La responsabilità civile per danni cagionati da cose in custodia

La responsabilità civile per danni cagionati da cose in custodia

L’articolo 2051 del codice civile dispone testualmente che ciascuno debba essere ritenuto “responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito”.

Secondo la norma, dunque, il danno provocato a terzi da un bene materiale (ad es: uno scaffale di un negozio che si sradica dal muro, finendo in testa ad un cliente) configura la responsabilità civile in capo al custode del medesimo (il negoziante), a meno che questi non riesca a dimostrare che il danno sia stato provocato da un fatto a lui non imputabile (ad es: il terremoto o un comportamento del cliente).

Cosa si intende per custode?

Secondo la Suprema Corte il rapporto di custodia si configura quando un soggetto ha la disponibilità giuridica e materiale del bene, con potere di intervento su di essa (Cass. Civ., sez. III, 18/09/2014, n. 19657).

Il proprietario di un immobile, avendo la disponibilità giuridica e, quindi, la custodia delle mura e degli impianti, è responsabile in via esclusiva dei danni arrecati a terzi da tali strutture e impianti (si pensi ai danni causati dal crollo del soffitto o dalla perdita di gas).

Nel caso in cui l’immobile sia in affitto, invece, il conduttore dell’appartamento (o del locale) sarà responsabile dei danni cagionati a terzi dai beni mobili presenti al suo interno (gli scaffali o i lampadari).

La disposizione dell’art. 2051 cod. civ. sembra lasciare poco spazio all’interpretazione. In realtà, la norma ha generato nel corso del tempo un acceso dibattito dottrinale e giurisprudenziale su tre aspetti fondamentali:

  1. La natura della responsabilità del custode (soggettiva od oggettiva);

  2. Il nesso di causalità tra il danno e la cosa custodita.

  3. La nozione di caso fortuito e la sua dimostrabilità da parte del custode.

1) La natura della responsabilità

Per molti anni la giurisprudenza si è interrogata sulla natura della responsabilità civile gravante sul custode del bene che abbia provocato il danno.

RESPONSABILITA’ SOGGETTIVA

Secondo un orientamento minoritario, meno recente, tale responsabilità è soggettiva: deve essere valutato, caso per caso, se il custode abbia adempiuto con diligenza al suo obbligo di vigilanza e se la cosa, per sua natura, sia o meno pericolosa.

Pertanto, il soggetto che dimostri di aver custodito la cosa con diligenza, deve essere giudicato esente da colpa, soprattutto nel caso in cui il bene, per sua natura, non possa essere custodito.

RESPONSABILITA’ OGGETTIVA

Contrariamente, l’orientamento giurisprudenziale maggioritario – e più recente – ritiene che il danno cagionato da cose in custodia si fondi non su un comportamento o un’attività del custode, ma su una relazione (di custodia) intercorrente tra quest’ultimo e la cosa dannosa.

Questa interpretazione della norma porta quindi a due conseguenze:

  1. non rilevano in alcun modo la condotta del custode e l’osservanza o meno di un obbligo di vigilanza. La circostanza che il custode sia stato diligente non esclude la sua responsabilità per danno causato dal bene in custodia;

  2. sussiste il dovere di custodia e controllo anche in relazione alle cose prive di un dinamismo proprio: non è necessario che la cosa sia suscettibile di produrre danni per sua natura.

Il soggetto che ritiene di aver subito un danno da cose in custodia e intenda agire in giudizio per ottenere il relativo risarcimento, avrà dunque l’onere di dimostrare:

  1. la relazione di custodia tra il bene e il soggetto responsabile;

  2. l’esistenza e l’entità del danno;

  3. il nesso di causalità tra l’evento lesivo e il bene in custodia.

2) Il nesso di causalità

Proprio su quest’ultimo elemento la giurisprudenza è giunta solo nell’ultimo decennio ad una visione condivisa in merito all’interpretazione della norma.

In passato la Suprema Corte riteneva che la prova dell’esistenza del rapporto causale tra la cosa e l’evento lesivo spettasse al danneggiato, mediante la dimostrazione delle condizioni potenzialmente lesive possedute dalla cosa, da valutarsi alla stregua della normale utilizzazione di essa.

In particolare, secondo i giudici di legittimità, la natura inerte della cosa custodita (la caldaia, la strada, una tubatura) sarebbe suscettibile di provocare un danno a terzi solo nel caso in cui il danneggiato dimostrasse il potenziale pericolo della stessa (si pensi al caso dello scoppio improvviso della caldaia o di una tubatura o dell’apertura di una voragine al centro della strada).

Tuttavia, negli ultimi anni, la Corte ha ampliato il raggio degli elementi di prova, ritenendo che il nesso causale possa essere dimostrato non solo nel caso in cui sia l’effetto di un dinamismo interno alla cosa, scatenato dalla sua struttura o dal suo funzionamento (scoppio della caldaia, scarica elettrica, frana della strada o simili), ma anche se esso sia determinato da agenti esterni, come un oggetto o il comportamento di una persona, che rendano la cosa, di per sé statica e inerte, potenzialmente pericolosa.

Il danneggiato, quindi, ha l’onere di dimostrare che lo stato dei luoghi abbia determinato un’obiettiva situazione di pericolosità, tale da rendere inevitabile il danno (si pensi al pavimento di un locale cosparso d’acqua in seguito alle pulizie, sul quale un cliente scivoli sbattendo la testa).

3) Il caso fortuito

La prova dei primi due elementi da parte del danneggiato configura in capo al custode del bene, come detto, una responsabilità oggettiva, dalla quale egli potrà liberarsi solo provando l’esistenza del caso fortuito, cioè di un fattore estraneo che, per il suo carattere di imprevedibilità ed eccezionalità, sia idoneo ad interrompere il nesso causale.

E’ ormai superato, infatti, l’orientamento giurisprudenziale che riconosceva nell’osservanza o meno dell’obbligo di vigilanza da parte del custode un elemento idoneo ad interrompere il rapporto di causalità tra la cosa e il danno.

Secondo i Giudici di Piazza Cavour, infatti, la circostanza che il custode dimostri solo di aver adempiuto al suo obbligo di custodia con diligenza non esclude la sua responsabilità per i danni provocati dal bene custodito, in quanto “la funzione della norma è quella di imputare la responsabilità a chi si trova nelle condizioni di controllare i rischi inerenti alla cosa” (Cass. Civ., sez. III, 2.2.2006, n. 2284; Cfr. anche Cass. n. 25243 del 29.11.2006 e Cass. n. 1948 del 10.02.2003).

Cos’è il caso fortuito e quali sono i fattori esterni che siano idonei a configurarlo?

Il caso fortuito consiste in un fattore esterno imprevedibile ed inevitabile, estraneo alla sfera di azione del custode e idoneo, DA SOLO, a produrre l’evento dannoso.

Tra i fattori idonei a determinare un danno a terzi la giurisprudenza individua sia cause esterne (es: il crollo di una frana, lo scoppio di uno pneumatico, azioni umane), sia lo stesso comportamento del danneggiato.

Il custode, quindi, per liberarsi dalla presunzione di responsabilità gravante su di esso, dovrà dimostrare che il caso fortuito abbia avuto un’efficacia causale tale da interrompere TOTALMENTE il nesso eziologico tra la cosa e l’evento dannoso.

L’interruzione parziale, infatti, determinerebbe solo una diminuzione della responsabilità del custode proporzionale all’incidenza del fattore esterno.

Ad esempio, nel caso in cui un soggetto scivoli sul pavimento bagnato di un locale, il titolare potrebbe liberarsi dalla presunzione di colpa dimostrando che:

  • un altro cliente, poco prima dell’evento, aveva urtato inavvertitamente uno scaffale, facendo cadere a terra una bottiglia di vetro che, rompendosi, aveva riversato sul pavimento tutto il liquido;

  • il danneggiato stava correndo tra i reparti o camminando senza prestare la dovuta attenzione.

La sussistenza di entrambi i fattori sopra richiamati escluderebbe quasi certamente il nesso di causalità, liberando il custode; al contrario, la prova di uno solo di essi potrebbe solo diminuirne la colpa in proporzione all’incidenza causale del fattore esterno esistente.

Applicabilità alla pubblica amministrazione

Questione controversa è se anche nei confronti della Pubblica Amministrazione sia applicabile la responsabilità di cui all’art. 2051 c.c. per i danni subiti dal cittadino a causa dell’omessa o insufficiente manutenzione dei beni pubblici (strade, impianti, oggetti).

Sul punto si è sviluppata negli anni una giurisprudenza consolidata, che ha delimitato la responsabilità della P.A., ai sensi dell’art. 2051 c.c., alle sole fattispecie in cui la cosa sia “custodibile“: essa deve possedere determinate caratteristiche (dimensioni, destinazione d’uso, ecc.) che rendano possibile, per la P.A., un controllo continuo idoneo ad impedire i potenziali pericoli per i terzi.

Pertanto, qualora si accerti che tale controllo sia materialmente impossibile (si pensi al caso delle strade in aperta campagna), nei confronti della P.A. non si configurerebbe una responsabilità oggettiva, bensì una responsabilità ai sensi dell’art. 2043 del cod. civ., limitata al grado di colpa effettiva.

In questo caso incomberebbe sul danneggiato l’onere di provare l’anomalia del bene (es.: una buca di grandi dimensioni, un guard-rail divelto sporgente verso la strada), oltre al danno e al nesso di causalità; mentre spetterebbe sempre al gestore del bene pubblico la prova del caso fortuito (ad es.: la possibilità, per il danneggiato, di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la predetta anomalia) (Cass. Civ., sez. III, 19 maggio 2011, n. 11016).


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Laureatosi in Scienze Giuridiche nel 2010 e in Giurisprudenza nel 2012 presso l'Università degli Studi di Roma Tre, ha maturato una significativa esperienza nel contenzioso civile stragiudiziale e giudiziale, fino al conseguimento del titolo di Avvocato nel 2016. Successivamente, ha orientato l'attività professionale nelle materie di Diritto dei consumatori, Diritto dei trasporti e del Turismo e Diritto Sportivo, nelle quali si sta specializzando.

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