La P.A. deve rispettare correttezza e buona fede anche in una selezione di diritto privato

La P.A. deve rispettare correttezza e buona fede anche in una selezione di diritto privato

La P.A. deve rispettare correttezza e buona fede anche in una selezione di diritto privato:
tra esigenze di tutela in tema di lavoro e di giustizia.

Un commento alla sentenza della Cassazione 33964/2023

 di Michele Di Salvo

 

Con la recente sentenza (33964/2023) la Corte di cassazione, sezione lavoro, è intervenuta affermando che anche in fase di selezione del personale di candidati esterni per un certo incarico, secondo una disciplina paritetica di diritto privato, non si sottrae al controllo di legittimità nella conduzione delle operazioni di scelta, sotto il profilo del rispetto dei parametri di correttezza e buona fede, con riferimento, tra le altre ipotesi, al rispetto di regole procedurali fissate dalla stessa P.A. per tali operazioni, di eventuali prassi consolidate rispetto alle quali emergano deviazioni manifestamente ingiustificate o, ancor più, all’adozione di comportamenti indebitamente discriminatori.

In estrema sintesi, la PA anche nell’ambito del procedimento relativo a contratti di lavoro – in cui la parte di “selezione” è da ritenersi equivalente ad atto endoprocedimentale – non può essere ritenuta titolare di un agire discrezionale e insindacabile, ed anche nelle selezioni deve attenersi ai principi di cui all’articolo 1 della legge 241/90, che travalicano i confini della cornice di principi “del procedimento” amministrativo e che invece più propriamente devono ispirare l’agire complessivo della Pubblica Amministrazione.

Il fatto, ricostruito dalla Corte.

La controversia concerne una procedura di selezione di un esperto coordinatore, con contratto di diritto privato per una missione in Libano, della durata di un anno più volte rinnovabile, da parte del Ministero degli Affari Esteri (di seguito, MAE), secondo la disciplina applicabile ratione temporis di cui alla L. 49/1987.

La procedura si era svolta sulla base di un avviso-proposta, cui era seguita la valutazione dei candidati da parte di un organo tecnico.

Successivamente vi era stato un interpello informale dell’odierno ricorrente, quale candidato con maggiore punteggio nelle valutazioni tecniche, cui sarebbe dovuta seguire la scelta da parte della competente Commissione.

È tuttavia accaduto che i lavori della Commissione siano stati dapprima rinviati, nel novembre 2008, ultimandosi la selezione solo per altra posizione della medesima missione e che quindi, nel marzo 2009, la procedura sia stata annullata, sul presupposto che l’organo tecnico, oltre alla graduatoria di idoneità, si fosse spinto a fare una proposta del candidato da prescegliere, in difformità dalle regole proprie di tali selezioni.

Era stato poi previsto, nell’aprile 2009, che per i futuri incarichi vi fosse il limite di età dei 65 anni, il che aveva reso impossibile la partecipazione del ricorrente.

La Corte d’Appello di Roma, rigettando il gravame contro la sentenza del Tribunale della stessa città, sulla premessa che l’intera procedura avesse carattere privatistico, riteneva di non affrontare il tema della legittimità o meno dell’annullamento e non affrontava neanche le questioni sui comportamenti discriminatori denunciati dal ricorrente, ritenendo che non vi fosse stata allegazione e quindi prova della probabilità di vittoria.

La Corte d’Appello aggiungeva altresì che potesse maturare alcun legittimo affidamento in capo al ricorrente, in quanto la Commissione era sempre libera di scegliere i candidati sulla base valutazioni proprie e diverse.

Innanzitutto la Suprema Corte rileva come “nel caso di specie, dalla narrativa della sentenza impugnata si evince che in primo grado la domanda è stata disattesa per difetto di allegazione dei danni da perdita di chance, cioè come concreti pregiudizi consequenziali subiti ed in secondo grado invece, come si dirà di seguito, per difetto di allegazione degli elementi probabilistici idonei ad identificare la perdita di una concreta chance. Non ricorre dunque né l’ipotesi della decisione sulla base dell’accertamento dei medesimi fatti sostanziali, e ciò già sarebbe assorbente, né a ben vedere una conformità di rationes decidendi.”

E’ indiscusso che quella oggetto di causa sia selezione di pieno diritto privato, per quanto svolta da una P.A.

Presso la stessa Corte è tuttavia maturato ed è condiviso in questa sentenza l’orientamento per cui “nell’ambito di rinnovi degli incarichi di cui all’art. 12 L. 49/1987, ma certamente anche rispetto al conferimento iniziale di essi ed anche ai sensi dell’art. 17 della stessa legge, per quanto non sussista «un diritto alla stipulazione del … contratto», l’amministrazione «nei confronti dei dipendenti ammessi alla procedura…, è stata obbligata dalla legge alla emanazione di un giudizio, il cui esito può essere controllato, non certo sostituito, dal giudice, sia sotto il profilo del rispetto delle regole procedimentali che il datore di lavoro è obbligato ad osservare, sia sotto quello della conformità ai criteri di legge e ai precetti di buona fede e correttezza»

(Cass. 2005 n. 10904; Cass. 2004 n. 23925; sul tema contiguo delle assunzioni concorsuali di dipendenti presso un datore privato, Cass. 2012 n. 16233 e Cass. 2010 n. 5119).

Da ciò deriva che “non vale ad escludere il ragionamento sulla chance il fatto in sé che vi fosse quella discrezionalità, perché è preliminare la verifica su quali siano stati – e se vi siano state – le violazioni denunciate, alle norme ed alle regole di buona fede.

Dovendosi altrimenti giungere a dire – come palesemente non può essere – che anche una scelta dolosa ai danni di un candidato (profilo che non è estraneo alle denunce del ricorrente) non farebbe maturare comunque un diritto risarcitorio per la perdita di chance ad avere quel posto.”

Di qui la censura della Corte sull’asse decisionale della Corte territoriale “incentrato sull’inutilità di una disamina delle illegittimità denunciate, non regge in ragione della necessità di far seguire ogni valutazione sul rispetto dalla discrezionalità – e dunque della chance – alla verifica sull’osservanza o meno delle regole che governano questa fase...”.

Ciò non significa per nulla che quelle denunce siano fondate, né che necessariamente ricorressero i presupposti su cui esse sono impostate, quanto che esse devono essere disaminate nella loro fondatezza o meno, così come nella ricorrenza o meno di effettive violazioni rilevanti sul piano della buona fede, potendosi sviluppare un serio giudizio sulla chance solo dopo avere verificato se violazioni di regole di buona fede vi siano state o no e ulteriormente, in caso positivo, quale incidenza possano avere avuto o meno sulla pretermissione del ricorrente.

Riepilogando, la Corte territoriale non poteva obliterare del tutto la considerazione del posizionamento preminente del F. nella graduatoria preselettiva e ciò sia perché la manifesta importanza del dato ne imponeva la valutazione sotto il profilo almeno indiziario di cui consiste l’apprezzamento della chance, sia perché ad escluderne la rilevanza non poteva bastare, per quanto si è sopra detto, il grado di discrezionalità preservato alla P.A. e valorizzato in via assorbente dalla sentenza impugnata.”

“…L’essersi inserito quel dato all’interno di un ragionamento errato sul piano del rilievo assorbente della discrezionalità comporta poi sia un errore di diritto sostanziale sul possibile rilievo delle ragioni di illegittimità addotte, sia un errore di diritto sulla prova, in quanto si è escluso il rilievo di un fatto manifestamente importante in forza di un ragionamento non congruo.”

In punto di diritto, può affermarsi che anche la selezione, da parte della P.A., di candidati esterni per un certo incarico, ai sensi dell’art. 12 o 17 L. 49/1987, secondo una disciplina paritetica di diritto privato, non si sottrae al controllo di legittimità nella conduzione delle operazioni di scelta, sotto il profilo del rispetto dei parametri di correttezza e buona fede, con riferimento, tra le altre ipotesi, al rispetto di regole procedurali fissate dalla stessa P.A. per tali operazioni, di eventuali prassi consolidate rispetto alle quali emergano deviazioni manifestamente ingiustificate o, ancor più, all’adozione di comportamenti indebitamente discriminatori. Fermo restando che è a carico di chi agisce la prova del nesso causale tra la violazione di tali regole di buona fede ed il danno da perdita di chance di cui si assume il verificarsi.

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Ben oltre il senso stretto del caso esaminato, la sentenza di rinvio della Corte di cassazione nuovamente in appello in diversa composizione con una lunga serie di “oggetti” da riesaminare e motivare mette in luce – anche in questo caso bel oltre lo stretto tema del diritto del lavoro – una già ampiamente richiamata esigenza di giustizia, del valore non eludibile del pieno esame e della concreta motivazione “piena”, ancor più in sede di appello.

Ciò vale a maggior ragione per i casi di “doppia conforme”, la disciplina della preclusione derivante dalla omogeneità di pronunce nei due gradi di giudizio di merito di cui all’art. 348-bis, commi IV e V, c.p.c..

Con l’espressione doppia conforme si fa riferimento all’ipotesi in cui l’ordinanza di inammissibilità dell’appello, o la sentenza d’appello che lo rigetta, sia pronunciata per le medesime ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado (cd. “uguali valutazioni del fatto.”)

In ipotesi di questo tipo viene esclusa la possibilità di ricorrere in Cassazione per il motivo di cui al n. 5 dell’art 360, I comma, c.p.c. (‘per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti’).

Ne consegue che, per evitare l’inammissibilità di tale motivo di gravame in sede di legittimità, in presenza di doppia conforme sul fatto, il ricorrente deve indicare le ragioni di fatto poste a fondamento della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto/ordinanza di inammissibilità dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (così, ex multis, Cass., 29715/2018).

Ecco che basta una sentenza/ordinanza di appello che si limiti a recepire acriticamente “le valutazioni sul fatto” della sentenza di prime cure ad impedire di fatto la possibilità in concreto di ottenere giustizia.

E la sentenza che in questa sede commentiamo riguarda proprio un caso del genere, in cui il massimo sforzo è stato concretizzato proprio per dimostrare – di fronte a due sentenze contrarie al ricorrente – la “non doppia” sentenza per carenza motivazionale (e in questo caso addirittura di esame in concreto).

Ciò che appare oltremodo sproporzionato è che il cittadino oltre ad attendere, nel caso concreto, circa sedici anni per vedersi riaprire le porte di un nuovo esame del suo caso nuovamente in Appello, abbia sostenuto i costi e sin qui i danni di un così lungo procedimento nei confronti di una Pubblica Amministrazione.

Ancor più nel più ampio contesto in cui l’errore del dirigente che ha determinato il procedimento non avrà alcuna ricaduta sul medesimo, incidendo il danno sempre e solo sulla collettività.

E peggio ancora quando la violazione in materia di diritto del lavoro viene perpetrata da una PA, che rappresenta lo Stato, lo stesso che dovrebbe garantire poi la giustizia in caso del diritto leso.


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