La responsabilità genitoriale, sotto il prisma dell’illecito civile

La responsabilità genitoriale, sotto il prisma dell’illecito civile

La causalità è una “mappa” o rappresentazione della nostra mente, con cui leghiamo un antecedente ad un conseguente, sulla base della frequenza, più o meno consistente, con cui l’uno anticipa l’altro, attraverso un principio induttivo, il quale, partendo da singoli casi particolari, cerca di pervenire a una legge universale.

Il nesso di causalità nel fatto illecito si biforca nella distinzione tra causalità materiale, in cui si focalizza l’indagine sul nesso eziologico fra condotta ed evento dannoso, perché possa configurarsi a monte una responsabilità strutturale, e causalità giuridica, con cui si indaga il nesso che, collegando l’evento al danno, consente l’individuazione delle conseguenze dannose, per delimitare i confini del danno risarcibile.

La causalità materiale, a differenza di quella giuridica, è un modello che unisce la condotta dell’uomo all’evento naturale, quando questo fa seguito a quella e viene supposto come necessario. La causalità giuridica è, invece, il modello legislativo riguardante la successione dei fenomeni nella loro frequenza ideale.

Il giudizio di causalità materiale deve essere «falsificabile» (Popper), perché si abbia la conferma della fondatezza del medesimo, ossia deve configurarsi un’ipotesi  suscettibile di essere smentita dai fatti dell’esperienza.  Ciò spiega la ragione, per cui il Giudice sovente nomina un consulente, esperto della singola scienza, proprio per intercettare il rapporto causale tra condotta e l’evento naturale.

Alla base della causalità giuridica è individuabile una regola di probabilità, desunta dalle massime di esperienza del patrimonio culturale medio della società. Il giudizio di probabilità ridonda in quello di prevedibilità.

A causa dell’assenza di norme di diritto civile sul rapporto causale, occorre fare riferimento, con particolare riferimento alla causalità materiale, agli artt. 40 e 41 c.p.. Peraltro, ferma l’identità ontologica del nesso causale, in diritto processuale penale vige la regola dell’“ oltre ogni ragionevole dubbio” (BARD e cfr. art. 533 c.p.p.)  mentre nel processo civile vige la regola “del più probabile che non” (probabilità logica e statistica).

Va rilevato, peraltro, che una dottrina ha tentato una ricostruzione autonoma della causalità civile, focalizzando l’attenzione sulla possibilità di “aumento del rischio” e sull’esegesi dello scopo della norma violata. Si è, in particolare, elaborata una teoria della regolarità causale, focalizzata sull’idea di prevedibilità, in base all’art. 1223 cod. civ., anche a partire dalla considerazione che, per la responsabilità civile, non vale il paradigma dell’art. 27. 1° c. Cost., ossia il principio secondo cui la responsabilità penale è personale. La giurisprudenza prevalente ha aderito alla lettura della causalità sotto il prisma degli artt. 40 e 41 c.p., anche perché l’art. 1223 cod. civ. non riguarda direttamente il nesso causale, ma l’individuazione di danni risarcibili.

Questa idea, forse, è maggiormente condivisibile, dato che la disciplina della causalità in diritto civile appare un sistema incompiuto, da integrare mediante un’indagine da estendere ad altri rami dell’ordinamento e, in particolare, al diritto penale, da cui emerge un modello tendenzialmente condizionalistico. E’ noto che il modello della condicio sine qua non è stato rivisitato attraverso vari prismi (causalità adeguata, causalità umana) e sono stati introdotti dei correttivi al medesimo, in particolare attraverso la sussunzione sotto leggi scientifiche o, quantomeno, statistiche.

Attraverso l’applicazione degli artt. 40 e 41 c.p. alla causalità civile, si può, forse, affermare che si colma proprio una lacuna dell’ordinamento tramite l’analogia, in conformità al paradigma dell’art. 12 Preleggi, secondo i casi sotto il prisma dell’analogia legis o dell’analogia iuris, anche se una siffatta conclusione può portare a una dilatazione eccessiva dell’ambito normativo delle suddette disposizioni. Peraltro, quando il fatto illecito costituisce anche reato, si configura un’applicazione diretta, e non attraverso il prisma dell’analogia, delle sopra richiamate disposizioni, perché il diritto civile si interseca con il diritto penale.

Si aggiunga che l’applicazione della teoria condizionalistica, desumibile dagli artt. 40 – 41 cod. pen., è resa maggiormente flessibile attraverso il filtro della regolarità causale, nel senso che sono reputati risarcibili i danni che consistono conseguenze normali ed ordinarie del fatto.

Il referente normativo della causalità giuridica è l’art. 1223 c.c. (espressamente richiamato dall’art. 2056 c.c.), che circoscrive il danno risarcibile alle conseguenze immediate e dirette dell’evento lesivo. La causalità giuridica consiste in quel ragionamento logico che l’interprete dovrà effettuare, partendo da condotte attive e/o omissive suscettibili in astratto di cagionare l’evento di danno, per attribuire all’agente la relativa responsabilità sulla base del principio generale, già previsto per la responsabilità extra-contrattuale, dall’art. 2043 c.c. e, per la responsabilità contrattuale, dagli artt. 1218 e 1223 e sgg. c.c., secondo cui dei danni derivanti da illecito (o da inadempimento contrattuale) risponde l’autore di questo (e/o il debitore), ove sia riscontrabile un nesso di causalità fra i danni e l’illecito.

Secondo un’opinione dottrinale, il combinato disposto degli artt. 1223-2056 c.c. non va integrato con gli artt. 40 e 41 c.p., perché, in diritto civile, la causalità materiale rileva come legame tra condotta ed evento naturale, mentre il nesso tra il fatto e il danno costituisce la causalità giuridica, che coesiste con la prima. Proprio la causalità giuridica è considerata l’unica forma di causalità ipotizzabile per i fatti omissivi o di mera condotta.

Nell’art. 1223 cod. civ. l’aggettivo «diretto» indica il rapporto di consequenzialità e univocità logica tra il fatto antigiuridico e il danno. Gli artt. 1223 e 2056 c.c. attengono, tuttavia, al rapporto tra il fatto, dopo la sua stabilizzazione evolutiva, e il danno che deve essere diretto ed immediato.

Ai fini della comprensione del collegamento fra causalità e colpa, occorre riflettere sull’esigenza di verificare se la violazione della regola cautelare, in cui si sostanzia la colpa, abbia cagionato l’evento. In questi casi si configura la c.d. “causalità della colpa”. Tale concetto normativo trova il suo fondamento nell’art. 43 c.p., il quale richiede che l’evento si sia verificato a causa di negligenza, imprudenza od imperizia o per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline. La problematica assume rilievo anche per l’illecito civile.

La causalità della colpa è successiva all’accertamento della causalità della condotta. In un primo momento, si accerta se l’evento è oggettivamente imputabile al soggetto agente, in un secondo momento è necessario verificare se l’eventuale osservanza delle regole cautelari o se la condotta alternativa lecita avrebbero evitato il prodursi dell’evento.

La colpa si colloca al centro della teoria dell’illecito perché risponde all’esigenza di delimitare il contenuto del precetto “neminem laedere”, di cui all’art. 2043 cod. civ.. Essa è la divaricazione tra lo standard di comportamento che un soggetto deve tenere e quello che poi effettivamente tiene.

La colpa è un evento non voluto dal soggetto agente che si verifica per negligenza, ossia  mancanza di attenzione per salvaguardare i beni altrui, imprudenza, che consiste nel non adottare le misure idonee ad evitare il danno, imperizia, intesa come inosservanza delle regole di una determinata professione. Vicina al dolo eventuale è la colpa cosciente, ipotesi in cui il soggetto sa che vi è la possibilità che si possa verificare un danno, ma è sicuro che questo non avverrà perché confida nelle sue abilità.

Un’ipotesi in cui si dibatte se sussista una presunzione di colpa o una responsabilità oggettiva è quella della responsabilità dei genitori per fatti illeciti compiuti dai figli minori. L’articolo 2048 c.c. prevede un’ipotesi speciale di responsabilità in capo ai genitori, responsabili del danno cagionato dai propri figli, ed in capo agli insegnanti. Si configura una forma di responsabilità diretta, per fatto proprio, per non aver impedito il fatto dannoso e tale responsabilità, secondo una tesi, è fondata sulla loro colpa che viene presunta.

La presunzione di colpevolezza è superata non con la prova negativa, ossia dimostrando di non aver potuto impedire il fatto, ma con una prova positiva, ossia di aver impartito al figlio una buona educazione e di aver esercitato su di lui una vigilanza adeguata.

Poiché il genitore è tenuto a educare i figli, ove questi cagionino un danno, la colpa del genitore consiste proprio nel non aver impartito loro un’educazione adeguata. Tale responsabilità è da ascrivere, pertanto, nell’ambito della responsabilità diretta per fatto proprio e non della responsabilità per fatto altrui.

Secondo un’altra ricostruzione invece, la normativa in commento contempla un’ipotesi di responsabilità oggettiva e indiretta, perché non si risponde per il fatto proprio, ma per quello del minore. Pertanto, si prescinde dalla configurabilità di un elemento soggettivo.

È impossibile dimostrare, in positivo, quale tipo di educazione i genitori abbiano fornito al figlio. Pertanto, la prova può essere fornita in negativo, nel senso che, dalle modalità del fatto illecito, si può ricostruire la tipologia di educazione ricevuta dal minore, desumibile dall’insufficiente capacità di discernimento del danneggiante. E’, in astratto, anche possibile che il genitore riesca a dimostrare di aver educato il figlio in modo corretto, nonostante si tratti di una dimostrazione molto difficoltosa.

Gli interpreti talora intendono l’espressione legislativa “non aver potuto impedire il fatto” in conformità alle situazioni concrete, con la conseguenza che la responsabilità in questione è considerata di tipo oggettivo o soggettivo, in relazione alle vicende specifiche. La disposizione diviene, pertanto, suscettibile di una diversa esegesi, secondo la peculiarità della ipotesi, in cui la stessa viene applicata, anche se questa “oscillazione ermeneutica” può, forse, generare delle perplessità.

Presupposto necessario perché trovi applicazione l’art. 2048 è la coabitazione con il rappresentante legale. La responsabilità viene meno ove il minore si sia stabilmente allontanato dalla propria dimora, non essendo sufficiente un transitorio abbandono della stessa. L’allontanamento definitivo e volontario del minore dalla residenza familiare, non  imputabile ai genitori, fa cessare la coabitazione e determina il venir meno dalla responsabilità civile ex art. 2048 c.c. Il presupposto essenziale perché sussista la responsabilità in esame, peraltro, più che nella coabitazione, forse, va identificato nell’esistenza dei doveri imposti dall’articolo 147 c.c. (“obbligo di mantenere, istruire, educare e assistere moralmente i figli”).

L’articolo 2048, in base al quale i genitori sono responsabili del fatto illecito commesso dal minore, deve essere interpretato in connessione con il precedente art 2047 , secondo cui dei danni commessi dall’incapace (anche dai minori) risponde il sorvegliante.

Se il minore è capace di intendere e di volere, si applica l’art. 2048 e la responsabilità ricade solo sui genitori. Se il minore è incapace di intendere e di volere, i genitori, con i quali coabita, sono responsabili del fatto dannoso da lui commesso a norma dell’art. 2047 c.c., quali persone tenute alla sorveglianza, mentre, se il minore è capace di intendere e di volere, i genitori rispondono a norma dell’art. 2048 c.c., non solo quali sorveglianti, ma anche come educatori.

Se il minore è incapace di intendere e di volere saranno responsabili per il danno solo i genitori. Se il minore è capace di intendere e di volere, anche in relazione  all’età, questi risponderà in proprio del danno con il proprio patrimonio, ma in solido coi genitori. La responsabilità del minore capace di intendere e di volere si estende anche al risarcimento dei danni non patrimoniali e morali. 

Il fatto della coabitazione assume rilevanza soprattutto nel caso di genitori separati o divorziati o naturali non conviventi. La giurisprudenza è oscillante perché, accanto a pronunzie che escludono la responsabilità del genitore separato che non coabita con il figlio minore, ve ne sono altre per cui la mancanza di coabitazione tra uno dei genitori ed il figlio minore minorenne a causa di separazione giudiziale e di affidamento della prole all’altro genitore, non esonera il primo per i fatti illeciti commessi dal minore.

Da un lato, è possibile valorizzare il fatto che, con la separazione o il divorzio, cessa la coabitazione col genitore non affidatario e, pertanto, la sua responsabilità. In senso opposto, si può ritenere che siffatta responsabilità sopravviva al venir meno della coabitazione.

Non bisogna, in ogni modo, dimenticare che la responsabilità di cui all’art. 2048 c.c. presuppone la coabitazione, intesa come stabile consuetudine di vita, la cui effettività non può essere supplita da alcuna costruzione interpretativa.

Riguardo al convivente del genitore o al suo nuovo coniuge, va esclusa la responsabilità sulla base della tassatività dell’elencazione contenuta nel primo comma dell’art. 2048 c.c., in quanto norma eccezionale, anche se un’interpretazione diversa, che presuppone la natura esemplificativa della suddetta elencazione, estende anche a loro tale forma di responsabilità, sulla base della stabilità della convivenza more uxorio o del nuovo rapporto di coniugio.

Al danneggiato non è richiesta la prova della capacità del minore, ma piuttosto possono essere i suoi genitori a voler provare la sua incapacità, sia nell’interesse del minore stesso, stante l’inimputabilità dell’incapace stabilita dall’art. 2046 c.c., sia nel proprio, atteso il meno rigoroso contenuto della prova liberatoria che la giurisprudenza attribuisce a quella contemplata dall’art. 2047 c.c..

La precoce emancipazione dei minori, frutto del costume sociale, non esclude né attenua la responsabilità dei genitori, i quali hanno l’onere di impartire ai figli l’educazione necessaria per non recare danni a terzi nella loro vita di relazione, dovendo rispondere delle carenze educative a cui l’illecito commesso dal figlio sia riconducibile.

Di notevole importanza è l’osservazione per cui la responsabilità del genitore ex art. 2048 c.c. non esclude, ma si aggiunge a priori a quella del minore. perché l’illecito del minore è a questi è imputabile, proprio perché questi è capace e può esser chiamato a rispondere del fatto illecito compiuto, ex art. 2043 c.c..

La responsabilità dei genitori per il fatto illecito dei figli minori ai sensi dell’art. 2048 c.c. può concorrere con quella degli stessi minori fondata sull’art. 2043 c.c., se capaci di intendere e di volere. Il danneggiato che agisce contro i genitori sul fondamento dell’art. 2048 c.c. deve provare l’illecito del minore, il danno subìto e il relativo nesso di causale. La prova liberatoria richiesta ai genitori è quella stessa prevista dall’art. 2047 c.c., consistente nella dimostrazione “di non aver potuto impedire il fatto” illecito del minore. Essa non consiste solo nella prova di aver diligentemente vigilato sul minore, ma si estende alla prova di aver impartito al figlio una adeguata ed efficiente educazione, in relazione a un fatto illecito specifico,

La responsabilità dei genitori del minore capace trae fondamento dall’inadempimento dei loro doveri educativi, che derivano dal disposto degli artt. 30 e 31 Cost. e degli artt. 147 e 315 c.c., poiché si ritiene che tali doveri siano stabiliti non solo nell’interesse dei figli, ma anche a tutela dei terzi.

L’educazione dev’essere “personalizzata” e, come pure la vigilanza, può ritenersi “adeguata” solo se impartita in conformità alle condizioni sociali, familiari, all’età, al carattere e all’indole del minore, in modo da rispondere efficacemente alle necessità educative del singolo, assunto questo tanto più attuale alla luce della formulazione dell’art. 315 bis c.c. introdotto dalla legge n. 219/2012, da cui discende  il diritto del figlio di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti e, soprattutto, il diritto del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano.

Secondo un’interpretazione, per reati di particolare gravità, compiuti dal minore,  occorre presumersi la responsabilità del genitore, la quale, pertanto, viene “oggettivizzata”. Questa esegesi è stata criticata in diritto, poiché il fatto illecito del minore è imputabile solo a lui (quantomeno nelle ipotesi in cui questi sia capace di intendere e volere), e non anche ai suoi genitori. Anche un illecito particolarmente riprovevole del minore, di per sé solo, non esclude che i genitori abbiano adempiuto ai loro doveri educativi. Da questo si è argomentato che la tesi in esame sia fallace, in quanto basantesi sul paralogismo post hoc, ergo propter hoc (“dopo di ciò, quindi a causa di ciò”), inammissibile ai fini probatori, perché intrinsecamente fallace.

Si è, condivisibilmente, aggiunto che il medesimo orientamento non tiene conto del consolidato pluralismo dei fattori ed attori educativi  nel contesto attuale, tale da assumere, specie in particolari situazioni familiari, un ruolo molto importante nella formazione del minore.

Occorre ricordare che, secondo un’interpretazione, la responsabilità dei genitori non sussiste se il fatto è stato compiuto nell’ambito di quella sfera di libertà normalmente concessa al minore, tanto più ampia quanto più egli è prossimo all’età maggiore. Non sempre, peraltro, posizioni siffatte hanno trovato e trovano riscontro.


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