La lex mitior sopravvenuta e la progressiva erosione del dogma del giudicato

La lex mitior sopravvenuta e la progressiva erosione del dogma del giudicato

Sommario: 1. Introduzione – 2. Il giudicato e il quadro normativo: tra assolutezza e deroghe – 3. La lex mitior sopravvenuta e il giudicato – 4. Precisazioni sul fenomeno della penalizzazione e della depenalizzazione – 5. Criteri di individuazione art.2 comma 2 e 4 c.p. – 6. Conclusione

1. Introduzione

Quando si riflette sulle dinamiche temporali della legge penale nel tempo è immediato evocare l’art.25 comma 2 Cost., il quale sancisce il principio inderogabile secondo cui nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso, così consacrando il divieto di retroattività della norma penale sfavorevole.

È dunque evidente il fondamento costituzionale del principio in questione, poiché la norma lo esprime in maniera chiara e diretta.

Tale immediatezza è avvalorata dal raccordo tra la norma costituzionale e l’art.2 comma 1 c.p. a mente del quale nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato.

Non può affermarsi altrettanto per il principio di retroattività favorevole della lex mitior sopravvenuta al fatto, poiché nessun referente costituzionale sembra richiamarlo in maniera positiva.

Il solo riferimento al principio di retroattività favorevole lo si rinviene a livello di legge ordinaria, nell’art.2 comma 4 c.p., ove si sancisce il meccanismo di continuità temporale secondo il quale tra due leggi in successione deve trovare applicazione quella più favorevole al reo, con possibilità di retroazione, salvo il limite del giudicato.

Il giudicato, ad una prima sommaria valutazione, pare quindi mantenere quel carattere dogmatico che ispirò il contesto storico del Codice penale; un contesto in cui, salvo rare eccezioni, doveva prevalere la certezza del rapporto giuridico e la stabilità della sanzione penale, i cui effetti si credevano esauriti con l’inizio dell’esecuzione della pena.

Solo grazie all’entrata in vigore della Costituzione e l’affermarsi di valori ritenuti di maggior rilevanza, quale ad esempio la legalità della pena, la libertà personale e la rieducazione del reo, si inizia a rivalutare anche il dogma del giudicato unitamente ad una differente concezione del principio di retroattività.

Mentre il primo sarà oggetto di numerose riforme e pronunce giurisprudenziali che ne intaccheranno la sacralità, il secondo, dall’essere in origine disconosciuto, diviene un principio riconducibile nell’art.3 Cost.

La ratio che gli viene attribuita risiede nei valori di proporzionalità e ragionevolezza, in forza dei quali la norma di favore sopravvenuta al fatto può trovare applicazione in luogo della legge precedente che lo stesso fatto disciplina.

In esso si materializza l’esigenza di uguaglianza, di cui all’art.3 Cost., a che un soggetto non continui a essere punito più severamente rispetto ad un altro soggetto, sol perché ha commesso il medesimo fatto nella vigenza della legge anteriore.

Una crescita esponenziale del principio in questione la si rinviene nell’attribuzione allo stesso di valore comunitario e convenzionale.

Mentre in ambito europeo la retroazione della lex mitior è concepita come principio appartenente alla tradizione comune degli Stati membri (C.G. El Dridri), il cui fondamento è richiamato nell’art.49 CDFUE e nell’art. 6 TUE, in ambito convenzionale essa assurge a parametro interposto di legittimità costituzionale per il tramite degli art. 7 CEDU e 117 Cost.

Nella norma CEDU, invero, si individua la culla che riconduce la retroattività favorevole sotto l’egida della legalità, al pari del principio di irretroattività sfavorevole.

Nonostante la spinta verso l’affermazione di un nuovo principio generale, l’art.7 CEDU continua a rappresentare per la Consulta un elemento non sufficiente per attribuire al principio di retroattività favorevole la medesima dignità e cogenza del suo opposto.

La maggior fragilità rispetto al divieto di retroazione è dimostrata dal fatto che esso è sempre derogabile dal legislatore ogni volta che deve essere tutelato un interesse di rango pari o superiore, entro il limite di legittimità convenzionale per il tramite dell’art.117 Cost.

L’analisi del principio, in bilico tra le restrizioni della giurisprudenza interna e il maggior valore attribuito a livello sovranazionale, impone di verificare la sua incidenza sull’erosione del giudicato penale.

Più precisamente, ci si domanda se la lex mitior possa incidere su un giudicato più debole, che ormai deve confrontarsi con interessi di rango pari o superiore e che, soprattutto, non rappresenta più l’emblema dei rapporti esauriti.

2. Il giudicato e il quadro normativo: tra assolutezza e deroghe

Come accennato in apertura la forza del giudicato penale ha da sempre rappresentato la miglior espressione della garanzia dei rapporti giuridici, della certezza della pena e l’atto con cui si esauriscono i rapporti.

Salvo rare eccezioni normative di carattere procedimentale, di cui ora si parlerà, la fase dell’esecuzione non era concepita come una fase ulteriore del procedimento penale, il quale si riteneva concluso con la sentenza o il decreto penale di condanna.

Tuttavia, non mancano nel diritto sostanziale e processuale norme che incidono sul giudicato, in particolare sulla fase di esecuzione della pena. Tali situazioni fanno riferimento, in particolare, oltre a fatti sopravvenuti o nuove prove acquisite, a mutamenti normativi favorevoli che incidono sul disvalore penale del fatto su cui la sentenza è stata emessa.

L’art.2 comma 2 c.p. prevede infatti che l’abrogazione della fattispecie penale determina la caducazione del giudicato, così differenziandosi dalla continuità normativa di cui all’art.2 comma 4 c.p. secondo cui l’applicazione retroattiva della norma di favore incontra il limite del giudicato stesso.

L’art.2 comma 2 c.p. deve essere raccordato con l’art.673 c.p.p., il quale stabilisce la revoca della sentenza o del decreto penale di condanna in caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice.

L’art.2 comma 3 c.p., riformato, stabilisce invece che il mutamento della sanzione, da detentiva in pecuniaria, determina l’applicazione di quest’ultima nonostante il giudicato.

Si guardi poi all’art.625 bis c.p.p. che consente il ricorso straordinario per l’errore materiale o di fatto, l’art.630 c.p.p. che disciplina le ipotesi di revisione del giudicato ovvero all’art. 669 c.p.p., che nel caso di più sentenze pronunciate contro la stessa persona e per il medesimo fatto, consente al giudice di ordinare l’esecuzione di quella che con cui si è pronunciata la condanna meno grave.

A seguire, l’art.671 c.p.p. stabilisce che, dinnanzi a più sentenze o decreti penali irrevocabili nei confronti del medesimo soggetto, l’interessato o il p.m. possono chiedere al giudice dell’esecuzione l’applicazione della disciplina sul concorso formale o del reato continuato ex art.81 c.p.

Si richiama in ultimo l’art.30 Legge costituzionale 80/1953 in forza del quale la dichiarazione di illegittimità costituzionale della “norma” su cui si è formato il giudicato ne determina la caducazione.

Così delineato il quadro normativo di riferimento avente a oggetto tutte le ipotesi di elisione del giudicato anche alla luce anche delle ultime riforme, appare evidente che il comun denominatore risiede nel venir meno della norma incriminatrice, vuoi per scelta legislativa, vuoi per dichiarazione di illegittimità costituzionale.

Nessun riferimento è previsto per l’ipotesi di norma favorevole sopravvenuta, la cui retroattività non sembra ammissibile dopo la sentenza o il decreto penale di condanna.

Questo assunto, consolidato nella giurisprudenza della Consulta, deve però essere rivalutato alla luce del valore che il principio di retroattività favorevole ha assunto nell’ambito della giurisprudenza della Corte Edu.

La spinta verso la consacrazione del principio va raccordata con una differente valutazione del procedimento panale, secondo un’ottica garantista che trae linfa dai principi dell’equo processo, di cui all’art.6 CEDU, e in virtù della quale lo stesso non si conclude con il giudicato bensì con la cessazione dell’esecuzione della pena.

L’esecuzione rappresenta quindi una fase altrettanto importante del procedimento che, come il giudizio, deve essere sorretta dal principio di legalità, di uguaglianza e rieducazione del reo.

3. La lex mitior sopravvenuta e il giudicato

Si è già fatto cenno alla possibilità per il legislatore di derogare al principio di retroattività favorevole ogni qual volta vi sia un interesse pari o superiore rispetto alla libertà personale e al favor rei.

La Consulta con sentenze 393 e 394 del 2006 ha escluso che il principio possa assumere lo stesso rango del divieto di retroattività sfavorevole, la cui soggezione al principio di legalità è consacrata nell’art.25 comma 2 Cost.

Diversamente, la retroattività favorevole si lega al principio di uguaglianza e ragionevolezza ex art.3 Cost. che non impedisce al legislatore di intervenire in pejus quando lo ritiene opportuno.

Questa debolezza ha tuttavia conosciuto un rafforzamento grazie alla giurisprudenza sia della Corte di Giustizia (Berlusconi e altri c. Italia) che lo ha agganciato direttamente all’art.49 CDFUE (Carta di Nizza) avente medesimo rango giuridico dei Trattati (art.6 TUE), sia della Corte EDU che ne ha individuato la matrice nell’art.7 CEDU e dunque nel principio di legalità convenzionale.

In tal senso la Corte di Strasburgo, con la nota sentenza Scoppola c. Italia, ha sancito come il principio di retroattività favorevole sia corollario implicito del principio di legalità di cui all’art.6 CEDU, al pari dell’irretroattività sfavorevole.

Non è ammissibile, si afferma, che un soggetto continui ad essere punito per un fatto che ha perso il proprio disvalore originario, dovendosi dare alla norma convenzionale una interpretazione dinamica ed evolutiva che la renda effettiva e non teorica.

Una siffatta presa di posizione ha indotto la giurisprudenza interna a domandarsi quale fosse, a questo punto, la portata effettiva del principio di retroattività in favor, in particolare dinnanzi a una sentenza o un decreto penale di condanna irrevocabili. Soprattutto se si concepisce il giudicato non più in termini di assolutezza, ma come una fase intermedia soggetta alla vulnerabilità delle modificazioni normative.

Attraverso una serie di pronunce giurisprudenziali interne, la Cassazione, facendo applicazione del quadro normativo sopra richiamato, ha rafforzato il processo di erosione del giudicato.

Nel parlare di erosione del giudicato il punto però è distinguere tra una sopravvenienza favorevole abrogativa e una sopravvenienza solamente favorevole ma in continuità temporale.

Nel primo caso la giurisprudenza, con due importanti pronunce a Sezioni Unite “Ercolano” e “Gatto”, ha affrontato la questione del giudicato a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale.

In SS.UU. Ercolano si è fatta ampia applicazione della giurisprudenza della Corte EDU nel caso Scoppola, affermandosi che i principi della libertà personale e di legalità della pena non sono meno importanti del principio di stabilità dei rapporti giuridici, che se necessario deve soccombere.

La caducazione del giudicato può essere l’effetto non solo di una dichiarazione di illegittimità della norma che disciplina l’autonomo titolo di reato ma anche della norma di favor parzialmente abrogativa che incide sul trattamento sanzionatorio, ivi comprese le norme sulle circostanze e quelle di carattere processuale.

Per tale ragione le Sezioni Unite Ercolano, per la caducazione del giudicato, non ricorrono al meccanismo di cui all’art.673 c.p.p., nel quale si parla di illegittimità della “norma incriminatrice”, termine restrittivo che ricomprende solo l’autonomo titolo di reato.

Esse applicano piuttosto il meccanismo dell’incidente di esecuzione in uno all’art.30 L.80/1953, il quale sancisce la caducazione del giudicato a causa di una generica “norma” dichiarata incostituzionale.

Sulla medesima linea le Sezioni Unite Gatto rafforzano il processo di elisione del giudicato con riferimento alla dichiarazione di illegittimità costituzionale delle circostanze aggravanti che incidono direttamente sul trattamento sanzionatorio applicabile.

Ferma l’applicazione dell’art.30 e il richiamo ai principi di diritto enunciati in Ercolano e Scoppola, le Sezioni Unite si soffermano su una distinzione fondamentale tra retroattività sul giudicato dovuta ad abrogazione o successione fisiologica ex art.2 commi 2-4 c.p. e retroattività dovuta ad abrogazione patologica conseguente alla dichiarazione di illegittimità costituzionale.

Mentre nel caso dell’illegittimità costituzionale (o della contrarietà a norma europea) la norma non dovrebbe esistere ab origine e pertanto nemmeno il giudicato che si fonda su essa, nell’ipotesi di successione di norma favorevole ex art.2 comma 4 c.p. la sopravvenienza è di carattere fisiologico, frutto di una scelta d’opportunità politica che, come tale, non può incidere sulla sentenza irrevocabile.

Le conseguenze cui incorre il giudicato a seguito della dichiarazione d’illegittimità costituzionale devono essere intese in maniera ampia, anche oltre i limiti del precetto immediato.

Tale è il caso, ad esempio, della caducazione della confisca, sia essa sanzionatoria che per equivalente, connessa all’applicazione della norma incriminatrice, non potendosi ritenere che l’esecuzione della stessa esaurisce i suoi effetti al momento dell’atto traslativo. Anche la confisca, come il reato viene revocata ex art.673 c.p.p. e interrompe i propri effetti esecutivi sul patrimonio del reo (in tal senso Cass. penale, sentenza “Di Tondo” 2018)

L’assunto espresso nelle Sezioni Unite “Gatto” è stato oggetto di applicazione per numerose pronunce successive, come ad esempio quella che ha dichiarato incostituzionale della Legge “Fini Giovanardi, la quale aveva parificato il trattamento sanzionatorio tra droghe leggere e droghe pesanti.

L’intervento della Consulta, reso con sentenza n.32 del 2014, ha fatto rivivere la situazione antecedente al 2006, ritenendo che, per i fatti commessi tra il 2006 e il 2014, dovesse riespandersi la disciplina sanzionatoria delle droghe leggere.

Uguale a dirsi per ciò che riguarda l’applicazione della pena su richiesta delle parti (c.d. patteggiamento), per il quale si afferma che l’accordo con cui è stata stabilita l’entità della sanzione è invalido, anche se conforme alle soglie stabilite dopo la sentenza della Consulta, poiché formatosi in virtù di una cornice edittale illegittima.

Alla luce di ciò appare evidente che il solco tracciato dalla giurisprudenza porta ad escludere che al di fuori di un’ipotesi di abrogatio, sia essa fisiologica (ex art.2 comma 2 c.p.) che patologica (dichiarazione di illegittimità costituzionale), la retroazione favorevole dovuta a mera successione di leggi nel tempo, ex art.2 comma 4 c.p., non è idonea a travolgere il giudicato.

Né è auspicabile richiamare la posizione della Corte EDU in “Scoppola” posto che la massima valorizzazione del principio di retroattività favorevole per il tramite dell’art.7 CEDU non può essere intesa come una volontà della Corte di attribuire ad esso una forza di elisione del giudicato.

A maggior ragione, il revirement giurisprudenziale con cui si interpreta favorevolmente una norma penale non può retroagire sul giudicato.

4. Precisazioni sul fenomeno della penalizzazione e della depenalizzazione

Quando si parla di sanzione amministrativa non bisogna trascurare la sua idoneità a produrre effetti simili alla legge panale.

Non a caso la L.689/1981 esordisce con una serie di principi, affini a quelli previsti nel codice penale. Il richiamo ai principi fondamentali del diritto penale non implica affatto che la sanzione amministrativa soggiaccia in tutto e per tutto agli stessi.

Ciononostante, deve ancora una volta richiamarsi la presa di posizione della Corte EDU in materia di sanzioni amministrative che, al fine di massimizzare le garanzie offerte dagli artt.6-7 CEDU ha fornito una concezione autonomistica del significato di norma penale, ritenendo che anche una sanzione formalmente amministrativa può possedere la sostanza di legge penale qualora risponda a determinati criteri.

Tali criteri, enucleati dalla Corte prendono il nome di “criteri Engel”.

La lettura dinamica del concetto di norma penale porta con sé conseguenze molto importanti, ovvero la necessità che la sanzione amministrativa, avente sostanza penale in termini di gravità e portata sanzionatoria, debba interamente soggiacere ai relativi principi, ivi compreso quello di retroattività favorevole.

Si pongono dunque due interrogativi: cosa accade nell’ipotesi di penalizzazione della sanzione amministrativa in sanzione penale e in quella di depenalizzazione della sanzione penale in amministrativa.

Mentre nel primo caso non si pongono particolari problemi poiché è palese che vi sia un inasprimento in pejus, interamente soggetto al principio di irretroattività sfavorevole, nel secondo sono sorti dei dubbi.

In particolare ci si chiede se, per i fatti commessi nella vigenza della legge penale, possa retroagire la sanzione amministrativa che disciplina il medesimo fatto. Ancora una volta, la quaestio tocca il problema del giudicato, intervenuto anteriormente alla trasformazione della sanzione penale in amministrativa.

Secondo la lettura garantista fornita dalla Corte EDU la sanzione amministrativa, pregna d’essenza penale, non potrebbe comunque trovare applicazione poiché si tratterebbe sempre e comunque di una norma di sfavore, pena altrimenti la violazione dell’art.7 CEDU.

Di contrario avviso, ma in maniera assai accomodante, è la Consulta del 2017, la quale, ferma nella tradizionale distinzione tra sanzioni penali e sanzioni amministrative, sostiene che questa ultima deve trovare applicazione retroattiva.

La scelta del legislatore di continuare ad attribuire portata lesiva al fatto non esime il giudice dall’applicazione in bonam della sanzione amministrativa. Ciò, tuttavia, solo all’esito di una valutazione case by case, che tenga conto del trattamento sanzionatorio nel suo complesso e accerti se, in effetti, la nuova sanzione sia complessivamente più gravosa di quella originaria.

Il problema del giudicato sorge in quanto, anche in questo, caso si dovrà accertare se si è dinnanzi ad una abolitio o una abrogatio sine abolitione ex art.2 comma 4 c.p., poiché solo nel primo caso la retroazione sarà in grado di travolgere la sentenza definitiva.

Il tema dell’accertamento dell’una o dell’altra ipotesi si appresta in maniera significativa, stante l’inidoneità della norma sopravvenuta favorevole di incidere sulla sentenza.

5. Criteri di individuazione art.2 comma 2 e 4 c.p.

L’esatta individuazione dell’una o dell’altra fattispecie descritta dall’art.2 c.p. è fondamentale poiché da essa dipende, come si è già visto, l’esito del giudicato.

Allo scopo, sono stati elaborati tre criteri che consentono di verificare se si è in presenza di una abolitio ovvero di una continuità normativa.

Il primo criterio è quello c.d. della “doppia punibilità in concreto”, il quale si fonda sulla valorizzazione del fatto concreto. Secondo tale criterio si è dinnanzi a due norme in successione se il fatto concreto può essere sussunto in entrambe le fattispecie astratte.

Il secondo criterio viene definito della “continuità normativa” e, contrariamente al primo criterio, porta a ritenere che si debba prescindere dal fatto concreto per guardare ad elementi interpretabili della fattispecie, quali il bene giuridico tutelato e le modalità di aggressione.

Entrambi suscitano non poche perplessità, poiché nel primo caso non è sempre vero che la sussunzione di un fatto concreto in entrambe le fattispecie escluda il fenomeno della abolitio, mentre nel secondo caso il ricorso all’elemento del bene giuridico lascerebbe in capo al giudice una discrezionalità troppo ampia, ove sia chiamato a individuarne i contorni  e verificare se esso sia il medesimo in entrambe le norme.

Resta dunque il terzo criterio, c.d. “strutturale”, fatto proprio dalle Sezioni Unite “Giordano”.

Tale criterio, accolto dalla giurisprudenza maggioritaria, ripudia gli altri due per le ragioni anzi dette e si fonda sul mero confronto strutturale e astratto tra le fattispecie in successione.

Il meccanismo è quello contemplato dall’art.15 c.p. ovvero il criterio della specialità/continenza tra le norma giuridiche, che non tiene conto di elementi più effimeri quale quello del bene giuridico. Una volta appurato il confronto in astratto, l’interprete dovrà effettuare una verifica in concreto con la quale accerta la sussunzione del fatto in entrambe le fattispecie.

Il confronto in astratto può condurre a una duplice situazione di continenza.

Nel primo caso avremmo una “specialità per aggiunta”, secondo cui una delle due norme contiene tutti gli elementi dell’altra, più un elemento aggiuntivo e ulteriore. In questo caso, onde verificare se vi sia abolitio o meno, occorre valutare il “peso” dell’elemento aggiuntivo nell’economia del reato, e dunque se esso assegni alla fattispecie un significato lesivo del tutto diverso.

Nel secondo caso si ha invece una “specialità per specificazione”, secondo cui, nel rapporto di continenza, il legislatore sceglie di specificare uno o più elementi della fattispecie.

Anche in questo caso il metodo della doppia punibilità impone di verificare: in astratto, che una norma contiene l’altra oltre la presenza di un elemento specializzante e in concreto che il fatto possieda tutti gli elementi specializzanti di entrambe le fattispecie.

Può prendersi quale esempio la riforma che ha coinvolto la disciplina del falso in bilancio.

Con la novella del 2002, accanto alla riformulazione dell’art.2621 c.c. è stato introdotto l’art.2622 c.c., il quale contempla tutti gli elementi costitutivi del vecchio reato oltre l’elemento specializzante del “superamento di specifiche soglia di tolleranza” che danno luogo a una “particolare consistenza della falsificazione”, al disotto della quale il reato non sussiste.

In questo caso si verifica una duplice situazione: mentre prima era punibile anche un’alterazione minima della rappresentazione della situazione patrimoniale, ora la condotta che resta al di sotto della soglia non è più punibile, mentre ciò che anche in passato restava al di sopra della soglia continuerà ad essere punibile.

In tal modo, mentre nel primo caso avremo una abolitio del reato ex art.2 comma 2 c.p. con annesso travolgimento del giudicato, nel secondo caso, il mantenimento in vita della fattispecie determina l’applicazione dell’art.2 comma 4 c.p. trattandosi di una limitata continuità normativa che, ai fini dell’applicazione della norma di favore, incontra il limite del giudicato.

6. Conclusione

Alla luce di quanto esposto, con particolare riferimento alla presunta disgregazione del dogma del giudicato, è possibile concludere questa disamina richiamando dei punti essenziali.

Il principio di retroattività favorevole è un valore dal fondamento costituzionale rinvenibile nell’art.3 Cost., potenzialmente suscettibile di deroga, poiché privo del medesimo rango del principio di irretroattività sfavorevole, diretto corollario del principio di legalità.

La sua capacità di riequilibrare in termini di uguaglianza e ragionevolezza fattispecie analoghe ha condotto la Corte EDU a individuarne in fondamento nell’art.7 CEDU, senza, tuttavia assumere una posizione esplicita circa la sua potenzialità a costituire principio inderogabile all’interno dell’ordinamento nazionale e ancor più ad incidere sul giudicato in maniera retroattiva.

Ciò che invece si osserva con riferimento alla vulnerabilità del giudicato è l’esistenza di un quadro normativo  chiaro, che letto alla luce dei principi costituzionali, è in grado di incidere sulla sentenza definitiva, ogni volta in cui non v’è una continuità normativa fisiologica, bensì una caducazione patologica della norma su cui il giudicato si è formato.

La norma in oggetto deve essere intesa in maniera ampia, non solo riferita al sostanziale titolo di reato ma anche al trattamento sanzionatorio, secondo una concezione di procedimento penale che non si chiude con il giudicato, bensì con la conclusione dell’esecuzione e l’esaurimento dei rapporti.

Pertanto, piuttosto che di vulnerabilità del giudicato dovuta alla rilevanza che la Corte EDU attribuisce alla lex mitior, deve parlarsi di una maggior fragilità dello stesse dinnanzi al sopravvento intervento di favore che elimina la norma contraria all’ordinamento giuridico o non più politicamente concepibile in termini di reato, secondo una visione evoluta e complessiva di procedimento, nel quale l’esecuzione può e deve essere rivista.


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