diritto al giusto processo, il quale viene leso laddove la condanna sia determinata, in misura prevalente, dalle dichiarazione degli stessi agenti di polizia che avevano dato un netto contributo al perfezionamento di un reato che, altrimenti, non si sarebbe verificato.

Dopo questo breve excursus sull’inquadramento della figura dell’agente provocatore, servirà analizzare la disciplina predisposta dal succitato art. 14, il quale richiede una lettura assai restrittiva delle norme che contiene, determinata dal carattere di assoluta eccezionalità che connota le attività che possono essere compiute, i soggetti che possono porle in essere e le relative circostanze, in particolare, i delitti per i quali esse sono previste; questi i principi enucleati dalla giurisprudenza di legittimità.

Nel 2003, infatti, la Corte di Cassazione ha avuto modo di fare chiarezza sul punto [4], concludendo per la necessaria interpretazione restrittiva da fornire all’art. 14, L. 269/1998 ed escludendo la possibilità di ricorso all’analogia iuris.

Nella fattispecie, la Corte ha statuito circa la maniera corretta per utilizzare i “siti-civetta”, che devono essere dotati di elementi di “avvertenza”, dimodoché sia chiaro che chi vi accede lo faccia col puro intento di procurarsi o condividere materiale pedopornografico, escludendo i casi di accessi casuali o determinati da altri tipi di “attrattiva”.

Le violazioni della normativa in cui sono incorsi gli agenti nel caso sottoposto al giudizio della Corte non ineriscono solo alle modalità di predisposizione del sito ma anche al profilo soggettivo, dal momento che si è evinto che non gli agenti di polizia postale ma una società sviluppatrice di software con sede in Salerno aveva proceduto alla predisposizione e alla gestione del sito civetta, in palese violazione di quanto disposto dal secondo comma dell’art. 14 della legge di cui si parla.

La Corte ha, pertanto, rigettato il ricorso della pubblica accusa, nel quale si difendeva la legittimità dell’operato investigativo, affermando che «con l’attività di contrasto di cui all’art. 14 l. 3 agosto 1998, n. 269 […] in vista della gravità e dell’allarme sociale di alcuni ben specifici e determinati reati, la polizia giudiziaria è autorizzata, limitatamente ai reati stessi, a svolgere, in via del tutto eccezionale rispetto alle norme e ai principi fondamentali del nostro ordinamento processuale in tema di acquisizione delle prove, un vero e proprio ruolo di agente provocatore. Orbene è evidente che una tale attività in tanto può ritenersi consentita e non in contrasto con norme costituzionali in quanto sia appunto strettamente limitata a casi eccezionali e soggetta ad una rigida disciplina che ne stabilisca rigorosamente i limiti e le procedure».

L’ulteriore questione che discende da tale pronuncia è la sua compatibilità con quanto statuito dal Legislatore, dal momento che, come poc’anzi sottolineato, manca, a livello normativo, un’espressa previsione di invalidità delle indagini compiute in violazione delle relative disposizioni.

Ad un primo orientamento giurisprudenziale, avversato da buona parte della dottrina in quanto troppo lassista nei confronti di indagini condotte al di fuori del perimetro indicato dalla legge [5], se ne affianca un altro più rigoroso e garantista, secondo il quale gli elementi di prova acquisiti in violazione della disciplina suesposta sarebbero inutilizzabili in ogni stato e grado, ai sensi dell’art. 191 c.p.p.[6].

Questo secondo orientamento considera le indagini condotte in violazione di quanto disposto dall’art. 14 addirittura illecite, in quanto contrarie alla volontà del legislatore, anche perché un modus operandi di questo tipo rischierebbe di celare, dietro ad autorizzazioni “fittizie”, indagini condotte in maniera surrettizia, poiché svolte al di fuori del perimetro in cui esse sono consentite e ciò, semplicemente, attraverso una arbitrario “ingigantimento” dell’imputazione compiuto dal giudice nell’atto autorizzativo [7]; da ultimo, è evidente come solo il secondo orientamento possa ritenersi rispettoso dei principi enucleati dalla giurisprudenza di Strasburgo, mentre il primo parrebbe in diametrale contrasto.

 

 

 

 

 


[1] D. DELL’ORTO, Pedopornografia on line e indagini informatiche – complessità e peculiarità tecnico-giuridiche della materia, in Cass. Pen., 2007, pag. 3042B.
[2] Già in F. CARRARA, Programma del corso di diritto criminale. Parte speciale, vol. II, Lucca, Giusti, 1887, p. 477, ove era intesa come una fattispecie di concorso morale nel reato, nella forma dell’istigazione a delinquere, finalizzata alla denuncia della persona che, provocata, avesse effettivamente compiuto la condotta criminosa. Tale soggetto, nel corso del Novecento, ha iniziato a essere letto come concorrente nel reato, sia nel caso più eclatante di provocazione a compiere il reato, sia in quello, meno “incisivo”, in quel l’agente interviene nell’ambito di una condotta già in corso. Per tale impostazione, vedasi la dottrina di M. ROMANO, G. GRASSO, Commentario sistematico del codice penale, vol. II, Torino, Giuffrè, 1990, pp. 166-169; C. DE MAGLIE, L’agente provocatore. Un’indagine dommatica e politico-criminale, Milano, Giuffrè, 1991, p. 240 e ss.
[3] Si vedano Corte Edu, 9 giugno 1998, Teixeira de Castro c. Portogallo (con nota di A. VALLINI, Il caso “Teixeira De Castro” davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo ed il ruolo sistematico delle ipotesi legali di infiltrazione poliziesca, in Leg. pen., 1999, p. 197 e ss.; Corte Edu, 21 marzo 2002, Calabrò c. Italia e Germania (con nota di A. TAMIETTI, Agenti provocatori e diritto all’equo processo nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Cass. pen., 2002, p. 2920).
[4] Sul punto, è fondamentale quanto statuito in Cass., Sez. III pen., 8 maggio 2003, n. 39706, in Dir. e giust., 2003, p. 20 (con nota di A. NATALINI, Pedopornografia e diritti della difesa. Per le attività di contrasto niente analogia iuris), in cui si afferma l’assoluto divieto di eseguire interpretazione analogica dell’art. 14, L. 269/1998, poiché le attività ivi contemplate hanno natura straordinariamente eccezionale.
[5] Cass., Sez. III pen., 11 maggio 2005, n. 17662, in Guida dir., 2005, p. 62, ove si è espresso il principio per cui «se, quando l’autorità giudiziaria ha autorizzato gli eccezionali strumenti di investigazione che consentono alla polizia giudiziaria di procedere “sotto copertura” ad azioni simulate, esistevano già indizi di uno dei gravi reati tassativamente indicati nella norma quali condizione per l’attivazione dell’azione simulata, i mezzi di prova così acquisiti, sono legittimi ed utilizzabili ex art. 191 c.p.p. anche se riguardanti reati diversi e meno gravi di quelli ipotizzati». Si tratta di un orientamento che valorizza, probabilmente oltremodo, il principio secondo cui, in alcuni casi, il materiale può essere male captum bene retentum, su cui v. Cass., Sez. III pen., 8 giugno 2004, n. 29899, in Dir. e Giust., 2004, p. 24, con nota di A. NATALINI, Male captum, bene retentum: sul sequestro penale la Suprema Corte ci ripensa); peraltro, in E. ADDANTE, Le indagini informatiche per reati di pedopornografia online, in A. CADOPPI, S. CANESTRARI, A. MANNA, M. PAPA, Cybercrime, cit., pp. 1569-1570, tale orientamento viene considerato ulteriormente problematico, poiché estremamente afflittivo in ragione della «prassi d’indagine consolidata[…] che prevede il sequestro di computer comprensivi di monitor e mouse, quando in realtà è solo l’hard disk, o altri supporti come i cd rom, i dvd rom, a conservare la memoria dei dati», delineandosi un modus operandi attraverso cui si «determina la violazione di molteplici diritti costituzionalmente legittimi, come l’art. 14 Cost., se si segue la definizione di “domicilio informatico”, il diritto al lavoro di cui agli artt. 4 e 35 Cost., dal momento che privare un soggetto del proprio computer, al giorno d’oggi, significa impedirgli di svolgere la propria attività lavorativa ed ostacolare la sua libertà di comunicazione, oltre che annullare la tutela della libertà e della segretezza della corrispondenza per l’utilizzo della posta elettronica».
[6] V., ex multis, Cass., Sez. III pen., 13 aprile 2005, P.M., in Mass. Uff., n. 231605, in cui si è affermata l’inutilizzabilità del materiale raccolto dalla polizia giudiziaria e seguito di indagini sotto copertura condotte senza la previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria.
[7] L. LUPARIA, Le investigazioni informatiche in materia di pornografia minorile tra nuovi e vecchi abusi degli strumenti processuali, in Dir. int., 2005, p. 486.

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Edoardo Spertingati

Maglie (LE)
Praticante avvocato presso il foro di Lecce, affascinato dal Diritto Penale e dalla Pubblica Amministrazione

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