La remissione del debito

La remissione del debito

La legge riconosce al creditore la possibilità di rinunciare al credito verso il debitore, liberandolo così dall’obbligo di adempiere la prestazione.

La remissione del debito è dunque un modo di estinzione delle obbligazioni diverso dall’adempimento avente carattere non satisfattorio, in quanto non soddisfa un interesse del creditore.

Come previsto dall’art. 1236 c.c., la dichiarazione del creditore di rimettere il debito estingue l’obbligazione quando è comunicata al debitore, salvo che questi dichiari in un congruo termine di non volerne profittare.

Secondo una parte minoritaria della dottrina la remissione sarebbe un contratto risolutorio: la mancanza del rifiuto da parte del debitore assurgerebbe così ad accettazione tacita e la dichiarazione del creditore di rimettere il debito varrebbe invece come proposta contrattuale.

La tesi si fonda sulle analogie sussistenti tra la remissione ed il contratto con obbligazioni del solo proponente, nel quale la proposta acquista efficacia nel momento in cui perviene all’indirizzo del destinatario, salva la facoltà di questo di rifiutarla.

Tale interpretazione risulta difficilmente condivisibile: in primo luogo, infatti, essa finisce per rendere pleonastico l’istituto, andando ad interpretare la remissione come una sorta di mutuo dissenso, ossia come un vero e proprio accordo delle parti teso ad estinguere il rapporto obbligatorio.

La possibilità per le parti di estinguere il rapporto obbligatorio mediante reciproco accordo, infatti, discende già dalla previsione contenuta nell’art. 1372 c.c., secondo il quale il contratto può sciogliersi per mutuo dissenso o per le altre cause previste dalla legge.

Subordinando l’efficacia della remissione all’accettazione del debitore, d’altra parte, ci si porrebbe in contrasto con la lettera della legge, la quale afferma espressamente che la remissione acquista efficacia nel momento in cui la relativa dichiarazione è comunicata al debitore.

Considerando il mancato rifiuto del debitore come accettazione tacita, ancora, si riferisce l’efficacia del negozio alla scadenza del termine ‘’congruo’’ previsto dalla norma, entro il quale il debitore ha facoltà di rinunciare; ciò imporrebbe la necessità di determinare tale termine.

Altra dottrina, invece, ritiene che la remissione possa assumere strutture differenti a seconda dell’interesse del debitore di opporsi all’estinzione, in presenza del quale, infatti, la remissione deve necessariamente assumere struttura bilaterale e la sua efficacia deve essere subordinata all’accettazione del debitore; diversamente, la stessa può assumere anche la natura di atto unilaterale.

Secondo l’opinione dominante, per contro, la remissione del debito è a tutti gli effetti un atto giuridico unilaterale: il mancato rifiuto del debitore, infatti, non può considerarsi come un’accettazione dell’altrui proposta di remissione, quanto invece come una condizione di efficacia dell’atto.

A prescindere dalla disputa in ordina alla natura giuridica della remissione, essa deve in ogni caso considerarsi come un negozio giuridico, per la quale valgono, dunque, le norme in tema di capacità e vizi del consenso.

Si discute in ordine al momento in cui avviene l’estinzione dell’obbligazione: come detto, considerando la remissione come un negozio giuridico necessariamente bilaterale, essa non può che acquisire efficacia dal momento in cui è accettata dal debitore o, in mancanza, è trascorso il termine congruo previsto dalla legge senza che sia pervenuto al creditore il rifiuto del debitore, il quale vale come accettazione tacita dell’altrui proposta di remissione.

Qualificando la remissione come un atto giuridico unilaterale, viceversa, si dovrebbe interpretare il comportamento del terzo come una condizione di efficacia della dichiarazione di remissione posta in essere dal creditore.

Secondo una parte minoritaria della dottrina, in particolare, il mancato rifiuto del debitore dovrebbe intendersi alla stregua di una condizione sospensiva della remissione, con la conseguenza che l’estinzione dell’obbligazione dovrebbe ritenersi avvenuta solo nel momento dell’eventuale accettazione del debitore, o comunque essere ricondotta alla scadenza del termine congruo senza che nel frattempo sia intervenuto il rifiuto del debitore.

Tale opinione sembra porsi in contrasto con la lettera della legge, la quale afferma che la remissione acquista efficacia dal momento in cui è comunicata al debitore. Ne deriva, pertanto, che il rifiuto di questo non può che assurgere a condizione risolutiva della remissione, la quale acquista pertanto efficacia dal momento in cui la relativa dichiarazione è comunicata al debitore, salvo poi risolversi nel caso in cui il debitore abbia dichiarato di non volerne profittare.

Tanto premesso, sembra corretto interpretare la remissione come un negozio giuridico unilaterale recettizio, ossia come un atto che produce i propri effetti dal momento in cui viene comunicato al debitore, salva la facoltà di rifiutare di quest’ultimo, la quale assurge a condizione risolutiva della remissione. La natura recettizia di un atto, infatti, deriva proprio dal fatto che esso è destinato ad un soggetto determinato e, pertanto, non può che assumere efficacia da quando è ad egli comunicato.

Ci si interroga in ordine alle modalità di determinazione del termine congruo: chi ravvisa nella remissione un contratto con obbligazioni del solo proponente, ritiene che detto termine debba essere individuato applicando l’art. 1333 c.c., ossia facendo riferimento alla natura della prestazione o agli usi.

Al contrario, chi ricostruisce la remissione come un atto unilaterale, sostiene che la determinazione del suddetto debba avvenire riferendosi alla qualità e alle condizioni del singolo debitore.

Ci si chiede, inoltre, se la remissione possa avvenire solo a titolo gratuito o se, invece, possa essere anche a titolo oneroso.

Secondo parte della dottrina, la remissione è necessariamente un negozio giuridico a titolo gratuito, considerato che la rinuncia ad un credito dietro il pagamento di un corrispettivo costituisce un negozio differente ed, in particolare, una novazione o una datio in solutum.

Nell’ambito di chi sostiene la natura necessariamente gratuita della remissione, non può certamente condividersi l’opinione di chi la interpreta alla stregua di una donazione indiretta: non tutti gli atti a titolo gratuito, infatti, sono necessariamente delle liberalità.

Per aversi liberalità, in particolare, è necessario che il soggetto abbia agito per mero spirito di liberalità, ovvero in assenza di qualsivoglia interesse patrimoniale al compimento dell’atto, mentre non è decisiva la natura gratuita di questo.

Nella pratica è invece possibile che la remissione del debito sia caratterizzata da un interesse patrimoniale del creditore, e dunque non possa intendersi sempre come una liberalità.

Secondo altra parte della dottrina, invece, la remissione del debito può avvenire anche a titolo oneroso, senza che ciò comporti la necessità di definire la fattispecie come una datio in solutum o come una novazione, ossia come un vero e proprio contratto a prestazioni corrispettive.

A sostegno di tale conclusione si osserva che è la legge stessa a prevedere un’ipotesi di remissione a titolo oneroso: si pensi infatti all’art. 1240 c.c., secondo il quale il creditore che ha rinunciato verso corrispettivo alla garanzia prestata da un terzo, deve imputare al debito principale quanto ha ricevuto.

Quanto alla forma della remissione, si discute se essa debba o meno rivestire la stessa forma del negozio dal quale è sorto il credito che ne costituisce l’oggetto.

Secondo l’opinione dominante, la remissione è un atto a forma libera che, come tale, può desumersi anche da comportamenti concludenti del creditore, dai quali dedurre la volontà di questo di rinunciare al proprio credito.

Costituirebbero infatti due ipotesi di remissione tacita quelle sancite dall’art. 1237 c.c., secondo il quale la restituzione volontaria del titolo originale del credito, fatta dal creditore al debitore, costituisce prova della liberazione anche rispetto ai condebitori in solido; nello stesso tempo, se il titolo del credito è in forma pubblica, la consegna volontaria della copia spedita in forma esecutiva fa presumere la liberazione, salva la prova contraria.

Parte della dottrina, invece, contesta la natura di remissione tacita dell’ipotesi prevista nel primo comma dell’art. 1237 c.c., sostenendo che la restituzione indicata dalla norma integrerebbe un mero atto giuridico in senso stretto, e non un negozio giuridico, in ragione del carattere assoluto della presunzione di liberazione.

Al contrario, la spedizione del titolo in forma esecutiva sarebbe invece un vero e proprio negozio giuridico, in quanto la presunzione di liberazione non può considerarsi assoluta, come invece avviene nel caso previsto dal primo comma, risultando possibile dimostrare la sussistenza di una volontà contraria.

In ossequio al principio di simmetria dei negozi accessori, invece, vi è chi sostiene che la remissione debba rivestire la stessa forma dell’atto dal quale è sorto il credito che ne costituisce l’oggetto, trattandosi comunque di negozio avente efficacia risolutoria.

La remissione determina l’estinzione del credito, comprensivo di tutti gli accessori, tra i quali le garanzie; al contrario, come previsto dall’art. 1238 c.c., la rinuncia alle garanzie dell’obbligazione non fa presumere la remissione del debito.

In giurisprudenza è dibattuto se la rinuncia del debito principale comporti anche la remissione degli interessi: secondo alcuni autori tali debiti devono rimanere distinti e dunque la remissione dell’uno non fa presumere l’estinzione dell’altro.

Altri autori, invece, stante la natura accessoria dell’obbligazione, ritengono che la rinuncia al capitale comporti necessariamente anche la rinuncia agli interessi, mentre altri affermano la necessità di ricercare l’effettiva volontà delle parti.

Salvo particolari divieti imposti dalla legge, si ritiene che oggetto della remissione possa essere qualsiasi credito, anche futuro.

Per espressa affermazione del legislatore costituzionale, tuttavia, non sono suscettibili di remissione alcuni diritti fondamentali, quali il diritto alle ferie o al riposo settimanale del lavoratore.

Considerata la sua particolare rilevanza, e in particolare lo stato di bisogno del beneficiario che ne costituisce il presupposto, si ritiene che non sia passibile di remissione anche il credito agli alimenti.

Si discute, poi, se possa costituire oggetto della remissione anche un’obbligazione naturale: secondo l’opinione maggioritaria ciò non sarebbe possibile, in quanto l’obbligazione naturale non è suscettibile di produrre alcun effetto giuridico, ad eccezione dell’irripetibilità della prestazione spontaneamente realizzata.

Ci si chiede se la remissione possa o meno identificarsi come una rinuncia al credito o se, al contrario, remissione e rinuncia siano in realtà fattispecie differenti, aventi come tali effetti diversi.

Secondo un primo orientamento, tra la rinuncia e la remissione vi sarebbe un rapporto di genere a specie: la remissione, infatti, sarebbe solo una particolare forma di rinuncia, caratterizzata per aver ad oggetto un debito.

Al contrario, vi è chi sostiene che tra i due istituti vi sarebbero delle fondamentali differenze, riscontrabili nell’ipotesi in cui l’obbligazione sia caratterizzata dalla sussistenza di una pluralità di soggetti, siano essi debitori o creditori.

In presenza di più debitori, infatti, la remissione fatta ad uno dei condebitori – così come previsto dall’art. 1301 c.c. – ha effetto anche nei confronti degli altri, il cui debito deve essere ridotto della parte del condebitore a favore del quale è stata posta in essere la remissione.

La rinuncia, invece, non esplicherebbe alcuna efficacia nei confronti degli altri condebitori: con essa, infatti, il creditore rinuncerebbe solo a chiedere il pagamento del debito al condebitore in favore del quale è stata fatta, conservando la facoltà di agire per l’intero nei confronti degli altri.

Ugualmente, in presenza di più concreditori la rinuncia di uno di essi non libera il debitore, il quale continuerà ad essere obbligato per l’intero nei confronti degli altri, mentre la remissione libererà il debitore per la parte del concreditore remittente, a norma dell’art. 1301 c.c.

Tale opinione è avvalorata dall’efficacia che l’ordinamento riconosce alla rinuncia al legato, la quale comporta l’accrescimento agli altri della quota del legatario rinunciante, i quali conservano così il diritto di ottenere l’adempimento integrale del legato da parte dell’erede.

D’altra parte, mentre la rinuncia non può essere impedita, la remissione è invece efficace salvo l’opposizione del debitore.

La remissione, infine, non deve essere confusa con il pactum de non petendo, con il quale il creditore si impegna a non chiedere quanto dovuto dal debitore per un determinato periodo di tempo, o anche a tempo indeterminato.

Secondo parte della dottrina, tuttavia, la differenza tra i due istituti sarebbe rinvenibile solo nell’ipotesi in cui il patto valga per un periodo limitato di tempo o solo in presenza di determinate circostanze; nel caso in cui, al contrario, sia stato stipulato per un tempo indeterminato, lo stesso si identifica in tutto e per tutto con la remissione.

Tale opinione non può essere condivisa, in quanto i due istituti presentano notevoli differenze: con il pactum de non petendo, infatti, si rinuncia esclusivamente all’azione volta all’adempimento del credito, ma non al credito stesso; viceversa, la remissione costituisce un modo di estinzione dell’obbligazione diverso dall’adempimento e, pertanto, influisce direttamente sul credito, determinandone l’estinzione.

Anche in questo caso, la differenza si rinviene in presenza di una obbligazione caratterizzata dalla presenza di più soggetti, siano essi debitori o creditori.

Nel caso in cui, infatti, il creditore rimetta il debito nei confronti di uno solo dei debitori, la parte dovuta dagli altri dovrà essere diminuita della quota gravante su colui a favore del quale è stata fatta la remissione; se, invece, il creditore stipula un pactum de non petendo con uno dei debitori, il debito continuerà a sussistere per intero nei confronti degli altri, solo che il creditore non potrà chiederne l’adempimento al debitore con cui ha stipulato il relativo patto.


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L'avvocato Cuccatto è titolare di uno studio legale in provincia di Torino con pluriennale esperienza nel campo del diritto civile, penale ed amministrativo. L'avvocato è inoltre collaboratore esterno di un importante studio legale di Napoli, specializzato nel diritto civile. Quale cultore della materie giuridiche, l'avvocato è autore di numerose pubblicazioni in ogni campo del diritto, anche processuale. Forte conoscitore della disciplina consumeristica e dei diritti del consumatore, l'avvocato fornisce la propria rappresentanza legale anche a favore di un'associazione a tutela dei consumatori. Quale esperto di mediazione e conciliazione, l'avvocato è infine un mediatore professionista civile e commerciale.

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