La funzione della pena tra castigo e risocializzazione

La funzione della pena tra castigo e risocializzazione

Sommario: 1. La funzione della pena: le teorie generali della pena. – 1.1. Le teorie penali pure. – 1.2. La teoria retributiva. – 1.3. La teoria general-preventiva. – 1.4. La teoria special-preventiva. – 2.5. Prime linee di risocializzazione: la pena come emenda. – 1.6. La prevenzione integratrice. – 2. La funzione rieducativa della pena. – 2.1. La “individualizzazione” del trattamento sanzionatorio. – 2.2. La “obbligatorietà” del percorso rieducativo. – 3. La fisionomia della pena nell’attuale assetto ordinamentale.

 

1. La funzione della pena: le teorie generali della pena

La tradizionale sistematica in materia di funzione-finalità di quest’ultima ci offre la classica bipartizione che vede le teorie c.d. assolute contrapporsi alle teorie c.d. relative. Alla base della distinzione, si collocano, seppur in maniera sintetica, due brocardi latini che esprimono concetti alternativi tra loro: “punitur quia peccatum est” (si punisce perché si è peccato) che  corrisponde alla formula che esemplifica il concetto di teoria “assoluta”; alle teorie “relative” invece si affianca tradizionalmente il brocardo “punitur ne peccetur” (si punisce affinché non si pecchi)[2].

Le due formule sopracitate forniscono lapalissianamente l’elemento discretivo tra le due teorie: le prime (assolute) si occupano dell’identificazione di una qualità della pena rispetto ad un evento fenomenico che si è già verificato, e per tale motivo sono definite anche teorie retributive o giustiziali; con le seconde (relative) si fa riferimento ad un momento cronologico anteriore (o anche posteriore)  rispetto alla verificazione del fatto-evento dal quale scaturisce la pena stessa, per cui con esse si designa quello che è il momento della prevenzione.

Le scelte di adesione verso le une o le altre teorie condizionano inevitabilmente, da un lato, il modo intrinseco di sentire la pena quale reazione dell’ordinamento al verificarsi nel mondo esterno di un fatto penalmente rilevante e, dall’altro, connotano la posizione del singolo ordinamento che di volta in volta assume nei confronti di essa (la pena).

1.1. Le teorie penali pure

Le teorie penali “pure” costituiscono il frutto di un’importante acquisizione in materia di funzione della pena, intervenuta a cavallo tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX sec. Il termine “puro” con cui si è soliti indicare tali teorie penali deriva dal fatto che con esse si prende in considerazione un’unica e sola specifica finalità della pena stessa. A tali teorie penali si contrappongono le c.d. teorie penali “eclettiche” che, a differenza delle prime, combinano simultaneamente più finalità[3].

Ai fini di una accurata analisi delle teorie penali, l’attenzione sarà posta in maniera specifica sulle teorie “pure” le quali si distinguono tradizionalmente in quattro categorie: la teoria della retribuzione, la teoria general-preventiva, la teoria special-preventiva e la teoria dell’emenda. Le prime tre teorie sopracitate, elaborate rispettivamente dagli illustri pensatori dell’epoca Immanuel Kant, Ludwig Feuerbach e Karl Grolman, sono accomunate da una matrice unica e si fondano su principi che possiamo tradizionalmente definire “di estrazione kantiana”. La teoria dell’emenda elaborata da Karl Krause invece, pur avendo dei punti di contatto con le prime tre, presenta un substrato ideologico diverso che porterà il filosofo alla costruzione di una teoria indipendente dalle tre precedenti[4].

1.2. La teoria retributiva

Dal punto di vista meramente concettuale, la pena può essere definita quale reazione dell’ordinamento giuridico-penale e conseguenza a qualcosa che è già accaduto e, dunque, che si è manifestato materialmente nel mondo esterno. È sulla base di tale asserzione che prende forma la teoria cd. retributiva

La sua genesi ha radici molto profonde, rinvenibili addirittura nelle vicende bibliche narrate nell’Antico Testamento, ove la punizione è intesa come castigo e la sua finalità ultima è quella di porre colui che ha compiuto il crimine – o il peccato, restando nell’ambito prettamente sacro – nella situazione che si è generata proprio come conseguenza diretta della condotta che quest’ultimo ha assunto. Nell’Esodo è chiaramente rintracciabile tale concezione, ove si legge che «[…] se segue una disgrazia, allora pagherai vita per vita: occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido»[5]. In tale passo si evince il principio che governava l’ambito del diritto criminale: lo “Ius talionis”, in base al quale l’autore di un determinato delitto è punito in maniera proporzionale rispetto a quanto provocato dalla sua azione criminosa. Concetto che sarà poi riproposto da Dante Alighieri nella Divina Commedia, ove ai fini dell’individuazione  delle pene inflitte ai dannati, si serve del principio del contrappasso, vera e propria sintesi del concetto di pena quale retribuzione.

Già dal punto di vista etimologico del termine, Friedrich Nietzsche[6] ha osservato che il termine greco ποινή” indicasse il contraccambio, identificato da un castigo, un vero e proprio male fisico, riservato all’autore di una fattispecie criminosa.

Il filosofo tedesco Friedrich Hegel[7], ancora, ponendo il suo sguardo verso la tematica della funzione e della fisionomia della pena, ha osservato che quest’ultima costituisce il presupposto attraverso il quale lo Stato si pone l’obiettivo di ristabilire un ordine che è stato turbato a seguito della commissione del reato. Ai fini della ristorazione del diritto violato, lo Stato, dunque, si fa carico di infliggere un male, in maniera legittima, nei confronti dell’autore del reato – o meglio, del presunto tale – attraverso la comminazione della pena.

Posta la questione in tali termini, la pena sembra avere una funzione esclusivamente retributiva. In realtà, l’elaborazione compiuta da Hegel non si esauriva in una costruzione fenomenologica della pena vista solamente sotto il profilo della retribuzione, bensì poneva l’accento anche su prospettive future e successive rispetto al momento della commissione del reato e della mera ricostruzione dello status quo ante, sino ad arrivare alle prime linee di risocializzazione del condannato.

Vero e proprio fondatore di una compiuta teoria retributiva della pena è il filosofo tedesco Immanuel Kant, il quale si pone, in maniera piuttosto acuta, la problematica della pena[8]. Kant non parte direttamente dalla costruzione della fisionomia della pena, ma definisce innanzitutto il diritto penale[9] quale “diritto che ha il sovrano verso chi gli è soggetto, di infliggergli una pena, quando si è reso colpevole di un delitto[10]”. È attraverso tale affermazione che è possibile intravedere le prime linee di pena quale mera retribuzione. Ma l’elemento su cui si fonda essenzialmente l’ideologia del filosofo in materia di pena è rappresentato dalla commistione tra diritto penale e legge morale; espressione lampante di tale commistione è l’introduzione, nell’ambito del diritto penale, dell’imperativo categorico[11]: «La legge penale è un imperativo categorico, e guai a colui che s’insinua nelle spire tortuose dell’eudemonismo per scoprirvi qualche vantaggio»[12]. Da tale confusione tra prospettive etiche e giuridiche, emergono in maniera lampante le conseguenze (oggi aberranti) determinabili in tema di libertà individuale.

Emblematica nel pensiero kantiano è la metafora dell’isola che il filosofo utilizza come “slogan” della sua teoria penale[13]. Kant immagina un’isola in procinto di essere abbandonata dal suo popolo, per volontà stessa di quest’ultimo, ed afferma che anche in questo caso «l’ultimo assassino che si trovasse in prigione dovrebbe prima venir giustiziato, affinché ciascuno porti la pena della sua condotta, e il sangue versato non ricada sul popolo che non ha reclamato quella funzione: perché questo popolo potrebbe allora venir considerato come complice di questa violazione pubblica della giustizia».

Tuttavia, le elaborazioni di Kant in tema di funzione della pena hanno subito numerose ed aspre critiche, fondate essenzialmente su un aspetto comune: la costruzione di una Straflehre prendendo come punto di riferimento il rapporto tra il diritto e la morale. Ed è proprio sulla scorta di tali censure mosse nei confronti della teoria kantiana che è possibile considerarla  come una involuzione rispetto alle acquisizioni illuministiche del XVIII sec., in base alle quali uno Stato di diritto non può fondare le sue massime su una commistione, ormai obsoleta, tra il  diritto e la morale.

Dalla elaborazione messa a punto dal Kant si sono sviluppate due correnti critiche alternative tra loro: i sostenitori della prima corrente accettavano in maniera pressoché acritica la Strflehre costruita da Kant, fondata sul concetto di Vergeltung, ovverosia, la “retribuzione” quale criterio fondante del concetto di pena; i sostenitori della seconda corrente, per converso, analizzarono in maniera critica ed analitica le aporie della teoria penale di Kant, costruendo il loro pensiero su quegli aspetti che mettevano in risalto le contraddizioni della dottrina kantiana. Tali ultimi, ponendo come base epistemologica della loro dottrina taluni principi quali, l’attenzione al soddisfacimento di esigenze di proporzione e moderazione della inflizione delle pene passando attraverso il ripudio della confusione tra diritto e morale[14], hanno elaborato delle teorie c.d. relative che analizzeremo nei paragrafi immediatamente successivi.

1.3. La teoria general-preventiva

La teoria della prevenzione generale fa parte del novero delle teorie della pena c.d. relative. Sulla distinzione tra teorie assolute e relative si è già accennato in precedenza (I, § 2, p. 3). Ciò che rileva in tale sede è soffermarsi innanzitutto sul dato che accomuna le teorie penali relative: esse guardano alla finalità della pena secondo un’ottica non più ancorata al presente (recitus: al momento in cui l’autore ha già commesso l’azione od omissione criminosa), bensì rivolta ad un momento anteriore. La finalità-funzione della pena è sostanzialmente quella di evitare, ovvero contenere per quanto possibile, la spinta criminosa, non già per mezzo della comminazione della pena, ma attraverso la minaccia della stessa. Lo stesso Cesare Beccaria, nell’opera “Dei delitti e delle pene”, effettua un importante riferimento a tale funzione preventiva, osservando che «E’ meglio prevenire i delitti che punirgli. Questo è il fine principale d’ogni buona legislazione, che è l’arte di condurre gli uomini al massimo di felicità o al minimo di infelicità possibile […][15]».

Nel paragrafo precedente si è fatto riferimento alle due correnti sviluppatesi sulla scia del criticismo giuridico che prendeva in considerazione le aporie e le contraddizioni della Strafhlehre costruita dal Kant. Il filone meno radicale, rispetto a quello i cui sostenitori accettavano in maniera passiva il rigorismo della funzione penale ideata dal Kant, ha messo alla luce due ulteriori teorie che si fondano sul concetto di prevenzione.

Nell’ambito delle teorie penali pure, è doveroso il riferimento ad un ulteriore filosofo della scuola giuridica tedesca, Ludwig Feuerbach, fondatore di una teoria general-preventiva. Secondo Feuerbach, la minaccia della pena da parte dello Stato nei confronti della generalità dei consociati, produceva l’effetto di trattenere questi ultimi dal commettere reati[16].  Feuerbach si è interrogato circa l’elemento attraverso il quale si sarebbero potute evitare le offese che lo Stato stesso si poneva l’obiettivo di reprimere, in una delle sue più celebri opere – l’Anti-Hobbes – individuando degli ostacoli di ordine psicologico che si pongono quali aspetti deterrenti alla commissione di fatti criminosi. Il più efficace tra tali ostacoli “psicologici” è rinvenibile nella bürgerliche Strafe, ovverosia: la pena civile[17].

È nel riferimento a tale ostacolo deterrente che risiede il dato discretivo che contraddistingue la teoria penale retributiva di Kant rispetto a quella elaborata dal Feuerbach. La pena civile di Feuerbach non ha connotazioni morali od etiche, anzi, sradica qualsiasi elemento legato alla morale dal terreno del diritto, tanto è vero che lo stesso filosofo ha osservato che «la pena civile non può essere la pena morale, da ciò consegue che dallo Stato […] non può essere punita alcuna azione contraria al dovere, semplicemente perché è tale»[18]. In tali termini perde ogni rilevanza la Vergeltung kantiana, in quanto lo Stato, promotore e garante della libertà individuale e generale dei consociati, non esaurisce la sua attività nella mera comminazione della pena, e inoltre, allorché considerassimo la pena quale mero elemento retributivo, lo Stato non può punire soltanto perché è stata compiuta un’azione criminosa.

Alla base della teoria costruita dal Feuerbach, nella “Revision” e nell’”Anti-Hobbes”, egli pone un assunto paradigmatico, secondo il quale l’azione criminosa costituisce un antecedente necessario che il soggetto agente pone in essere ai fini del raggiungimento di un obiettivo: il piacere. È dunque necessario che all’uomo, il quale agisce secondo i propri istinti, venga rappresentata una controspinta alla spinta criminosa suscettibile di essere realizzata, che corrisponde al timore di ricevere un dolore (recitus: pena). Per far sì che l’uomo percepisca tale timore, è evidente che debba esistere un comando che minacci la comminazione di un male come conseguenza al crimine.

A questo punto il filosofo compie un passo ulteriore: l’effetto deterrente del comando può avere una sua concreta efficacia solo nel caso in cui la minaccia provenga dalla legge in forma chiara e determinata. Tali istanze legalistiche le riscontriamo anche nel Beccaria, il quale considera l’oscurità della legge uno dei mali maggiori per uno Stato di diritto[19], tant’è che afferma «Volete prevenire i delitti? Fate che le leggi sian chiare, semplici […] Fate che gli uomini le temano, e temano esse solo[20]». Lo stesso Feuerbach vedeva compromesse le garanzie dello Stato di diritto da una legislazione incerta e da un conseguente sganciamento dell’attività giudiziale dal testo della legge[21].

In conclusione, dall’analisi delle teorizzazioni del filosofo tedesco, è possibile individuare all’interno della teoria general-preventiva, due ulteriori sue declinazioni. La pena, come già detto, può essere considerata come elemento deterrente per cui i consociati, intimoriti dalla minaccia della legge penale, si asterranno dall’assumere condotte penalmente rilevanti e, allo stesso tempo, come parametro di indirizzo e di orientamento per le condotte dei consociati. È sulla base di tale assunto che si colloca la distinzione tra prevenzione generale negativa – per cui la pena è sostanzialmente l’ostacolo psicologico, la paura di un dolore, che si interpone tra l’uomo e il compimento del fatto penalmente rilevante – e prevenzione generale positiva. Considerata in tali ultimi termini, la prevenzione generale non assolverà esclusivamente alla mera funzione di distogliere i consociati dal compimento del crimine, ma fungerà da stabilizzante per la società attuale e futura, orientata, attraverso i comandi chiari e certi dettati dalla legge, verso condotte conformi all’ordinamento giuridico.

1.4. La funzione special-preventiva

La teoria della prevenzione speciale è anch’essa annoverabile tra le teorie penali cd. relative. Nell’ambito di tale dottrina è, ancora una volta, al centro del discorso l’elemento della prevenzione. Ciò che contraddistingue essenzialmente la teoria esposta nel paragrafo precedente rispetto a quella che si intende analizzare in tale sede, sta nella circostanza che la pena non si rivolge alla generalità dei suoi destinatari come disegno di ciò che sarà inflitto a questi ultimi in caso di condotta contraria all’ordinamento giuridico penale, ma al singolo autore di un reato che è stato già commesso. È evidente che, in questo caso, l’istanza punitiva ha come suo protagonista il singolo individuo (rectius: autore del reato), destinatario della risposta penale dell’ordinamento, il quale interviene per fini di neutralizzazione e/o recupero, con ovvie conseguenze sulla specie delle sanzioni e sulle modalità di esecuzione di esse[22].

Volendo continuare tale esegesi facendo riferimento ai “padri fondatori” o comunque alle autorevoli personalità del nostro contesto storico di riferimento, i quali si sono interrogati sulle finalità della pena, è doveroso porre il nostro sguardo verso le elaborazioni compiute da un altro penalista di estrazione kantiana: Karl Grolman. Egli, nel costruire la sua teoria penale, – che prenderà le connotazioni della prevenzione speciale – si pone in una posizione diametralmente opposta alle acquisizioni di kantiana matrice. Colloca alla base del suo discorso da un lato, la netta e necessaria separazione tra diritto e morale, e dall’altro, la tutela della dignità dell’uomo[23], definendo la teoria retributiva di Kant «un’aberrazione del grande, ma non per questo infallibile, vecchio»[24].

L’elaborazione della teoria penale di Grolman è mossa da evidenti spinte giusnaturalistiche, in quanto annovera il diritto di prevenzione – sostrato della sua teoria – nel catalogo dei diritti attribuiti all’uomo in quanto tale ed immanenti ad esso. Tale diritto di prevenzione corrisponde ad una estrinsecazione del diritto di difesa dell’uomo, ed è inevitabilmente collegato alla minaccia di un’offesa ingiusta che Grolman individua nel delitto già commesso. L’uomo che ha già manifestato nel mondo esterno la sua condotta criminosa, ovvero che ha tentato di assumerla, si è dimostrato di essere un uomo non ragionevole, il quale ha deciso di abbandonarsi ai suoi istinti che hanno innescato in quest’ultimo un processo naturalistico culminato nel reato. Alla luce di tale assunto, la prevenzione speciale risiede nella necessità di intervenire su tale soggetto, il quale risulta verosimilmente che  possa ripetersi nella condotta delittuosa

Il diritto di prevenzione, che si estrinseca nella inflizione della pena, e che risulta diretta espressione del diritto di punire, può essere esercitato solo dallo Stato, ed il suo intervento dovrà parametrarsi a diversi criteri, i quali emergono di volta in volta con differente modulazione in base ai tipi di autori e ai tipi di reati nei cui confronti agisce l’ordinamento[25].

Oltre alla certezza e alla chiarezza della legge penale, – quale requisito di essa affinché i consociati possano sentire la pena come “giusta” – nell’ambito della prevenzione speciale assume particolare rilevanza la differenziazione in senso sostanziale delle pene che l’ordinamento penale prevede, in base alle tipologie e caratteristiche dei diversi autori di reato.

Ciò lo si evince, ancora una volta, altresì dagli scritti del Beccaria, il quale afferma che «Il timor delle leggi è salutare, ma fatale e fecondo di delitti è quello di uomo ad uomo»[26], sostenendo invero che la percezione di paura che genera la norma penale varia da uomo ad uomo in considerazione di una moltitudine di aspetti, che l’autore individua, presuntivamente, nella differente condizione sociale che sussiste tra gli schiavi – “più voluttuosi, più libertini, più crudeli[27]” – e gli uomini liberi – più inclini ad interrogarsi su questioni scientifiche e quindi maggiormente consapevoli delle conseguenze giuridiche prodotte dal crimine.

La teoria special-preventiva è anch’essa declinabile in due varianti – positiva e negativa – ed è in base all’una o all’altra accezione a cui facciamo riferimento che muta la stessa finalità della pena. Nella variante positiva, la pena assume una connotazione stabilizzante del sistema sociale, di orientamento dell’azione e di istituzionalizzazione delle aspettative[28], per cui la funzione penale che emerge è quella di reintegrazione e di risocializzazione. Peraltro, ritornando a Grolman, la sua dottrina non abbraccia i contenuti della risocializzazione e dunque non vi è spazio nella sua elaborazione per l’accezione di prevenzione speciale nella sua variante positiva[29] (quest’ultima sarà oggetto specifico di studio nei paragrafi successivi).

Per quanto riguarda la seconda accezione della teoria special-preventiva, – quella negativa – vista in tal senso, la pena, assume una connotazione esclusivamente neutralizzante e con essa, lo Stato, si propone di sconfiggere la recidiva impedendo materialmente che il condannato commetta nuovi reati[30]. L’ordinamento interviene a tal fine attraverso differenti modalità, accomunate dall’obiettivo di evitare che il reo possa materialmente delinquere, e lo fa attraverso la eliminazione totale dell’individuo colpevole (recitus: presunto colpevole!) – nei Paesi in cui è attualmente in vigore la pena capitale – ovvero attraverso la segregazione in carcere,a vita o temporaneamente.

A questo punto potremmo interrogarci sull’effettiva funzionalità di una pena vista in tali termini, soprattutto facendo riferimento a quelle situazioni concrete in cui al condannato è comminata la pena detentiva in carcere con durata temporanea. La prevenzione speciale neutralizzante avrebbe una concreta efficacia soltanto nel periodo di tempo in cui il condannato si trovi in vinculis, ove le possibilità di ripetizione della condotta criminosa sono pressoché nulle. Ma cosa accade quando il condannato abbia terminato il periodo di espiazione della pena in carcere? Gli effetti neutralizzanti della pena non continuerebbero a prodursi, in quanto l’individuo non può essere sottoposto indeterminatamente al controllo dell’ordinamento penale una volta che ha completato il periodo di pena[31]. Una reale ed effettiva prevenzione speciale neutralizzante potrebbe prodursi soltanto ove l’individuo venisse condannato al carcere a vita, tuttavia a discapito di qualsiasi istanza rieducativa e risocializzante, e ciò sarà affrontato a tempo debito nei paragrafi e nei capitoli successivi del presente studio.

1.5. Prime linee di risocializzazione: la pena come emenda

A questo punto è necessario, ai fini di una completa esegesi concernente l’ambito delle teorie penali “pure”, far riferimento ad un’ulteriore dottrina, elaborata da Karl Krause, anch’egli esponente dell’idealismo postkantiano[32].
Come già osservato ai prodromi del presente contributo, le teorie penali considerate sinora, sono accomunabili, dal punto di vista dei principi sui quali esse si fondano, sotto una stessa categoria, definita tradizionalmente “di estrazione kantiana”. La Besserungstheorie elaborata dal Krause, invece, è collocabile su un piano completamente distaccato rispetto a quello su cui si collocano le precedenti tre dottrine.

Punto focale del suo studio, invero, non è la pena osservata quale elemento deterrente – ovvero, dato attraverso il quale i consociati avrebbero potuto orientare le proprie condotte – ma è la personalità dell’individuo stesso che si trova a dover fare i conti con la pena inflittagli.

Krause analizza innanzitutto le attitudini del delinquente, osservando che quest’ultimo possa essere considerato, relativamente al suo delitto, «un minore, un incapace»[33], ed è su tale assunto che fonda la sua dottrina: la pena dovrà avere nei confronti del delinquente una funzione di annullamento dei motivi interni che hanno portato quest’ultimo al compimento del crimine. In altre parole la pena, vista dal Krause come “emenda”, ha l’obiettivo di “rafforzare” la personalità di colui che ha delitto in modo da renderlo insensibile ad eventuali e future influenze negative esterne[34].

Nell’Abriss des Systems der Philosophie des Rechts oder des Naturrechts, Krause identifica le varie fasi attraverso le quali è possibile ottenere l’eliminazione degli impulsi negativi dalla personalità dell’uomo, individuando la fase iniziale – la più rilevante, in quanto con essa ci si pone l’obiettivo di eliminare aprioristicamente la devianza dai comportamenti conformi all’ordinamento giuridico – nell’educazione. Non è un caso che il già citato Cesare Beccaria dedichi un capitolo specifico, nell’opera Dei delitti e delle pene, proprio all’educazione, connotandola come lo strumento attraverso il quale spingere i giovani verso la virtù e deviare questi ultimi dal male, ma non attraverso un comando – in quanto con questo si otterrebbe soltanto una momentanea obbedienza –  ma ai fini di una di una assoluta ed infallibile necessità[35]: l’armonia generale.

Successivamente alla fase di educazione – che come ben possiamo dedurre risulta valida soltanto per quegli individui che non hanno ancora manifestato nel mondo esterno una condotta penalmente rilevante – per cui non è ancora possibile parlare di “delinquente” da correggere – il Krause fa riferimento al momento di eliminazione «delle condizioni dell’Unrecht»[36], ovverosia ciò che si pone in contrasto col diritto. Ai fini di tale operazione diventa necessaria da un lato, la separazione del delinquente dal mondo esterno – dal quale provengono le influenze negative che l’ordinamento si propone di eliminare – dall’altro, il recupero morale di quest’ultimo. Relativamente a tale ultima fase di recupero, il delinquente dovrà essere posto in condizione di non poter più far riferimento, quale dictum di orientamento della propria condotta, nemmeno a quelle influenze negative interne che hanno innescato in quest’ultimo il meccanismo naturalistico culminato nella commissione del crimine. Se le spinte negative esterne vengono soppresse dall’ordinamento attraverso la segregazione del delinquente, quelle interne potranno essere eliminate soltanto attraverso il coinvolgimento di quest’ultimo in un processo rieducativo, stimolandolo alla pratica del bene[37].

Nella Besserungstheorie krausiana, dunque, è evidente la logica della riabilitazione del criminale in vista di un futuro reinserimento all’interno della società civile. La pena inflitta al delinquente, in tali termini, ha una finalità precipuamente di emenda, e l’espiazione di quest’ultima permette al reo di effettuare un percorso individuale, favorito dall’intervento dello Stato attraverso l’avviamento al lavoro, retribuito in maniera equa, e tenendo conto delle attitudini e delle aspirazioni del singolo[38].

Tuttavia non bisogna considerare oltremodo la suddetta teoria alla stregua delle acquisizioni moderne in tema di finalità rieducativa della pena. Invero, la dottrina elaborata dal filosofo tedesco è ancora pregna di riferimenti eticizzanti, i quali, come già asserito nei paragrafi precedenti – soprattutto in riferimento alla Straflehre kantiana – rappresentano delle aberrazioni incompatibili col concetto di Stato di diritto, in cui non vi è assolutamente spazio per la sconcertante commistione tra il diritto e la morale.

1.6. La prevenzione integratrice

Nel paragrafo dedicato alla funzione special-preventiva della pena  si è accennato al fatto che questa possa essere distinta nelle due varianti: positiva e negativa. Nel presente paragrafo analizzeremo in maniera specifica la prima delle due varianti, conosciuta come “prevenzione-integrazione” ovvero “prevenzione speciale integratrice[39].
La pena, in tale contesto, assume un significato istituzionale e non più di mero elemento intimidatorio: la finalità ultima è quella di produrre un effetto di vera e propria adesione e condivisione dei precetti contenuti nelle norme penali nei confronti delle generalità dei consociati[40]. Alla luce di tali obiettivi, ritorna a tutto tondo la forte istanza legalistica, in quanto soltanto con la produzione di norme chiare e determinate è possibile ottenere un effettivo risultato in termini di orientamento socio-culturale[41]. L’effetto di giustizia ed utilità della pena, affinché possa essere realmente percepito dai destinatari delle norme penali, è destinato ad emergere solo ove queste ultime (le pene) siano pronte e vicine al delitto commesso, evitando in tal senso l’incertezza che si generebbe tra i consociati qualora fossero in vigore delle norme oscure, cioè di ardua ovvero di impossibile comprensione[42].

Una volta che la norma penale – pregna di tutti i suoi elementi e dei suoi presupposti che la rendono “giusta” – sia aderita dai consociati attraverso una manifestazione di consenso interna, la realizzazione della fattispecie criminosa va ad incidere (rectius: turbare) su quella fiducia che si era precedentemente
ingenerata tra i consociati i quali, come appena osservato, hanno riposto nella norma penale lo standard giuridico che garantisce loro un significativo livello di armonia.

La comminazione della pena, quale reazione alla violazione della norma, ha la funzione di ristabilire proprio quella fiducia andata perduta. Ciò che a questo punto è necessario rilevare, è la circostanza secondo la quale, sebbene si faccia riferimento alla pena come un elemento ristabilizzante di una realtà violata – ed avente, invero, l’obiettivo di riportare tale realtà al suo status quo ante – non sussistono comunanze tra la teoria della prevenzione-integrazione e quella meramente retributiva. La pena, infatti, non si muove verso il soddisfacimento dell’interesse dello Stato a castigare il delinquente per riversare su quest’ultimo il male che egli ha provocato per mezzo del crimine; si punisce, bensì, «perché attraverso la pena si esercita la funzione primaria di produrre il riconoscimento delle norme e la fedeltà nei confronti del diritto da parte della maggioranza dei consociati»[43].

Non avulso da rischi, tuttavia, è il processo di selezione dei valori che dovranno costituire il nucleo orientativo delle condotte dei consociati. Tale processo selettivo è di rilevante importanza dal punto di vista meramente strutturale ma in realtà non vi sarebbero problemi sotto il profilo dei risultati, in quanto «non potrebbe prospettarsi un’aggregazione di consensi intorno a disvalori[44]». L’effetto aggregativo di consensi infatti potrebbe innescarsi solo se la norma venisse elaborata e posta in un contesto di Kultur dei consociati[45], sicché in un contesto diverso, caratterizzato da infimo retaggio culturale, non si produrrebbe neppure l’effetto stesso di condivisione della norma.
La funzione di prevenzione-integrazione può dunque prodursi soltanto ove la legge coltivi dei valori morali genuini: «non è che si possa sperare di inculcare valutazioni artificiose sol perché piaccia al legislatore. Più che creare ex nihilo, si tratta di risvegliare una sensibilità innata forse sopita, di rafforzarla, di impedire che si dissolva[46]».

Dal punto di vista più strettamente legato al singolo individuo – e dunque nell’ambito della prevenzione speciale – la funzione integratrice della pena si manifesta con l’istanza di risocializzazione e reintegrazione del delinquente all’interno della società civile. Il compito dello Stato è quello di riabilitare il condannato e riportarlo nell’ambito di quei valori, condivisi dalla generalità dei consociati, che sono stati turbati dalla fattispecie penalmente rilevante posta in essere dal reo.

Tale rieducazione ha connotazioni essenzialmente “laiche” che  nulla a che vedere hanno con le elaborazioni di Karl Krause e col concetto di emenda: l’analisi si sposta dal versante interno-psicologico dell’autore del reato al versante esterno, relativamente a quei fattori – economici, sociali, culturali – i quali costituiscono il più delle volte le cause determinanti del reato, passando attraverso una vera e propria analisi criminologica del contesto in cui si sviluppa la condotta delittuosa. In ragione di ciò è necessario che il condannato, nel momento in cui gli venga comminata la pena, sia destinatario di un trattamento, oltre che evidentemente sanzionatorio – ad esempio attraverso la privazione della libertà personale in carcere – anche di tipo reintegrativo e non desocializzante, offrendo a quest’ultimo la possibilità di recuperare «un atteggiamento responsabile verso i beni giuridici offesi[47]».

2. La funzione rieducativa della pena

Nell’ambito di uno studio accurato sulle opzioni ideologiche relative all’essenza e alla finalità della pena, accanto alle teorizzazioni “pure” enucleate nei paragrafi precedenti, è necessario annoverare le scelte politico-criminali compiute dai costituenti. La nostra Carta Costituzionale contiene una disposizione emblematica in tema di funzione della pena: trattasi dell’art. 27 Cost., rubricato e dedicato alla “responsabilità penale”.

I padri costituenti, che ben conobbero le atroci nefandezze del secondo conflitto mondiale – anche attraverso la segregazione in carcere – si fecero portavoce di quel malessere e di quelle idee che erano state elaborate già a partire dal secolo precedente[48]. Le forti istanze legalistiche ed umanitarie convergono nell’art. 27 co. 3 Cost., il quale stabilisce che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

La rieducazione – insieme al divieto di utilizzare la pena quale strumento degradante e inumano – costituisce non solo il fulcro della norma in esame, ma rappresenta in modo lampante la scelta che il legislatore costituente ha inteso attuare relativamente al modus di percepire la pena e la sua finalità-funzione. Al fine di delimitare i confini del concetto di rieducazione, è necessario compiere un breve excursus dottrinale.

Una prima consolidata dottrina era orientata  nell’assegnare ai principi contenuti nella norma succitata il valore di una indicazione meramente tendenziale ed esclusivamente riferita alle modalità esecutive della sanzione penale, restringendo in tal modo la portata del contenuto precettivo. Tale dottrina, nata agli inizi degli anni ’50 del secolo scorso, faceva perno sul fatto che le pene dovessero soltanto “tendere” alla rieducazione del condannato[49], connotando la norma di una funzionalità puramente programmatica. I sostenitori di tale dottrina ponevano alla base del loro discorso la stretta correlazione che intercorrerebbe tra la rieducazione e l’emenda, per cui la finalità della pena era sostanzialmente quella di ingenerare nel condannato un processo di “pentimento” o di “morale redenzione”. Tesi che, tuttavia, parrebbe preferibile negare, alla quale è ormai subentrato «il prevalente riconoscimento che, al dettato costituzionale sui fini della pena, debba assegnarsi la portata di un principio innovativo, suscettibile di spiegare i suoi effetti in tutte le fasi che caratterizzano la dinamica del sistema sanzionatorio: dalla comminatoria all’applicazione e, ovviamente, alla sua esecuzione[50]».

Il concetto di “rieducazione”, così come sancito dalla nostra Costituzione, deve essere analizzato in maniera sistematica, alla luce degli ulteriori principi che consentono di conferire al nostro ordinamento la qualificazione di “Stato di diritto[51]”, e dunque in un’ottica di “recupero laico” del condannato, attraverso la sua ri-socializzazione[52] in vista del futuro ritorno in società. Una pena con finalità esclusivamente morali, intesa pressoché alla stregua di un ravvedimento spirituale, non sortirebbe alcun effetto pratico nel delinquente, il quale, una volta rientrato all’interno della comunità, si troverebbe a fare i conti con un contesto sociale, culturale ed economico che non gli appartiene, risultando l’esperienza carceraria – o comunque sanzionatoria – esclusivamente alienante per la sua personalità. Alla luce di tali considerazioni potremmo (rectius: dovremmo) rinvenire nella sanzione penale lo strumento attraverso il quale lo Stato si propone di offrire al delinquente i mezzi per la sua reintegrazione nel tessuto sociale, passando per il recupero di quei valori di convivenza che sono venuti meno con la realizzazione della fattispecie delittuosa[53].

La problematica ricerca di un percorso riabilitativo “individualizzato” e la particolare complessità ad offrire al condannato una concreta possibilità di rieducazione – nonostante le sperimentazioni fatte con le migliori intenzioni ai fini della ricerca di un trattamento sanzionatorio effettivamente risocializzante – fanno emergere le anguste difficoltà attuative del precetto costituzionale contenuto nell’art. 27 co. 3 Cost.

Alla luce di tali difficoltà, la dottrina moderna tende a rinvenire nella norma in questione un requisito “minimo” della sanzione penale rieducativa, mettendo in risalto il fatto che, con l’applicazione della stessa, debba innanzitutto perseguirsi il risultato di impedire la desocializzazione o addirittura la completa distruzione della personalità del condannato[54]; e quandanche non sussistessero delle effettive possibilità di risocializzazione, certamente non sarebbe giustificato un trattamento sanzionatorio esclusivamente afflittivo, il quale genererebbe ulteriori processi di disadattamento, senza considerare la concreta possibilità di innescare nel condannato un sentimento immanente di vero e proprio odio nei confronti delle istituzioni statali che stimolerebbero in lui una completa inclinazione a comportamenti antisociali.

2.1. Individualizzazione del trattamento sanzionatorio

Nel paragrafo precedente si è accennato alla particolare rilevanza che assume il concetto di “individualizzazione” nell’ottica di una pena costituzionalmente orientata e, dunque, tendente alla rieducazione. Il primo passo per garantire il principio rieducativo è rappresentato proprio dalla garanzia dell’individualizzazione del trattamento sanzionatorio[55]. Ma qual è il significato, dal punto vista pratico, del concetto di individualizzazione?
Vuol dire innanzitutto che il percorso di “recupero” dovrà esplicarsi attraverso un trattamento personalizzato, ponendo alla base della stessa le attitudini del “rieducando” e le cause ontologiche del reato che hanno determinato in quest’ultimo la scelta verso condotte contrarie all’ordinamento giuridico: «è evidente che il trattamento non può essere lo stesso quando si tratti di intervenire su casi di estrema marginalizzazione sociale e quando, invece, si tratti di soggetti ben integrati socialmente[56]».

È necessario a questo punto offrire a chi legge una lente di ingrandimento sugli orientamenti giurisprudenziali, che si sono avvicendati a partire dagli anni ’80, in tema di rieducazione ed individualizzazione del percorso “riabilitativo”.
Un primo interessante apporto giurisprudenziale in materia è offerto dalla sentenza costituzionale n. 50 del 14 aprile 1980[57], con la quale la Consulta ha chiarito che «l’individualizzazione della pena, in modo da tener conto della effettiva entità e delle specifiche esigenze dei singoli casi, si pone come naturale attuazione e sviluppo di principi costituzionali, tanto di ordine generale (principio di eguaglianza ex art. 3 Cost.), quanto attinenti direttamente la materia penale […]; e allo stesso tempo è strumento per una determinazione della pena quanto più possibile “finalizzata”, nella prospettiva dell’art. 27, terzo comma Cost.» Alla luce di tale pronuncia, emergeva in maniera lampante la necessità di costruire un sistema legale che tenesse conto delle esigenze di un adeguamento individualizzato e proporzionale delle pene inflitte attraverso le sentenze di condanna[58].

Sulla stessa scia si colloca un’ulteriore sentenza costituzionale, la n. 306 dell’ 11 giugno 1993, con la quale la Consulta ha dichiarato illegittima la revoca delle misure alternative alla detenzione per i condannati per determinati delitti pur in assenza dell’accertamento di collegamenti attuali con la criminalità organizzata, chiarendo, innanzitutto, che anche la revoca di tali benefici è soggetta al principio di proporzionalità ed adeguatezza in relazione alla gravità oggettiva e soggettiva del comportamento che l’ha determinata[59]. Attraverso tale pronuncia, la Corte ha dunque ribadito la diretta discendenza del principio di proporzionalità e di individualizzazione del trattamento sanzionatorio, dall’art. 27 co. 3 Cost.[60]

I giudici costituzionali hanno affrontato ancora una volta la tematica in esame, arricchendo e confermando l’orientamento giurisprudenziale consolidatasi in materia nei due decenni precedenti, con la sentenza n. 255 del 21 giugno 2006[61]. In occasione di tale pronuncia, la Consulta, è intervenuta nuovamente sui principi di proporzionalità ed individualizzazione del trattamento sanzionatorio, ribadendo che, «ai fini dell’attuazione di tali principi, ed in funzione della risocializzazione del reo, è necessario assicurare progressività trattamentale e flessibilità della pena e, conseguentemente, un potere discrezionale al magistrato di sorveglianza nella concessione dei benefici penitenziari[62]», ed osservando ancora che «la generalizzata applicazione del trattamento di favore previsto dalla disposizione censurata, nell’assegnare un identico beneficio a condannati che presentino fra loro differenti stadi di percorso di risocializzazione, compromette, ad un tempo, non soltanto il principio di uguaglianza, finendo per omologare fra loro, senza alcuna plausibile ratio, situazioni diverse, ma anche la stessa funzione rieducativa della pena, posto che il riconoscimento di un beneficio penitenziario che non risulti correlato alla positiva evoluzione del trattamento, compromette inevitabilmente l’essenza stessa della progressività, che costituisce il tratto saliente dell’iter riabilitativo».

Dall’analisi dell’orientamento giurisprudenziale [costituzionale] formatosi a cavallo tra gli anni ’80 e gli inizi del nuovo millennio, è dunque rinvenibile, in maniera piuttosto lampante, la volontà interpretativa del Giudice delle leggi  relativamente al precetto costituzionale contenuto nell’art. 27 co. 3 Cost.: ai fini del concreto percorso rieducativo di colui che ha delinquito è necessario che si operi in maniera individualizzata, con l’applicazione e l’esecuzione di un trattamento sanzionatorio adeguato e proporzionato alla gravità di quanto posto in essere, e ponendo in risalto innanzitutto l’individuo da “recuperare” e non soltanto l’istanza punitiva che, cieca dinanzi alle questioni puramente legate al singolo, non sortirebbe l’effetto cui auspica il comma terzo dell’art. 27 Cost.

2.2. La “obbligatorietà” del percorso rieducativo.

Appurate le esigenze di adeguatezza ed individualizzazione del trattamento sanzionatorio – quali necessarie caratteristiche intrinseche del principio rieducativo – emerge una nuova questione: il diritto alla rieducazione per il condannato si traduce anche in un dovere alla rieducazione per lo stesso? Qual è il rapporto che dovrà instaurarsi tra il concetto di rieducazione ex art. 27 co. 3 Cost. e il principio di autodeterminazione o di libertà morale, garantiti anch’essi a livello costituzionale?[63]

Il quesito non è di agevole soluzione, soprattutto in considerazione del fatto che si discute su principi egualmente sanciti e garantiti dalla Costituzione, per cui la strada che si apre è quella di individuare un punto di equilibrio che possa soddisfare contestualmente da un lato, le esigenze dello Stato di intervenire sul condannato per mezzo di un trattamento sanzionatorio – che dovrà tendere alla rieducazione – e, dall’altro, le esigenze strettamente legate all’ambito dell’autodeterminazione dell’individuo.

Una lettura sistematica  dell’art. 27 co. 3 Cost ci permette di constatare che la funzione rieducativa della pena non potrebbe tramutarsi in una coazione della volontà psichica del condannato, influendo in tal senso su quest’ultima attraverso pratiche menomanti l’inconscio dell’individuo – ad esempio per mezzo dell’imposizione di taluni valori ideologici piuttosto che altri. Emerge a tutto tondo la dimensione negativa del diritto alla rieducazione «che si fonda sull’adesione consapevole e libera del detenuto[64]». Il percorso rieducativo prospettato dai padri costituenti, difatti, nulla a che vedere ha con quello proposto ed attuato – a titolo esemplificativo – negli Stati totalitari, ove il trattamento risocializzante offerto ai detenuti condannati è strettamente legato all’interesse dello Stato che «preme sulla coscienza individuale in modo da forzarla ad accettare un dato programma di vita che si inserisce e si articola nella programmazione sociale e politica del Tutto[65]».

Un significativo apporto giurisprudenziale in materia – che conferma la doverosa astensione dello Stato dal coartare la libertà psichica del condannato attraverso l’imposizione di un percorso rieducativo lesivo – è offerto da una pronuncia della Consulta, la n. 149 del 2018[66], con la quale si è avuto modo di stabilire che il trattamento sanzionatorio, tendente alla rieducazione, non deve rappresentare un momento di imposizione autoritativa nei confronti del detenuto condannato, al quale dovrà essere semplicemente “offerta” la possibilità di reinserirsi nel contesto della società civile una volta terminata l’espiazione della pena. Attraverso una più generalizzata imposizione del processo rieducativo si determinerebbe una «manipolazione dello stesso dettato costituzionale[67]».

Alla luce di quanto finora constatato, tuttavia, è necessario esaminare la questione anche sul versante del principio di solidarietà, il quale opera su un piano orizzontale e comune ai i cittadini, e che porta con sé molteplici doveri, tra cui quello della cooperazione dei consociati nell’adempimento delle loro varie solidarietà[68]. Su tale versante la questione si arricchisce di aspetti problematici, ed in particolare ci si chiede se dal dovere di solidarietà possa farsi discendere uno specifico dovere di rieducazione.

Individuare un simile dovere all’interno del catalogo di diritti-doveri offertoci dalla nostra Carta costituzionale, non costituisce una semplice operazione: si tratterebbe di effettuare – come un’autorevole dottrina[69] in materia suggerisce – una manovra di estensione della categoria dei doveri inderogabili, la quale potrebbe essere giustificata soltanto nell’ambito di attuazione del principio solidarista. In tali termini risulterebbe individuato un vero e proprio dovere di rieducazione, che si porrebbe come diretta derivazione del principio di solidarietà, il quale impone alla generalità dei consociati comportamenti ispirati alla cooperazione e alla manifestazione dei propri contributi personali ai fini dello sviluppo della società.

3. La fisionomia della pena nell’attuale assetto ordinamentale

Le asserzioni effettuate nelle prime battute del presente contributo – relativamente all’importanza delle scelte compiute dal legislatore nelle varie tappe storiche, che condizionano inevitabilmente il modus di percepire la pena – risultano essenziali per offrire degli spunti per una (possibile) costruzione sistematica della pena sotto il profilo della sua fisionomia. È necessario, a questo punto, far riferimento alla norma cardine – a cui si è già accennato nei paragrafi precedenti – contenuta nella nostra Costituzione, che rappresenta il parametro di riferimento per l’elaborazione di una teoria “normativa” della pena e delle sue finalità. L’art. 27 co. 3 Cost. contiene un’espressa indicazione sulla funzione rieducativa della pena, e deve necessariamente costituire il riferimento di base attraverso il quale condurre la nostra indagine.

A proposito delle scelte legislative – che conducono all’adesione verso l’una o l’altra delle teorie penali elaborate dal pensiero giuridico – è da sottolineare che, fino a non molti decenni fa, «la teoria assoluta della retribuzione raccoglieva ampi consensi[70]». Tuttavia, le tendenze rivolte ad un recupero delle rilevanti acquisizioni contenute nella Costituzione in materia penale, ed in particolare nel suo art. 27 co. 3, hanno determinato un vero e proprio revrement – dottrinale e giurisprudenziale – in tema di funzione e finalità della pena.

Nell’ambito di tale inversione di tendenza, è stato possibile imputare alla dottrina retributiva, almeno «tre, insormontabili, inconvenienti […]: in primo luogo, il contrasto strutturale con i principi fondamentali dello stato sociale di diritto, quindi, il vizio di irrazionalismo sul piano ontologico e, infine, la sterilità dal punto di vista politico criminale[71]». La questione si intreccia, ancora, con le problematiche connesse alla stretta correlazione che intercorre tra due grandezze eterogenee quali il diritto e la morale. Specificamente, nell’ambito di tale processo che si instaurerebbe nel delinquente attraverso l’inflizione e l’esecuzione della pena, imponendo, nei confronti di quest’ultimo, un determinato sistema morale, si produrrebbe un netto contrasto tra tale processo e i principi costituzionali posti a garanzia della libertà e dignità dell’individuo[72]. Inoltre, lo stesso assunto – presuntivo – cardine della dottrina retribuzionistica, secondo il quale la condotta contraria ai paradigmi ordinamentali può essere compiutamente annullata con l’inflizione della pena, risulta essere del tutto irrazionale ed incompatibile, non solo con i principi che attribuiscono allo Stato la qualifica “di diritto”, ma anche agli stessi principi su cui si fonda la democrazia[73].

Espunti gli elementi propri della teoria etico-retribuzionistica dal novero delle acquisizioni giuridiche fondamentali per una costruzione “normativa” della fisionomia della pena, è necessario porre il nostro sguardo alle attuali – ed eventuali future – prospettive penali.

Nella corposa legislazione penale degli ultimi decenni – nonostante la scarsa coerenza sistematica che talvolta è stata agevole rilevare – è possibile cogliere l’influenza delle direttive costituzionali, ed emergono in tal senso, nella propria massima espressione, i principi fondamentali in materia di pena sanciti dall’art 27 Cost, ed in particolare nel suo terzo comma.

Molteplici delle modifiche intervenute negli ultimi decenni – soprattutto sulla scorta di quanto è stato pronunciato dalla Corte di Strasburgo in occasione delle numerose sentenze di condanna nei confronti dell’Italia – sembrano muoversi verso una concezione di pena (ed in particolare di pena detentiva) come «extrema ratio della risposta penale[74]»; tuttavia, nonostante le buone intenzioni con cui il legislatore ha operato  nell’ambito degli interventi concernenti, tra gli altri, il fenomeno aberrante del sovraffollamento delle carceri, è emerso un pericoloso fenomeno di c.d. fuga dalla sanzione, che viene alla luce soprattutto a causa – ed è necessario prenderne atto – dell’inefficienza del sistema penale nel suo complesso e, specificamente, del momento dell’esecuzione penale.

Tale contesto di “insicurezza” influisce inevitabilmente sui livelli di efficacia della pena in termini di prevenzione generale, condizionando di conseguenza la credibilità e la stessa possibilità di attuare prospettive di tipo special-preventivo[75]. Sulla scia di tali problematiche è emersa una pressante richiesta di incremento delle politiche punitive e repressive, sfociate nella c.d. legislazione di emergenza, portavoce di esigenze di tipo general-preventivo, che costituiscono, in larga parte, la risposta a quei gravi ed atroci fenomeni di criminalità organizzata che hanno sconvolto il nostro Paese a partire dai primi anni’80. In un tale contesto di legislazione “emotiva”, si collocano, peraltro, ulteriori innovazioni e modifiche intervenute ad opera del nostro legislatore, in un’ottica diametralmente opposta, tesa principalmente alla soluzione del fenomeno carcerario[76]. Fenomeno che, inoltre, tende a scontrarsi con quelle che sono le finalità ultime che emergono dal precetto costituzionale contenuto nell’art. 27 co. 3 Cost. in tema di rieducazione e divieto di trattamenti degradanti la dignità umana.

La logica della rieducazione finisce inevitabilmente per scontrarsi con quelle tendenze politico-criminali, proprie della legislazione emergenziale, che vedono nella custodia cautelare – soprattutto nel carcere – la risposta necessaria ed obbligatoria per talune categorie di reati e di delinquenti[77]. Tuttavia, la dottrina prevalente sembra orientata ad affermare che – sebbene gli inconvenienti poco fa esposti siano tutt’altro che irrilevanti – non ci siano comunque gli estremi per constatare il fallimento del principio rieducativo. È chiaro che una siffatta affermazione, per avere concretezza, auspichi un impegno a rimuovere gli ostacoli che impediscono l’effettiva attuazione del principio rieducativo[78].

Verso una simile direzione – a titolo esemplificativo – si muove l’intervento operato dal nostro legislatore sui reati assegnati alla competenza del giudice di pace[79]. La riforma del 2000 tende verso un sistema sanzionatorio “decarcerizzato”, prevedendo delle forme di risoluzione del conflitto diverse da quelle incentrate sulla inflizione della sanzione, ed incontrando consensi anche nella scena sovranazionale europea.

Ulteriore tendenza legislativa, che ha inciso maggiormente sul nostro sistema sanzionatorio negli ultimi decenni, è la costante e crescente presenza delle misure di prevenzione, che ha contribuito inevitabilmente a ridisegnare i confini della politica-criminale generale[80]. Il ruolo sempre più rilevante che è stato attribuito nella prassi a tali misure di prevenzione ha fatto emergere tuttavia il problematico rapporto che intercorre tra queste ultime e i principi costituzionali. Nell’ambito di un sistema punitivo caratterizzato da un costante ed agevole ricorso alle misure di tipo preventivo, è facile evidenziare in maniera lampante i nodi problematici relativi agli standard di garanzia che un simile sistema – basato essenzialmente sulla logica del “sospetto” – offre concretamente ai suoi destinatari.

Le chiare ed evidenti difficoltà che si incontrano ai fini dell’attuazione e della concretizzazione  del principio rieducativo, sono – alla luce di quanto affermato sinora – innegabili ed incontestabili. Tuttavia, da tale analisi emerge un ulteriore dato oggettivo, ossia quello di porre l’obiettivo della ri-socializzazione, o almeno della non desocializzazione del condannato, quale precipua finalità della pena, che sia in grado di costruire «un sistema penale fondato sulla conciliazione delle istanze dello Stato di diritto con la vocazione dello Stato sociale[81]».

 

 

 

 

 


[1] Cfr. MOCCIA S., Il diritto penale tra essere e valore: funzione della pena e sistematica teleologica, Napoli, ESI, 1992, p. 39.
[2] Cfr. FIORE C., FIORE S. Diritto penale: parte generale. Utet Giuridica, 2020, p. 13.
[3] Cfr. MOCCIA S., Il diritto penale tra essere e valore: funzione della pena e sistematica teleologica, op cit., p. 40.
[4] Ibidem.
[5] Esodo, 21, 23-25.
[6] Cfr. NIETSCHZE F., Genealogia della morale, Milano, 1988, p. 1 ss.
[7] Cfr. HEGEL F., Lineamenti di filosofia del diritto, trad. it. A. MESSINEO, Bari, 1971, p. 91 ss.
[8] Cfr. KANT I., La metafisica dei costumi, trad. it. VIDARI G., Bari, 1970 p. 164 ss.
[9] Cfr. MOCCIA. S., Diritto penale tra essere e valore: funzione della pena e sistematica teleologica, op cit., p. 42.
[10] Cfr. KANT I., La metafisica dei costumi, op cit.
[11] Kant introduce il concetto di imperativo categorico nella “Grundlegung zur Metaphysik der Sitten” (Fondazione della metafisica dei costumi) pubblicata nel 1785.
[12] Cfr. KANT I., La metafisica dei costumi, op cit., p. 165.
[13] Cfr. MOCCIA S., Diritto penale tra essere e valore: funzione della pena e sistematica teleologica, op cit., p. 43.
[14] Cfr. MOCCIA S., Diritto penale tra essere e valore: funzione della pena e sistematica teleologica, op cit., p. 47.
[15] Cfr. BECCARIA C., Dei delitti e delle pene,  Mursia U., Milano , 1973, p. 107.
[16] Cfr. MOCCIA S., Diritto penale tra essere e valore: funzione della pena e sistematica teleologica, op cit., p. 47
[17] Cfr. FEUERBACH L.A., Anti-Hobbes, trad. it. CATTANEO M.A., Milano, 1972, p. 108 ss.
[18] Cfr. FEUERBACH L.A., Revision der grundsätze und grundbegriffe des positiven peinlichen rechts, parte I, Erfurt, 1799, r.a. Aalen 1973, pp. 39-40; sul punto cfr. anche MOCCIA S. Diritto penale tra essere e valore: funzione della pena e sistematica teleologica, op cit., p. 49.
[19] Cfr. BECCARIA C., Dei delitti e delle pene,  op cit. p. 15.
[20] Cfr. BECCARIA C., Dei delitti e delle pene, op cit. pp. 107-108.
[21] Cfr. MOCCIA S., Diritto penale tra essere e valore: funzione della pena e sistematica teleologica, op cit., p. 52.
[22] Cfr. FIORE C., FIORE S., Diritto penale: parte generale, op cit. p. 14.
[23] Cfr. MOCCIA S., Diritto penale tra essere e valore: funzione della pena e sistematica teleologica, op cit., p. 53
[24] Cfr. GROLMAN K., Ueber die Begründung des Strafrechts und der Strafgesetzgebung, Heyer, 1799, p. 218.
[25] Cfr. GROLMAN K. Grundsätze der Criminalrechtswissenschaft, r.a. Glashütten in Taunus, 1970, pp. 44-45.
[26]  Cfr. BECCARIA C., Dei delitti e delle pene, op cit. p. 108.
[27] Ibidem.
[28] Cfr. M. PAVARINI, Enciclopedia delle scienze sociali, in
www.treccani.it/enciclopedia/pena_(Enciclopedia-delle-scienze-sociali)/
[29] Bisognerà attendere la fine dell’Ottocento, in particolare la teorizzazione di Franz Von Liszt, per avere della prevenzione speciale un’articolazione complessa, comprensiva, da un lato, degli aspetti dell’intimidazione individuale e della neutralizzazione e, dall’altro, della risocializzazione. V. MOCCIA S., Diritto penale tra essere e valore: funzione della pena e sistematica teleologica, op cit., p. 57; von LISZT, La teoria dello scopo nel diritto penale, Giuffrè, Milano, 1962, p. 51 ss.
[30]  Cfr. M. PAVARINI, Enciclopedia delle scienze sociali, op cit.
[31] Ibidem.
[32] Cfr. MOCCIA S., Diritto penale tra essere e valore: funzione della pena e sistematica teleologica, op cit., p. 57.
[33] Cfr. KRAUSE K. Abriss des Systems der Philosophie des Rechts oder des Naturrechts, Göttingen, 1828, p. 187.
[34] Cfr. MOCCIA S., Diritto penale tra essere e valore: funzione della pena e sistematica teleologica, op cit., p. 58.
[35] Cfr. BECCARIA C., Dei delitti e delle pene, op cit. p. 114.
[36] Cfr. KRAUSE K. Abriss des Systems der Philosophie des Rechts, op cit. p. 117.
[37] Cfr. MOCCIA S., Diritto penale tra essere e valore: funzione della pena e sistematica teleologica, op cit., p. 59.
[38] Cfr. KRAUSE K., Das System der Rechtphilosophie, Leipzig, 1874, p. 534; MOCCIA S., Diritto penale tra essere e valore: funzione della pena e sistematica teleologica, loc. cit.
[39] Cfr. M. PAVARINI, Enciclopedia delle scienze sociali, op cit.
[40] Cfr. MOCCIA S., Diritto penale tra essere e valore: funzione della pena e sistematica teleologica, op cit., p. 61.
[41] Ibidem.
[42] Cfr. BECCARIA C., Dei delitti e delle pene, op cit. p. 50.
[43] Cfr. M. PAVARINI, Enciclopedia delle scienze sociali, op cit.
[44] Cfr. MOCCIA S., Diritto penale tra essere e valore: funzione della pena e sistematica teleologica, op cit., p. 63.
[45] Ibidem.
[46] Cfr. PEDRAZZI C., Inganno ed errore nei delitti contro il patrimonio, Milano 1955, p.30.
[47] Cfr. EUSEBI L., Il diritto – enciclopedia giuridica del Sole 24 ore, Bergamo, 2007, p. 86
[48] Cfr. PETRELLI F., Il “buonismo” dei padri costituenti, Il Mattino, Roma, 2018. L’avvocato Francesco Petrelli, nel suo editoriale sulla riforma penitenziaria edito su “Il Mattino” del 21 Marzo del 2018, ha evidenziato che le idee maturate dai padri costituenti, confluite poi nell’art 27 Cost. ed in particolare nel suo 3° comma, erano il frutto di una elaborazione già compiuta e diffusa dall’illuminismo, prima, e dal positivismo poi, che erano state condivise dal liberalismo dell’Ottocento e dal socialismo.
[49] Cfr. ZUCCALÀ G., Della rieducazione del condannato nell’ordinamento positivo
italiano, in Sul problema della rieducazione del condannato, p. 65-66.; cfr. anche PALIERO V.E., L’esecuzione della pena nello specchio della Corte costituzionale: conferme e aspettative, in VASSALLI G. (a cura di), Diritto penale e giurisprudenza costituzionale, Napoli, 2006, p. 155
[50] Cfr. FIORE C., FIORE S., Diritto penale: parte generale, p. 61; cfr. sul punto anche Corte Cost. 26 giugno – 3 luglio 1990 n. 313, la quale, pronunciandosi sulla illegittimità dell’art. 444 co. 2 c.p.c, nella parte in cui non prevedeva che il giudice potesse valutare la congruità della pena richiesta dalle parti, rigettando la richiesta in ipotesi di sfavorevole valutazione, prosegue nell’opera di valorizzazione dell’ art. 27 co. 3 Cost. ribadendo la necessaria finalità rieducativa della pena, «lungi dal rappresentare una mera generica tendenza riferita al solo trattamento, indica invece proprio una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico e l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue. Ciò che il verbo “tendere” vuole significare è soltanto la presa d’atto della divaricazione che nella prassi può verificarsi tra quella finalità e l’adesione di fatto del destinatario al processo di rieducazione».
[51] Artt. 2, 3, 4, 19, 21, 34 Cost.
[52] Cfr. FIORE C., FIORE S., Diritto penale: parte generale, loc. cit.
[53] Cfr. FIORE C., FIORE S., Diritto penale: parte generale, p. 62.
[54] Ibid.
[55] MAGNANENSI S., RISPOLI E., La finalità rieducativa della pena e l’esecuzione penale, in www.cortecostituzionale.it.
[56] Cfr. FIORE C., FIORE S., Diritto penale: parte generale, loc. cit.
[57] Cfr. Corte Cost. 14 aprile 1980, n. 50. La Consulta, nel dichiarare non fondati i dubbi di legittimità costituzionale sollevati sull’art. 121 T.U. sulle norme in materia di circolazione stradale del 1959, che comminava la pena detentiva e pecuniaria fisse per chi circolasse con un veicolo di peso complessivo a pieno carico superiore a 30 q, ha posto l’accento sull’opportunità di garantire a ciascuno un trattamento sanzionatorio “adeguato”.
[58] Cfr. MAGNANENSI S., RISPOLI E., La finalità rieducativa della pena e l’esecuzione penale.
[59] Ibidem.
[60] Sul punto cfr. anche Corte Cost. 19 luglio 1994, n. 357, Corte Cost. 22 febbraio, n. 68, Corte Cost. 16 dicembre, n. 445, con le quali la Consulta si è pronunciata mettendo in evidenza il fatto che sia «il principio della progressività trattamentale a rappresentare il fulcro attorno al quale si è dipanata la giurisprudenza costituzionale, doverosamente attenta a rimarcare l’esigenza che ciascun istituto si modelli e viva nel concreto come strumento dinamicamente volto ad assecondare la funzione rieducativa, non soltanto nei profili che ne caratterizzano l’essenza, ma anche per i riflessi che dal singolo istituto scaturiscono sul più generale quadro delle varie opportunità trattamentali che l’ordinamento fornisce.»
[61] Corte Cost. 21 giugno, n. 255. La Consulta ha dichiarato «l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge 1° agosto 2003, n. 207 (Sospensione condizionata dell’esecuzione della pena detentiva nel limite massimo di due anni), nella parte in cui non prevede che il giudice di sorveglianza possa negare la sospensione condizionata dell’esecuzione della pena detentiva al condannato quando ritiene il beneficio non adeguato alle finalità previste dall’art. 27, terzo comma, della Costituzione».
[62] Corte Cost. 11 dicembre 1995, n. 504.
[63] Cfr. BONOMI A., Il diritto/dovere alla rieducazione del detenuto condannato e la libertà di autodeterminazione, in Riv. dirittifondamentali.it, fascicolo 1/2019, pp. 9-10.
[64] Ibidem.
[65] Cfr. BETTIOL G., Il mito della rieducazione, in Sul problema della rieducazione del condannato, CEDAM, Padova, 1964, pp. 9-10.
[66] Con la sentenza Corte Cost. 21 giugno – 11 luglio 2018 n. 149, la Consulta ha dichiarato  l’illegittimità costituzionale dell’art. 58-quater, comma 4, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui si applica ai condannati all’ergastolo per il delitto di cui all’art. 630 del codice penale che abbiano cagionato la morte del sequestrato; e ha dichiarato , in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 58-quater, comma 4, della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui si applica ai condannati all’ergastolo per il delitto di cui all’art. 289-bis del codice penale che abbiano cagionato la morte del sequestrato.
[67] RUGGERI A., Eguaglianza, solidarietà e tecniche decisorie nelle più salienti esperienze della giustizia costituzionale, in Riv. AIC, 2017.
[68] Cfr. BONOMI A., Il diritto/dovere alla rieducazione del detenuto condannato e la libertà di autodeterminazione, p. 11.
[69] Cfr. CARBONE C., I doveri pubblici individuali nella Costituzione, Giuffrè, Milano, 1968, p. 93 ss.
[70] Cfr. MOCCIA S., Diritto penale tra essere e valore: funzione della pena e sistematica teleologica, op cit., p. 85.  Tra gli autorevoli sostenitori della dottrina etico-retributiva è annoverabile «Dario Santamaria che, nella prolusione senese del 1963, Il fondamento etico della responsabilità penale, estratto dall’annuario dell’Università degli studi di Siena 1962/1963, diede uno dei contributi più suggestivi e densi di significato a favore del principio retribuzionistico, evidenziandone la capacità di esaltare il valore dell’autonomia individuale».
[71] Sul punto cfr. MOCCIA S., Diritto penale tra essere e valore: funzione della pena e sistematica teleologica, op cit., p. 85 ss. L’autore pone in risalto le contraddizioni e i profili di illogicità della concezione etico-retribuzionistica, sottolineando innanzitutto l’impossibilità di realizzare la pretesa di annullare il male in senso etico attraverso la comminazione di una sanzione penale statuale. Invero, tale annullamento – identificabile, a parere dell’autore, alla stregua di una vera e propria espiazione autoliberatoria – avverrebbe all’esito di un processo individuale ed interiore, che è completamente indipendente dall’esecuzione della pena statuale. Altro dato contrario all’ammissibilità di una concezione retributiva – almeno ove si prenda in riferimento uno stato sociale di diritto – è di tipo ontologico: utilizzare il male-pena come elemento per retribuire il male della condotta, presuppone l’accoglimento di quella precisa opzione, sulla natura umana, che gli riconosce la possibilità di agire diversamente; argomento che tra l’altro si scontra con l’annosa questione concernente la prova del libero arbitrio. Inoltre, quand’anche si volesse dare per certa tale possibilità di agire diversamente nell’uomo che delinque, risulta necessaria la prova che quest’ultimo avrebbe potuto realmente agire diversamente.
[72] Artt. 2, 3, 13, 19, 21, 27 Cost.
[73] Cfr. ROXIN C., Considerazioni di politica criminale sul principio di colpevolezza, 1973, trad. it. MOCCIA S., in Riv. it. dir. proc. pen, 1980, p. 371.
[74] Cfr. FIORE C., FIORE S., Diritto penale: parte generale, p. 66.
[75] Ibidem.
[76] Per una panoramica generale dedicata agli istituti su cui è intervenuto (ovvero ha introdotto ex novo) il legislatore v. FIORE C., FIORE S., Diritto penale: parte generale, p. 66-67., in particolare: l’ammissione dei condannati alla pena perpetua dell’ergastolo ai benefici della semilibertà e della liberazione anticipata; gli interventi modificativi della sospensione condizionale della pena che appaiono ispirati all’attuazione delle finalità rieducative della pena e orientati nel senso di ridurre gli effetti desocializzanti connessi con l’esecuzione delle pene detentive di breve durata; l’introduzione di misure alternative alla detenzione, all’interno di una riforma del sistema penitenziario, attuata in più riprese e apertamente ispirata all’ideologia della rieducazione; l’introduzione, con la l. 24 novembre 1981, n. 689, delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, come ulteriore passo verso l’abbandono di un sistema sanzionatorio improntato essenzialmente sulla carcerazione; l’ampliamento del ventaglio delle pene accessorie; l’introduzione ex dlgs. 28 agosto 2000 n. 274, di un sistema sanzionatorio autonomo e di meccanismi di definizione differenziata del procedimento per il reati assegnati alla competenza del giudice di pace; la previsione ex l. 5 dicembre 2005, n. 251, di un trattamento sanzionatorio differenziato per il recidivo; una serie di misure volte a contrastare il fenomeno del sovraffollamento delle carceri, anche in conseguenza delle condanne subite dall’Italia da parte della Corte EDU tra il 2009 e il 2013, con le quali si è ampliata la possibilità di accesso alle misure alternative alla detenzione.
[77] Sul tema dello “spasmodico” ricorso alla custodia cautelare – ed in particolare, a quella intramuraria – è interessante effettuare alcune considerazioni sui profili processuali del nostro sistema penale. In particolare, relativamente ai criteri di scelta delle misure cautelari, l’art. 275 co. 1 c.p.p. prevede che «nel disporre le misure, il giudice tiene conto della specifica idoneità di ciascuna in relazione alla natura e al grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto». Il legislatore processuale, nel prevedere una sorta di discrezionalità tecnica del giudice in relazione al tipo di misura da applicare nel caso concreto, ha implicitamente sancito un principio di gradualità e di proporzionalità, nell’ambito dei quali, la risposta carceraria è (recitus: dovrebbe essere) intesa quale extrema ratio. Tuttavia, nella pratica, per taluni tipi di autori, ovvero in risposta a taluni tipi di reati, vige una vera e propria presunzione di adeguatezza della misura carceraria; pratica che contribuisce notevolmente ad accrescere l’aberrante fenomeno del sovraffollamento carcerario. Sul punto cfr. CONSO G. – GREVI V. – BARGIS M., Compendio di procedura penale, CEDAM, 2020, p. 340 ss.
[78] Cfr. FIORE C., FIORE S., Diritto penale: parte generale, p. 68.
[79] Col dlgs. 28 agosto 2000, n. 274, il legislatore ha introdotto nelle aule giudiziarie una nuova figura: il giudice di pace. La riforma in esame ha uno scopo essenzialmente deflativo del sistema processuale penale, ed attribuisce a tale giudice la giurisdizione relativamente a talune fattispecie di reato, sottraendole alla cognizione del giudice penale. Tra le varie fattispecie delittuose, particolare rilevanza assumono quelle previste dall’ art. 4 co. 1 lett. a), dlgs. 274/2000, il quale contempla, tra gli altri, i delitti di percosse (art. 581 c.p.), di lesioni personali, dolose (art. 582 c.p.) e colpose (art. 590 c.p.), l’omissione di soccorso (art. 593 c.p.) la diffamazione (art. 595 c.p.), la minaccia (art. 612 c.p.). Nel secondo comma della stessa norma è contenuto un corposo elenco di reati previsti e disciplinati da numerose leggi complementare (T.U. in materia di sicurezza; Nuovo Codice della strada; Testo definitivo del codice della navigazione; Norme di riordino del settore farmaceutico ecc…). Sul punto cfr. CONSO G. – GREVI V. – BARGIS M., Compendio di procedura penale, p. 1073 ss.
[80] Cfr. FIORE C., FIORE S., Diritto penale: parte generale, p. 743 ss.
[81] Ivi cit. p. 69.

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Francesco Salvi

Nato a Torre Annunziata (NA) nel 1996, ha conseguito la maturità scientifica presso il Liceo Statale Pitagora – B. Croce nel 2015, con votazione finale 98/100. Consegue la laurea magistrale in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Napoli – Federico II nell’anno accademico 2020/2021, discutendo una tesi in diritto penale (relatore Prof. Vincenzo Maiello), dal titolo “La pena dell’ergastolo”, con votazione finale 107/110. Attualmente è iscritto al Registro Speciale dei Praticanti Avvocati di Torre Annunziata e collabora stabilmente, dal Marzo 2022, presso uno studio professionale specializzato nella materia penalistica, con particolare attinenza all’ambito dei delitti associativi.

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