La riforma della responsabilità civile in ambito sanitario: profili di diritto processuale e sostanziale

La riforma della responsabilità civile in ambito sanitario: profili di diritto processuale e sostanziale

Sommario: 1. Introduzione. – 2. Le condizioni di procedibilità per la proposizione della domanda giudiziale. Principi generali. – 3. La scelta della mediazione. – 4. La scelta dell’accertamento tecnico preventivo. – 5. La legittimazione passiva. – 6. I possibili esiti del procedimento – 7. La necessità di instaurare il processo secondo il rito sommario di cognizione. 8. L’inosservanza della condizione di procedibilità: conseguenze. – 9. Gli obblighi di comunicazione all’esercente la professione sanitaria. – 10. Le azioni esperibili. – 11. L’azione di responsabilità contrattuale nei confronti della struttura sanitaria e quella extracontrattuale nei confronti del medico. – 12. Oneri di allegazione e prova nell’azione di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale. – 13. Le linee guida e le buone prati- che clinico assistenziali. – 14. Sulla quantificazione del danno.

Abstract. La responsabilità medica, quale paradigma della più generale responsabilità professionale, costituisce il risvolto patologico dell’attività sanitaria e nasce da una prestazione inadeguata che ha prodotto effetti negativi sul diritto alla salute del paziente (art. 32 Cost.).

La materia è stata oggetto di molteplici riforme legislative e di mutevoli orientamenti giurisprudenziali. Con la legge 8 marzo 2017 n. 24, pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 64 del 17 marzo 2017 e recante “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie”, la materia della responsabilità medica ha attraversato un importante passaggio evolutivo. Il presente lavoro si pone come obiettivo quello di esaminare i punti cardine della riforma che hanno riguardato il profilo civilistico, attraverso un’analisi degli articoli di legge contenenti la nuova disciplina procedurale.

1. Introduzione.

La legge Gelli-Bianco, L. 8 marzo 2017, n. 24, pubblicata in G.U. n. 64 del 17 marzo 2017, in vigore dal 1 aprile 2017, rubricata “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie”, cronologicamente è l’ultimo capitolo della lunga storia che vede come protagonisti i medici e i pazienti. A seguito della legge n. 189/2012 (cd. Legge Balduzzi “Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute”), il citato intervento legislativo del 2017 ha perseguito il fine di scongiurare il rischio di condotte tendenzialmente omissive tenute da parte dei medici per situazioni molto a rischio e presumibilmente compromettenti (c.d. medicina difensiva negativa), oppure la sottoposizione dei pazienti a trattamenti non necessari se non in funzione di una eventuale linea difensiva, comportanti dei costi superflui ed ingiustificati per il servizio sanitario (c.d. medicina difensiva positiva).

Il presente elaborato si pone come obiettivo quello di analizzare le novità di carattere processuale introdotte dalla riforma, di significativa rilevanza e incidenza pratica, che possono essere così sintetizzate:

a) il doppio filtro di procedibilità – accertamento tecnico preventivo con funzione conciliativa ex art. 696-bis c.p.c. e procedimento di mediazione ex d. lgs n. 28/2010 – sebbene non in forma cumulata, bensì in via alternativa, su scelta dell’attore;

b) il necessario esperimento del procedimento sommario di cognizione di cui agli artt. 702-bis e ss. c.p.c. in caso di utilizzo dell’accertamento tecnico preventivo;

c) l’esperibilità dell’azione diretta nei confronti dell’impresa di assicurazione della struttura sanitaria ovvero di quella dell’esercente la professione sanitaria, con conseguente litisconsorzio necessario, rispettivamente, della struttura o dell’esercente;

d) l’esperibilità dell’azione di rivalsa da parte della struttura o dell’impresa di assicurazione nei confronti dell’esercente la professione sanitaria;

e) l’esperibilità dell’azione di responsabilità amministrativa da parte del pubblico ministero contabile nei confronti dell’esercente la professione sanitaria dipendente dalla struttura sanitaria pubblica.

Lo spirito della riforma è da rinvenire nelle disposizioni dirette a favorire la soluzione non contenziosa delle liti che, con un certo grado di innovatività, rispondono alla logica di ridurre il contenzioso giudiziale in favore di una soluzione che rimetta ai protagonisti della vicenda la soluzione della lite. In particolare, il legislatore ha inteso l’utilizzo della consulenza tecnica nonché della procedura di mediazione quali strumenti attraverso cui le parti siano poste nella condizione di poter discutere con piena cognizione di causa dei problemi e giungere a una soluzione condivisa della controversia con una transazione. Il legislatore ha voluto, altresì, favorire e accelerare il dialogo fra il danneggiato e l’assicuratore del responsabile prevedendo a tal fine l’azione diretta, ex art. 12 legge Gelli, ossia la possibilità di radicare una controversia direttamente nei confronti dell’assicuratore del responsabile, parimenti a quanto accade in altri settori del diritto come, ad esempio, in quello della responsabilità civile per danni arrecati dalla circolazione di veicoli.

La legge n. 24/2017 è anche intervenuta sulla qualificazione del titolo di responsabilità della struttura sanitaria e dell’esercente la professione sanitaria, stabilendo che la struttura risponde a titolo contrattuale – ponendosi con ciò in linea con il diritto vivente -, mentre l’esercente – inopinatamente rispetto agli ultimi orientamenti giurisprudenziali – a titolo extracontrattuale, salvo che abbia stipulato un contratto di prestazione d’opera professionale direttamente con il paziente, rispondendo, in tal caso, a titolo contrattuale.

Il quadro delle responsabilità così delineato dovrebbe portare con sé un alleggerimento dell’onere della prova in capo al danneggiato nell’ipotesi in cui questi decida di agire contro la struttura sanitaria, potendo egli limitarsi ad allegare l’inadempimento e il fatto costitutivo rappresentato dal contratto di spedalità, scaricando sul convenuto l’onere di provare il fatto impeditivo consistente nell’avere adottato la diligenza dovuta nell’esecuzione della prestazione oppure nell’impossibilità della prestazione stessa ed un appesantimento nell’ipotesi in cui decida di agire contro l’esercente, avendo egli il più arduo compito di provare, in tal caso, il fatto costitutivo rappresentato dalla colpa o dal dolo.

Nella valutazione della responsabilità e nella individuazione del contenuto degli oneri di allegazione e prova, un ruolo determinante è svolto dalle raccomandazioni contenute nelle linee guida e dalle buone pratiche clinico-assistenziali, espressione di soft law, ma con portata più cogente rispetto al passato, in particolare, rispetto al D.L. n. 158/2012, convertito con modifiche nella legge n. 189/2012, cd. “legge Balduzzi”. L’analisi che segue avrà ad oggetto tali profili innovativi.

2. Le condizioni di procedibilità per la proposizione della domanda giudiziale. Principi generali.

Le nozioni di responsabilità “medica” e di responsabilità “sanitaria” non trovano un preciso appiglio normativo, ma costituiscono il frutto della elaborazione interpretativa dottrinale e giurisprudenziale. In particolare, alla prima di tali nozioni vengono tradizionalmente ricondotte le controversie relative al rapporto tra medico e paziente e riguardanti omissioni o irregolarità nella tenuta della cartella clinica, diagnosi errate, interventi chirurgici tardivi o inutili o dannosi, violazione in tema di consenso informato. Invece, nella seconda rientrano quelle relative al rapporto tra struttura sanitaria e paziente che, a sua volta, comprende non soltanto l’obbligo di erogare la prestazione medico-sanitaria, ma anche gli obblighi di natura accessoria (predisposizione dei locali per la degenza, messa a disposizione di personale medico ausiliario e di personale paramedico, di medicinali, e di tutte le attrezzature tecniche necessarie, adeguatezza e buon funzionamento di queste ultime, e così via).

L’originario testo dell’art. 5, comma 1, d. lgs. n. 28/2010 aveva assoggettato le controversie in materia di “responsabilità medica” alla condizione di procedibilità costituita dal previo esperimento del procedimento di mediazione. Anche a causa delle ambiguità di tale locuzione, la riforma dell’istituto della mediazione avvenuta nel 2013 ha esteso l’ambito di applicazione del filtro alle controversie in materia di “responsabilità sanitaria”.

Il legislatore del 2017, preso atto della scarsa percentuale di successo della mediazione in questa specifica materia, dovuto soprattutto alla frequente mancata partecipazione delle strutture sanitarie e delle imprese di assicurazione convocate dal danneggiato per risolvere la controversia al tavolo della mediazione, ha scommesso su un altro strumento di conciliazione, il cd. accertamento tecnico preventivo diretto alla composizione della lite, disciplinato dall’art. 696-bis c.p.c., ponendone il relativo esperimento in via obbligatoria e preliminare al processo, ma allo stesso tempo in alternativa rispetto alla mediazione. Ne consegue che, ad oggi, la proposizione di una domanda giudiziale di risarcimento dei danni nei confronti della struttura sanitaria o dell’esercente la professione sanitaria deve essere necessariamente preceduta dal tentativo di conciliazione o in sede di mediazione oppure in sede di accertamento tecnico preventivo.

E’ indubbio che tale istituto e quello della mediazione svolgano la medesima funzione, perseguendo entrambi finalità conciliative e rappresentanti strumenti deflattivi del contenzioso. Altrettanto indubbio è che l’efficacia dell’accordo di conciliazione ex artt. 11 e 12 d. lgs n. 28/2010 non presenti differenze rispetto a quella dell’accordo raggiunto all’esito della consulenza tecnica preventiva, potendosi entrambe apprezzare sul piano negoziale ai sensi dell’art. 1372 c.c., sul piano esecutivo ai sensi dell’art. 474, comma 2, n. 1 e comma 3, c.p.c. e sul piano dell’idoneità a costituire titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale per esplicita previsione di legge. Altri profili di affinità possono poi cogliersi sul piano delle agevolazioni e degli incentivi fiscali e nella presenza di un terzo equidistante tra le parti non chiamato ad emettere alcuna decisione.

Ciò non toglie che sussistano importanti difformità strutturali tra i due istituti relative, oltre che al tipo di attività svolta dal mediatore e dal consulente tecnico, anche all’approccio da adottare, alle tecniche da utilizzare nella gestione del conflitto, al livello di riservatezza garantita ed alla natura del procedimento. Diversità vi sono, poi, anche sul piano istruttorio poiché soltanto la relazione tecnica redatta dal consulente nominato dal giudice può fare ingresso nel successivo processo per il tramite dell’istanza di parte; quella svolta dall’esperto eventualmente nominato nel procedimento di mediazione, può invece più costituire una prova atipica la cui acquisizione al processo dipende dal prudente apprezzamento del giudice (Trib. Roma 17 marzo 2014). Sotto quest’ultimo punto di vista, i vantaggi del procedimento ex art. 696-bis c.p.c. sono innegabili. Anzi, la finalità realmente perseguita dal legislatore è proprio quella di favorire la formazione di un risultato istruttorio di natura tecnica acquisibile in una sede processuale destinata a svolgersi non a caso, secondo le più semplificate forme degli artt. 702-bis ss. c.p.c.

Tuttavia, questo significa non che la via della mediazione abbia perso senso, ma soltanto che le vie di accesso obbligatorio alla gestione delle liti da medical malpractice a fini conciliativi si sono moltiplicate. Si tratta, infatti, di individuare lo strumento più adeguato al caso di specie, in base agli obiettivi perseguiti, alla complessità tecnico-giuridica della vicenda, al grado di coinvolgimento emotivo della vicenda umana sottesa.

Il legislatore ha ritenuto di escludere l’istituto della negoziazione assistita, introdotta dall’art. 3 dl 12 settembre 2014, n. 132, convertito, con modificazioni, in legge 10 novembre 2014, n. 162 nelle controversie risarcitorie in materia sanitaria, non dovendo essere obbligatoriamente esperito anche se si tratti di domande di pagamento a qualsiasi titolo di somme non eccedenti cinquantamila euro.

Ciò premesso, si può passare all’esame più dettagliato del funzionamento dei due filtri applicabili nelle controversie de qua.

3. La scelta della mediazione.

Come anticipato, il soggetto leso che intenda richiedere giudizialmente il risarcimento dei danni nei confronti della struttura sanitaria o dell’esercente la professione sanitaria oppure, in via di azione diretta, nei confronti dell’impresa di assicurazione dell’una o dell’altro, ai sensi dell’art. 12 legge Gelli, è obbligato ad esperire uno dei due procedimenti conciliativi in via preliminare, in base alla sua scelta. I due filtri, infatti, sono alternativi. Questo non toglie che, esperito infruttuosamente l’uno, possa essere instaurato l’altro. Non c’è, però, alcuna obbligatorietà in questo: L’art. 5, comma 4, lett. c), d.lgs 28/2010, aggiunto dal dl 69/2013, conv. con modif. in legge 98/2013, esclude espressamente che si debba necessariamente avviare il procedimento di mediazione prima di quello di accertamento tecnico preventivo, indipendentemente dalla materia.

La scelta per la mediazione invece che per l’accertamento tecnico preventivo comporta la preferenza per un percorso collaborativo che prescinda dal piano meramente giuridico o anche soltanto tecnico e consenta alla parte istante di instaurare un canale di comunicazione con la parte convocata. Occorre sottolineare che le liti in materia possono essere soggettivamente molto complesse poiché spesso coinvolgono non soltanto il paziente e il medico o il paziente e la struttura sanitaria o il paziente, il medico e la struttura sanitaria, ma anche le compagnie di assicurazione, nonché, in caso di evento morte, i familiari del defunto. Ne deriva la compresenza di un coacervo di posizioni e interessi non omogenei e, quindi, non agevolmente coordinabili.

Tutto ciò ha portato a suggerire di suddividere il procedimento di mediazione in due fasi almeno: la prima, diretta a favorire il recupero del contatto comunicativo e del reciproco riconoscimento tra i soggetti coinvolti; la seconda, volta alla individuazione di un punto di equilibrio e di soddisfazione condivisa sul piano risarcitorio, anche attraverso l’esame degli aspetti medico-legali del caso, la cui valutazione tenga conto di tutte le variabili del caso quali, ad esempio, l’eventuale rilevanza penale dell’illecito oppure anche la diffidenza del paziente o dei suoi familiari rispetto al rappresentante della struttura, in quanto soggetto distante e non sempre in grado di percepire il travaglio umano.

L’assistenza di un mediatore particolarmente qualificato e competente ed eventualmente di un co-mediatore, ma soprattutto il clima collaborativo che la mediazione dovrebbe contribuire ad instaurare, costituiscono elementi idonei a far cadere su di essa la scelta del filtro da esperire. A ciò si aggiungano gli indubbi vantaggi connessi alle garanzie di riservatezza e confidenzialità (cfr. artt. 9, 10, 14 d. lgs. n. 28/2010) e gli incentivi di carattere fiscale che il procedimento di mediazione assicura (cfr. artt. 17 e 20 d. lgs. n. 28/2010), oltre alle ampie potenzialità esecutive del verbale di conciliazione e dell’allegato accordo ottenibili anche attraverso la sottoscrizione da parte degli avvocati (cfr. art. 12 d.lgs. n. 28/2010).

In senso contrario, giocano altri fattori quali l’onerosità del procedimento per scaglioni di importo elevato destinata ad accrescersi in caso di nomina di esperti tecnici (cfr. art. 8, comma 4, d.lgs. n. 28/2010); la possibile impreparazione dei mediatori rispetto alla specifica tipologia di contenzioso; le conseguenze in tema di pagamento delle spese processuali in caso di rifiuto della proposta conciliativa e di successiva condanna da parte del giudice ad un importo perfettamente corrispondente a quello indicato nella proposta rifiutata (cfr. art. 13, d.lgs n. 28/2010). Fattori questi, che potrebbero scoraggiare il soggetto danneggiato e consigliargli di intraprendere la via dell’accertamento tecnico preventivo.

Il buon funzionamento della mediazione si gioca soprattutto sulla possibilità di riunire attorno ad un unico tavolo di discussione tutti i soggetti coinvolti nella vicenda oggetto di lite, non solo affinché si favorisca, per quanto possibile, la corrispondenza soggettiva e oggettiva del procedimento con il successivo eventuale processo, anche ai fini della osservanza della condizione di procedibilità, ma anche perché aumentino le chance di una composizione definitiva e il più possibile satisfattiva della lite in via stragiudiziale. A questo proposito, l’art. 8, comma 4-bis, d. lgs n. 28/2010 stabilisce che “Dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione, il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell’articolo 116, secondo comma, del codice di procedura civile. Il giudice condanna la parte costituita che, nei casi previsti dall’articolo 5, non ha partecipato al procedimento senza giustificato motivo, al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio”.

La norma fa discendere l’applicazione delle due sanzioni – l’una operante sul piano istruttorio, l’altra sul piano economico – dalla mancata partecipazione al procedimento di mediazione. Se il procedimento prende avvio con la presentazione dell’istanza di mediazione presso l’Organismo di mediazione competente e la nomina del mediatore, la prima occasione nella quale può constatarsi l’assenza della parte è il primo incontro, fissato “non oltre trenta giorni dal deposito della domanda” ex art. art. 8, comma 1, secondo periodo, d. lgs. n. 28/2010.
Ricevuta la comunicazione della domanda e della data del primo incontro “con ogni mezzo idoneo ad assicurarne la ricezione, anche a cura della parte istante” ex art. 8, comma 1, d. lgs 28/2010, la parte convocata è libera di aderire oppure no, valendo la condizione di procedibilità soltanto per la parte istante. In caso di adesione, non sono previste particolari forme o termini di costituzione dalla cui inosservanza possano scaturire nullità, preclusioni o decadenze, poiché il procedimento di mediazione è del tutto sganciato dalla logica e dagli schemi processuali.

La domanda di mediazione, necessaria per procedere con la successiva causa in tribunale, va presentata presso un organismo di mediazione accreditato, che abbia la propria sede principale o secondaria nel luogo del giudice territorialmente competente a decidere la controversia (V. pag. 9, par. 4). Non si può optare per un organismo situato in una città differente, a pena di improcedibilità dell’azione giudiziaria. Questa regola non è derogabile neanche se: l’organismo ha una sede secondaria nel luogo del giudice competente ma l’incontro viene programmato presso un’altra città; l’organismo è abilitato a operare su tutto il territorio nazionale; la partecipazione all’incontro di mediazione può avvenire anche con modalità telematiche. Resta fermo che le parti possono derogare a tale regola con un accordo (anche tacito, così come chiarito dal CNF e optare per un organismo di mediazione situato in una città diversa da quella del giudice competente.

Ai fini dell’avveramento della condizione di procedibilità, occorre tenere conto, peraltro, di quanto disposto dall’art. 5, comma 2-bis d. lgs. n. 28/2010, secondo cui “la condizione si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordo”. Il mancato accordo costituisce ipotesi distinta dalla mancata partecipazione, potendo anche derivare anche da un rifiuto delle parti comparse di procedere oltre e, quindi, di avviare la vera e propria mediazione per ragioni di merito. Tali ragioni possono essere attinenti alla funzionalità e/o efficienza dell’organismo di mediazione adito, alla serietà, imparzialità e competenza del mediatore designato a mere esigenze di opportunità ovvero alla fondatezza o no della pretesa.

Una volta concluso il primo incontro, il suo esito deve essere riportato in un apposito verbale, che attesterà, la mancata comparizione della parte convocato, il mancato raggiungimento di un accordo sulla prosecuzione del procedimento ovvero il perfezionamento di un’intesa in ordine all’avvio della mediazione. Le risultanze del verbale potranno rilevare, rispettivamente, in sede processuale ai fini della valutazione da parte del giudice delle ragioni della mancata partecipazione della parte al procedimento di mediazione e della eventuale applicazione delle sanzioni di cui all’art. 8, comma 4-bis, d. lgs. n. 28/2010; della prova dell’avvenuto espletamento della condizione di procedibilità ai sensi dell’art. 5, comma 2-bis, d. lgs. n. 28/2010; della individuazione del momento conclusivo del primo incontro e dell’inizio delle fasi successive, facendo scaturire l’obbligo in capo alle parti di corrispondere le somme dovute a titolo di indennità di mediazione.

L’assistenza delle parti nelle controversie in materia di responsabilità sanitaria e medica richiedono un particolare livello di competenza e professionalità in capo al mediatore, proprio per le ragioni innanzi dette attinenti alla difficoltà tecnico-giuridica delle questioni sottese, alla complessità soggettiva della lite, alla intensità e delicatezza della vicenda umana. Ai sensi dell’art. 3, comma 2, d. lgs. n. 28/2010, il regolamento di procedura deve in ogni caso garantire modalità di nomina che ne assicurino l’imparzialità, l’idoneità al corretto e sollecito espletamento dell’incarico, la competenza. A questo fine, è necessario stabilire criteri trasparenti di individuazione e fare in modo che la nomina del mediatore sia ritagliata sulla specifica controversia. L’art. 7, comma 5, lett. e), 28/2010 stabilisce che il regolamento di procedura debba contenere “criteri abili per l’assegnazione degli affari di mediazione predeterminati e rispettosi della specifica competenza professionale del mediatore designato, desunta anche dalla tipologia di laurea universitaria posseduta”. Con riferimento alla tipologia di controversie in parola, tuttavia, appare molto difficile che il mediatore possegga tutti i requisiti necessari per la più efficiente e competente assistenza delle parti. Si tratta, infatti, di casi che richiedono specifiche competenze tecniche e che suggeriscono fortemente all’organismo di mediazione di nominare uno o più mediatori ausiliari, ai sensi dell’art. 8, comma 1. Il co-mediatore non sostituisce il mediatore originariamente designato, ma gli si affianca agevolandolo nella attività di assistenza delle parti e svolgendo un ruolo ausiliario, appunto.

Peraltro, è possibile che in casi connotati da particolare complessità far ricorso alla perizia di un esperto che rediga una relazione tecnica in grado di facilitare sia gli sforzi delle parti di individuare il punto di equilibrio dei rispettivi interessi e posizioni, sia l’opera del mediatore nella formulazione della proposta conciliativa. Le parti non sono certamente obbligate, né il mediatore è titolare di alcun potere discrezionale in tal senso come emerge dall’art. 8, comma 4, prima parte, d.lgs. n. 28/2010 ai sensi del quale “Quando non può procedere ai sensi del comma 1, ultimo periodo, il mediatore può avvalersi di esperti iscritti negli albi dei consulenti presso i tribunali”.

Il problema riguarda l’utilizzabilità in sede processuale di tale parere in caso di fallimento del percorso di mediazione. Ora, mentre questa possibilità, con riferimento alla relazione tecnica del Ctu, è espressamente prevista dall’art. 696-bis c.p.c. nella parte in cui rinvia all’art. 698 c.p.c., nella mediazione parrebbe impedita dal principio di riservatezza esterna e, comunque, se non impedita, fortemente limitata nella sua efficacia, potendo essere valutato quel parere tecnico alla stregua di una prova atipica.

Infine, l’art. 6, comma 1, d. lgs. n. 28/2010 stabilisce che il procedimento di mediazione debba avere una durata massima di tre mesi.

4. La scelta per l’accertamento tecnico preventivo.

In alternativa, il danneggiato può scegliere di far ricorso allo strumento alternativo dell’accertamento tecnico preventivo con funzione conciliativa disciplinato dall’art. 696-bis c.p.c. Uno strumento che come la mediazione di cui al d. lgs n. 28/2010 costituisce una condizione di procedibilità dell’azione di risarcimento dei danni nella materia della responsabilità sanitaria e medica.

Ai sensi dell’art. 8, comma 1, legge 24/2017 “Chi intende esercitare un’azione innanzi al giudice civile relativa a una controversia di risarcimento del danno derivante da responsabilità sanitaria è tenuto preliminarmente a proporre ricorso ai sensi dell’articolo 696-bis del codice di procedura civile dinanzi al giudice competente”. Il comma 2, inoltre, dispone che “La presentazione del ricorso di cui al comma 1 costituisce condizione di procedibilità della domanda […]”. Da tali disposizioni si può osservare quanto segue.

In primo luogo, la disposizione secondo cui il procedimento deve svolgersi innanzi al giudice civile, comporta l’inapplicabilità dello strumento di cui all’art. 696 c.p.c. tutte le volte in cui l’azione civile sia stata esercitata in sede penale, come del resto stabilito per la mediazione dall’art. 5, comma 4, lett. g), d.lgs. n. 28/2010.

In secondo luogo, per espressa previsione normativa, l’atto introduttivo deve rivestire la forma del ricorso. A tal proposito, l’art. 696-bis c.p.c. nulla dispone; ciononostante si può fare riferimento anche all’art. 693 c.p.c., che, pur non essendo richiamato espressamente dalla legge in esame, pare perfettamente coerente proprio nella parte in cui dispone che “L’istanza si propone con ricorso”.

Non è richiesta l’allegazione del periculum in mora come confermato dal comma 1 dell’art. 696-bis, prima parte: “L’espletamento di una consulenza tecnica, in via preventiva, può essere richiesto anche al di fuori delle condizioni di cui al primo comma dell’art. 696”, ma occorre indicare il fumus boni iuris, sia per facilitare i termini della discussione in vista della eventuale conciliazione, sia per individuare la situazione sostanziale in relazione alla quale il giudice è chiamato a valutare la rilevanza della prova.

In terzo luogo, l’istanza deve essere proposta al giudice competente che, alla luce del comma 3 dell’art. 696 c.p.c., cui fa rinvio il comma 1 dell’art. 696-bis c.p.c., dovrebbe essere il presidente del tribunale oppure il giudice di pace. Tuttavia, il fatto che l’art. 8, comma 3, legge 24/2010 dispone che il successivo procedimento da instaurare a seguito del fallimento del tentativo di conciliazione debba obbligatoriamente seguire le forme di cui agli art. 702-bis ss. c.p.c. che possono applicarsi soltanto innanzi al tribunale in composizione monocratica, potrebbe indurre a dubitare che il giudice di pace abbia competenza in materia. Per quanto riguarda la competenza territoriale, in virtù della qualificazione della responsabilità della struttura sanitaria come contrattuale vale l’applicabilità del criterio di competenza esclusivo del foro del consumatore. Invece, per le controversie tra medico e paziente, il cui foro continua ad essere rappresentato dal luogo di residenza del paziente.

L’art. 696-bis c.p.c. non detta tutte le norme per lo svolgimento del procedimento, ma si avvale del rinvio ad altre disposizioni, che, a loro volta, rinviano ad altre ancora. Infatti, il comma 1 rimanda all’art. 696, comma 3, che rimanda agli art. 694 e 695, “in quanto applicabili”, mentre l’ultimo comma richiama gli art. 191-197 c.p.c., “in quanto compatibili”.

Pertanto, proposta l’istanza, il giudice designato fissa con decreto l’udienza e stabilisce il termine perentorio per la notificazione del decreto e del ricorso a carico della parte istante, alla controparte. Non è chiaro se, nelle controversie risarcitorie in questione, l’istanza possa essere rigettata. Per un verso, sembrerebbe doversi dare risposta affermativa almeno tutte le volte in cui difetti un presupposto processuale oppure l’istanza sia del tutto inammissibile oppure ancora il contenuto della stessa sia palesemente abnorme. Per un altro verso, sembrerebbe doversi dare risposta negativa, poiché l’esperimento del procedimento costituisce condizione di procedibilità della domanda giudiziale e, quindi, ad essa deve necessariamente darsi corso.

Il giudice, quando occorre, assunte sommarie informazioni, provvede in contraddittorio tra le parti, nomina il consulente tecnico con ordinanza non impugnabile, formula i quesiti e fissa l’udienza nella quale il consulente deve comparire. L’ordinanza, contenente l’invito a comparire all’udienza fissata dal giudice, è notificata a cura del cancelliere al consulente tecnico. All’udienza il consulente presta giuramento e il giudice fissa la data per l’inizio delle operazioni peritali. Valgono, inoltre, le disposizioni in tema di astensione e ricusazione, di rinnovazione delle indagini e di sostituzione del consulente, di richiesta di informazioni e chiarimenti da quest’ultimo alle parti ed eventualmente a terzi, di fissazione del termine per il deposito della relazione, ed in generale in tema di tutela del contraddittorio delle parti, comprese quelle relative alla possibilità di nominare consulenti di parte.

A proposito della figura del consulente, va osservato quanto segue.

Con riferimento alla nomina, che avviene attraverso un provvedimento del giudice, vengono in rilievo gli artt. 8, comma 4, e 15, legge 24/2017. Quest’ultimo, in particolare, dispone che nei procedimenti civili e nei procedimenti penali aventi ad oggetto la responsabilità sanitaria, l’autorità giudiziaria affida l’espletamento della consulenza tecnica e della perizia a un medico specializzato in medicina legale e a uno o più specialisti nella disciplina che abbiano specifica e pratica conoscenza di quanto oggetto del procedimento, avendo cura che i soggetti da nominare non siano in posizione di conflitto di interessi nello specifico procedimento o in altri connessi. La scelta deve avvenire tra gli iscritti negli albi dei consulenti di cui all’art 13 disp. att. c.p.c., e dei periti di cui all’art. 67 disp. att. c.p.c. Più precisamente, l’art. 15 dispone altresì che i consulenti tecnici d’ufficio da nominare nell’ambito del procedimento ex art. 696-bis c.p.c., devono essere “in possesso di adeguate e comprovate competenze nell’ambito della conciliazione acquisite anche mediante specifici percorsi formativi”. L’ultimo comma dell’art. 15 stabilisce che “l’incarico è conferito al collegio”. Non sempre, però, la nomina di un collegio è opportuna, anzi a volte può essere più che sufficiente limitarsi a nominare un singolo tecnico. Sanzioni per l’inosservanza di questo precetto, del resto, non ve ne sono.

Tale previsione tende ad assicurare che il consulente sia a conoscenza delle tecniche necessarie per condurre nella maniera più efficace il tentativo di conciliazione.

Con riguardo alla attività del consulente, va evidenziato che esso non è chiamato ad accertare l’esistenza del diritto dedotto, poiché tale accertamento spetta soltanto al giudice. Il consulente, in primo luogo, deve procedere alla attività cognitivo-valutativa tecnica che gli è propria e, in secondo luogo, ove possibile, deve tentare la conciliazione. Il consulente è per sua natura un esperto, dotato delle conoscenze specialistiche necessarie alla soluzione delle questioni tecniche rilevanti ai fini della definizione della controversia.

L’art. 8, comma 4, legge 24/2017 impone la necessaria partecipazione delle parti al procedimento di consulenza tecnica preventiva. Il tenore delle disposizioni ivi contenute denota l’intento del legislatore di favorire al massimo il raggiungimento di un accordo di conciliazione, sino al punto da adottare, nei confronti della parte che non manifesti un atteggiamento collaborativo, pesanti sanzioni. Esse sono molteplici e trovano applicazione all’esito del successivo giudizio di merito. In materia di ATP, quindi, a differenza di quanto accade nell’ambito della mediazione, le ripercussioni dell’atteggiamento di chiusura non si manifestano sul piano istruttorio (nessun elemento probatorio il giudice è legittimato a ricavare dalla mancata partecipazione delle parti, neanche sub specie di argomento di prova ex art. 116, comma 2, cpc).

In caso di mancata partecipazione delle parti, è prevista la condanna al pagamento delle spese di consulenza e di lite, indipendentemente dall’esito del giudizio; la condanna al pagamento di una pena pecuniaria, determinata in via equitativa, in favore della parte che è comparsa alla conciliazione. In caso di mancata formulazione dell’offerta di risarcimento del danno da parte dell’impresa di assicurazione ovvero di mancata comunicazione dei motivi contrari, nella emananda sentenza favorevole al danneggiato la sanzione consisterà nella trasmissione della copia della sentenza da parte del giudice all’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni (IVASS) per gli adempimenti di propria competenza.

5. La legittimazione passiva.

Ogniqualvolta si discorra di strumenti processuali e non, come nella materia che ci occupa, ci si deve necessariamente interrogare sui profili di legittimazione attiva e passiva. Nell’ambito della responsabilità per medical malpractice, si è fatto cenno, ai soggetti legittimati attivamente: il paziente ovvero familiari in caso di decesso di quest’ultimo. Problematica, invece, risulta essere l’individuazione dei soggetti legittimati passivamente con riguardo al filtro di procedibilità di cui al paragrafo precedente.

Infatti, sotto il profilo dell’obbligo di partecipazione, la giurisprudenza si è divisa sull’esatta individuazione dei soggetti sui quali tale obbligo incombe. In particolare, non vi è un unicum giurisprudenziale circa l’individuazione dei soggetti passivamente legittimati nei procedimenti de quo, registrandosi in tal senso un contrasto tra i giudici di merito.

In particolare, alcuni Magistrati – Trib. Padova, 27 novembre 2017, Trib. Venezia, 11 settembre 2017 hanno ritenuto che l’individuazione dei soggetti necessari a partecipare all’ATP si fonda sulla tipologia di azione da promuovere: struttura sanitaria, esercente la professione sanitaria, ovvero entrambi, nell’ipotesi di procedimento azionato ex artt. 696 bis c.p.c, art. 7 L. 24/2017, compagnia di assicurazione della struttura sanitaria, del sanitario, ovvero di entrambi, nel caso di giudizio ex art. 12 L. 24/2017 che così recita: “Fatte salve le disposizioni dell’articolo 8, il soggetto danneggiato ha diritto di agire direttamente, entro i limiti delle somme per le quali e’ stato stipulato il contratto di assicurazione, nei confronti dell’impresa di assicurazione che presta la copertura assicurativa alle strutture sanitarie o sociosanitarie pubbliche o private di cui al comma 1 dell’articolo 10 e all’esercente la professione sanitaria di cui al comma 2 del medesimo articolo 10 […]”.

Quanto appena esposto troverebbe fondamento nel combinato disposto degli artt. 12, comma 6, e 10, comma 6, della citata legge, in quanto sino a quando non sarà approvato l’atto normativo che prevede i requisiti minimi afferenti le polizze assicurative, decreto che avrebbe dovuto essere emanato entro 120 giorni dall’entrata in vigore della legge, legittimata passiva non potrà essere anche la compagnia assicuratrice della struttura sanitaria e/o del sanitario. Infatti, ai sensi dell’art. 10, comma 6, “Con decreto del Ministro dello sviluppo economico, da emanare entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, di concerto con il Ministro della salute e con il Ministro dell’economia e delle finanze, previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, sentiti l’IVASS, l’Associazione nazionale fra le imprese assicuratrici (ANIA), le Associazioni nazionali rappresentative delle strutture private che erogano prestazioni sanitarie e sociosanitarie, la Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri, le Federazioni nazionali degli ordini e dei collegi delle professioni sanitarie e le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative delle categorie professionali interessate, nonché le associazioni di tutela dei cittadini e dei pazienti, sono determinati i requisiti minimi delle polizze assicurative per le strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private e per gli esercenti le professioni sanitarie, prevedendo l’individuazione di classi di rischio a cui far corrispondere massimali differenziati. Il medesimo decreto stabilisce i requisiti minimi di garanzia e le condizioni generali di operatività delle altre analoghe misure, anche di assunzione diretta del rischio, richiamate dal comma 1; disciplina altresì le regole per il trasferimento del rischio nel caso di subentro contrattuale di un’impresa di assicurazione nonché la previsione nel bilancio delle strutture di un fondo rischi e di un fondo costituito dalla messa a riserva per competenza dei risarcimenti relativi ai sinistri denunciati. A tali fondi si applicano le disposizioni di cui all’articolo 1, commi 5 e 5-bis, del decreto-legge 18 gennaio 1993, n. 9, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 marzo 1993, n. 67”.

Tuttavia un diverso orientamento – Trib. Verona, 31 gennaio 2018, Trib. Venezia, 18 gennaio 2018- che ha ritenuto necessaria la presenza anche della compagnia di assicurazione. In particolare tali Giudici hanno considerato irrilevante la mancata adozione dei decreti ministeriali alla cui entrata in vigore è subordinata l’esperibilità dell’azione diretta del danneggiato nei confronti della compagnia di assicurazione ex art. 12 L. 24/2017. In particolare, i giudici hanno osservato che nell’ipotesi di tentativo obbligatorio di conciliazione chiaro è il dettato dell’art. 8 della citata legge al comma 4 che prevede la obbligatorietà della partecipazione di tutte le parti coinvolte nella vicenda e, quindi, anche delle imprese di assicurazione, e ciò indipendentemente dall’entrata in vigore dei decreti ministeriali di cui all’art 12 legge Gelli. Quanto appena esposto troverebbe conforto anche nella previsione della cd. “clausola di salvezza”, di cui all’art. 12 L. 24/2017, che fa salve le disposizioni di cui all’art. 8. La partecipazione della impresa di assicurazione appare conforme alla stessa ratio della normativa nonché alla finalità conciliativa dello strumento processuale previsto nell’art. 696/bis c.p.c., essendo strumentale a fornire all’assicurazione i possibili elementi dì natura tecnica necessari all’eventuale formulazione di un’offerta di risarcimento, che tenga conto sia dell’an che del quantum della responsabilità e che consenta la chiusura in via transattiva della controversia, prevenendo l’instaurazione di un giudizio di merito.

Ora, tra i due, il primo orientamento è maggiormente in linea con la finalità dell’istituto in quanto volto ad ampliare il più possibile la platea dei soggetti chiamati a partecipare all’eventuale accordo di conciliazione e a comporre la controversia senza ulteriori strascichi. Tuttavia, il secondo sembra cogliere più precisamente il collegamento del procedimento con il giudizio di merito, poiché, senza contraddire la lettera e la ratio della norma, coniuga l’attività tecnico-istruttoria preliminare con l’oggetto del giudizio stesso. In ogni caso, la possibilità che l’esercente la professione sanitaria non sia parte della procedura stragiudiziale di risarcimento del danno, è espressamente contemplata dall’art. 9, comma 2, legge 24/2017, secondo cui, in tal caso, l’azione di rivalsa nei suoi confronti può essere esercitata soltanto successivamente al risarcimento avvenuto sulla base di titolo giudiziale o stragiudiziale e deve essere esercitata, a pena di decadenza, entro un anno dall’avvenuto pagamento.

È questo un profilo dibattuto in dottrina ed in giurisprudenza oggi, perché attiene ad un elemento essenziale della lite in ipotesi di medical malpractice riferendosi alla legittimazione processuale dei soggetti coinvolti e, in ultima analisi, alla opponibilità delle risultanze accertate in sede di ATP ai soggetti obbligati in futuro al risarcimento. La soluzione, nell’assenza di un raccordo normativo, non potrà che essere demandata alla interpretazione, estensiva e conservativa, delle norme oggi operative ed all’applicazione dogmatica per certi casi, del principio di celerità e conservazione della lite che certamente costituisce un importante profilo di lettura della legge Gelli-Bianco.

Alla convocazione dell’assicuratore nel procedimento per ATP spesso si contrappone nei fatti una eccezione di carenza di legittimazione all’azione contro l’impresa garante e da parte di quest’ultima che diviene per il giudice presupposto da risolvere fin dalla fase iniziale del procedimento.

Tale eccezione che viene in questo caso da Tribunale di Verona risolta in senso ammissivo della vocatio in ius dell’impresa garante della azienda sanitaria si fonda, dunque, sull’assenza, nell’attuale assetto normativo, di una disciplina che consenta l’azione diretta del danneggiato nei confronti della assicurazione della struttura sanitaria o del sanitario.

6. I possibili esiti del procedimento.

Il consulente tecnico, prima di depositare la relazione in cancelleria, tenta, ove possibile, la conciliazione tra le parti.

Si può osservare a questo proposito che, nonostante la lettera della legge, il tentativo di conciliazione è soltanto apparentemente facoltativo. Il consulente, in altri termini, deve tentare la conciliazione ove ve ne sia la possibilità, non avendo nessun potere discrezionale in tal senso. Resta semmai da verificare cosa significhi la formula “ove possibile”. L’indagine sulla possibilità dovrebbe tenere conto di due elementi: per un verso, la natura della causa; per altro verso, il concreto atteggiamento assunto dalle parti prima del deposito della relazione in cancelleria, che potrebbe indurre il consulente a non tentare la conciliazione perché ritenuta del tutto inefficace. L’avveramento della condizione di procedibilità è assicurato dall’esperimento del procedimento, mentre non si può imporre di avviare una trattativa tra le parti se queste dimostrano di non avere alcuna intenzione di procedere in tal senso.

Ad ogni modo, ove la conciliazione venga tentata e riesca, si applicano i commi 2 e 3 dell’art. 696-bis c.p.c. Pertanto, si forma processo verbale di essa, al quale il giudice attribuisce con decreto efficacia di titolo esecutivo, ai fini dell’espropriazione e dell’esecuzione in forma specifica e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale. Inoltre, ai sensi del comma 4, il processo verbale è esente dall’imposta di registro.

Se la conciliazione non riesce, si applica l’art. 8, comma 3, legge 24/2017, secondo cui “la domanda diviene procedibile e gli effetti della domanda sono salvi se, entro novanta giorni dal deposito della relazione o dalla scadenza del termine perentorio di sei mesi dal deposito del ricorso, è depositato, presso il giudice che ha trattato il procedimento di cui al comma 1, il ricorso di cui all’articolo 702-bis del codice di procedura civile. In tal caso il giudice fissa l’udienza di comparizione delle parti; si applicano gli articoli 702-bis e seguenti del codice di procedura civile”.

Al fallimento del tentativo di conciliazione la norma citata equipara l’ipotesi in cui il procedimento non si concluda entro il termine perentorio di sei mesi dal deposito del ricorso. Si è detto che anche il procedimento di mediazione debba concludersi entro il termine di tre mesi. tuttavia, dal mancato rispetto di detti termini derivano conseguenze differenti. Se è vero che in entrambi i casi l’effettiva durata del procedimento che tenta una conciliazione non può essere sempre identica, ma è fisiologicamente destinata a variare a causa di fattori quali l’animosità dei litiganti, la pluralità delle parti in contesa, la complessità delle questioni tecniche da accertare e così via, la differenza è che, solo con riferimento alla consulenza tecnica preventiva, il termine, oltre ad essere doppio, è definito dalla legge come perentorio. Questo pone a domandarsi quali siano le conseguenze della sua inosservanza e in quale misura divergano da quelle in materia di mediazione.

Con riferimento alla mediazione si è ipotizzato che, in astratto, il protrarsi del procedimento di mediazione per più di tre mesi dal deposito dell’istanza di mediazione presso l’organismo competente consente di ritenere espletata la condizione una volta decorso detto termine così da ritenere le parti libere di adire la via giudiziale.

Un discorso parzialmente differente deve essere svolto per la consulenza tecnica preventiva. L’art. 8, comma 3, stabilisce che la domanda è procedibile quando è depositato il ricorso per l’instaurazione del giudizio di merito entro il termine di 90 giorni dalla scadenza di quello di sei mesi o dal deposito della relazione peritale; dunque, la procedibilità è legata alla tempestiva introduzione della causa, non all’osservanza del termine di sei mesi. In altri termini, anche se il procedimento non si è concluso entro tale termine, non significa di per sé che non possa continuare. Quello che determina realmente l’improcedibilità è il mancato rispetto del termine di 90 giorni che decorrono da un dies a quo variabile.

7. La necessità di instaurare il processo secondo il rito sommario di cognizione.

La proposizione della domanda giudiziale deve avvenire entro novanta giorni dal deposito della relazione o dalla scadenza del termine perentorio di sei mesi stabilito per la durata del procedimento. Soltanto in tal caso, secondo l’art. 8, comma 3, legge 24/2017, sono fatti salvi gli effetti della domanda. Il deposito del ricorso ex art. 702-bis c.p.c. nel caso di scelta per il secondo filtro di procedibilità deve avvenire entro il termine di novanta giorni consentendo così la salvezza non solo dell’interruzione della prescrizione (effetto comunque destinato a non perdersi, potendo l’istanza introduttiva della consulenza tecnica preventiva valere come atto di costituzione in mora ex art. 2943 cc), ma anche della sospensione dell’effetto interruttivo.

L’instaurazione del giudizio di merito, peraltro, può avvenire in maniera errata. In relazione a queste ipotesi ci si deve pure domandare se valga la salvezza degli effetti della domanda.

Indipendentemente dal caso in cui il deposito del ricorso giudiziale avvenga oltre il termine dei novanta giorni – caso le cui conseguenze sono già stabilite dalla legge e consistono nella perdita degli effetti -, vengono in rilievo l’ipotesi di instaurazione del giudizio secondo il rito ordinario e quella in cui la domanda sia proposta innanzi al giudice di pace.

Con riferimento alla prima, la soluzione preferibile è quella che porta a considerare idonea a produrre la salvezza degli effetti della domanda anche la citazione notificata erroneamente, al posto del deposito del ricorso, purché depositata entro il limite dei novanta giorni al fine di rispettare la lettera della norma, ma soprattutto in applicazione di un noto orientamento giurisprudenziale che afferma l’equivalenza della citazione al ricorso e viceversa, tutte le volte in cui siano comunque rispettati i termini che la legge pone per lo svolgimento delle attività che, in base al rito di volta in volta previsto, sono necessarie ai fini dell’instaurazione del processo o della sua riassunzione. In ogni caso, resterebbe fermo il potere del giudice adito con le forme del rito ordinario, di disporre la conversione ai sensi dell’art. 183-bis c.p.c (Cass. 19 settembre 2017, n. 21671; Cass. 29 dicembre 2016, n. 27343; Cass. 17 gennaio 2017, n. 1020).

Con riferimento alla seconda, deve ritenersi che il giudice di pace non possa essere adito con il rito sommario di cognizione, poiché il combinato degli art. 702-bis, comma 1 e 702-ter, comma 1 c.p.c., che riservano tale rito al tribunale in composizione monocratica, non lo consentono.

La scelta di prevedere il ricorso ex art. 702-bis c.p.c. si presta ad ulteriori osservazioni.

Per cominciare, la reintroduzione di un procedimento, comporta l’assegnazione dei termini a difesa, in relazione a domande che, salvo particolarità emersa dalla CTU, sono perfettamente note alle parti e sulle quali le stesse hanno già ampiamente svolto le proprie difese, costituendosi nella prima fase a cognizione ordinaria. Per la stessa ragione, comporta che le parti debbano depositare nuovi atti difensivi, richiamandosi senza eccezioni il procedimento sommario di cognizione nei suoi vari passaggi. L’assegnazione di nuovi termini, comporta però anche che la parte originariamente convenuta che abbia deciso di rimanere contumace in quella fase, possa ora costituirsi senza subire alcuna preclusione e svolgere integralmente le proprie difese, ovvero ancora svolgere difese diverse da quelle svolte nel primo giudizio.

Infine, in assenza di contrarie indicazioni, il paradosso è che in tal modo residua in ogni caso la possibilità che il giudice, ritenuta la necessità di un’istruzione non sommaria, disponga comunque il mutamento di rito, da sommario ad ordinario, ai sensi dell’art. 702 ter c.p.c.

Una volta instaurato correttamente il processo, “ciascuna parte può chiedere che la relazione depositata dal consulente sia acquisita agli atti del successivo giudizio di merito” (art. 696-bis, comma 5, c.p.c.).

Stando al tenore letterale della norma, occorrerebbe una esplicita istanza di parte, che, quindi, svolge la funzione di veicolo necessario e sufficiente per l’ingresso dei risultati della consulenza nel processo. Tale orientamento non dovrebbe potere essere ripetuto pedissequamente nella materia della responsabilità in esame. Infatti, se si affermasse che l’istanza di acquisizione in giudizio della relazione peritale costituisca mero atto di impulso, necessario dal momento che in mancanza l’acquisizione non potrebbe avvenire in maniera automatica, ma non sufficiente a ritenere utilizzabile la relazione prima che il giudice ne valuti l’ammissibilità, si finirebbe per svalutare del tutto la ratio della riforma, che, invece, fa leva proprio sul vantaggio istruttorio costituito dalla trasponibilità in sede giudiziale dei risultati tecnici del procedimento preventivo.

Infine, va sottolineato che il mancato richiamo dell’art. 200 c.p.c. relativo all’ipotesi di fallimento del tentativo di conciliazione, comporta che le dichiarazioni delle parti riportate dal consulente nella relazione non possano essere valutate dal giudice a norma dell’art. 116, comma 2 c.p.c.

8. L’inosservanza della condizione di procedibilità: conseguenze.

Ai sensi dell’art. 8, comma 2, legge 24/2017 “L’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Il giudice, ove rilevi che il procedimento di cui all’articolo 696-bis del codice di procedura civile non è stato espletato ovvero che è iniziato ma non si è concluso, assegna alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione dinanzi a sé dell’istanza di consulenza tecnica in via preventiva ovvero di completamento del procedimento”.

Il meccanismo è riferito normativamente al solo procedimento di consulenza tecnica preventiva; il che sembra il frutto di una svista, dal momento che qui l’esperimento del procedimento non è previsto in via esclusiva, bensì in alternativa al quello di mediazione. Dunque, andando oltre la lettera della legge, si dovrebbe correttamente affermare che il termine possa alternativamente essere assegnato per la presentazione dell’istanza ex art. 696-bis c.p.c. innanzi allo stesso giudice oppure per la presentazione dell’istanza di mediazione ex art. 5, comma 1-bis, d.lgs. n. 28/2010 innanzi ad un organismo di mediazione competente.

Pertanto, instaurato il processo senza l’osservanza della condizione di nessuna delle due condizioni stabilite come obbligatorie e rilevata d’ufficio o eccepita dal convenuto l’omissione entro la prima udienza, il giudice si trova di fronte alla necessità di assegnare alle parti il termine di quindici giorni per lo svolgimento dell’attività omessa.

Una volta concluso, evidentemente senza successo, il tentativo di conciliazione il processo può riprendere il suo iter. Non c’è alcuna attività di riassunzione da compiere perché il processo non viene né interrotto, né sospeso a seguito del rilievo dell’omissione.

Una volta divenuta procedibile la domanda, deve ritenersi che, essendo già stato promosso il processo secondo determinate forme quelle del rito ordinario di cognizione ovvero quelle del rito sommario di cognizione, con queste stesse forme esso dovrà continuare. La regola della proposizione della causa secondo le disposizione di cui agli artt. 702-bis ss. c.p.c, infatti, vale soltanto nell’ipotesi fisiologica in cui si sia scelto e sia stato preliminarmente esperito l’accertamento tecnico preventivo ex artt. 696-bis ss. c.p.c.

9. Gli obblighi di comunicazione all’esercente la professione sanitaria.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1, legge 24/2017, le strutture sanitarie e le imprese di assicurazione hanno l’obbligo di comunicare all’esercente la professione sanitaria sia l’avvio di trattative stragiudiziali con il danneggiato, con invito a prendervi parte, sia l’instaurazione del giudizio promosso nei loro confronti dal danneggiato, entro dieci giorni dalla ricezione della notifica dell’atto introduttivo, mediante posta elettronica certificata o lettera raccomandata con avviso di ricevimento contenente copia dell’atto introduttivo.

Il contenuto della disposizione, in primo luogo, incide sul problema della individuazione dei soggetti chiamati a partecipare alla procedura stragiudiziale sia essa la mediazione ovvero la consulenza tecnica preventiva; in secondo luogo, porta ad interrogarsi circa la natura e gli effetti dell’invito rivolto al professionista; in terzo luogo, riguarda i presupposti di ammissibilità delle azioni di rivalsa o di responsabilità amministrativa, di cui all’art. 9.

Sotto il primo profilo, valga quanto già detto cui si può aggiungere che la previsione di un mero invito alla partecipazione dovrebbe confermare che la partecipazione più ampia è un fatto di opportunità e non di necessità. In mancanza, si ricorderà, l’azione di rivalsa può essere esercitata soltanto successivamente al risarcimento avvenuto sulla base di titolo giudiziale o stragiudiziale ed è esercitata, a pena di decadenza, entro un anno dall’avvenuto pagamento (art. 9, comma 2, legge 24/2017). Inoltre, la transazione raggiunta in assenza del professionista non è a lui opponibile nello stesso giudizio di rivalsa (art. 9, comma 4, legge 24/2017).

Sotto il secondo profilo, sembra che l’invito valga come mera denuntiatio litis e non come chiamata in causa con proposizione di apposita domanda.

Sotto il terzo profilo, l’esercizio tempestivo e completo dell’invito rivolto al professionista rientra tra i presupposti per l’ammissibilità delle azioni di rivalsa o di responsabilità amministrativa di cui all’art. 9. L’indicazione di precise forme per l’inoltro dell’invito non dovrebbe escludere che, ove il professionista partecipi ugualmente al procedimento o si costituisca in giudizio, l’eventuale inosservanza di esse venga sanata.

10. Le azioni esperibili.

Esaminati i due filtri di procedibilità nei loro profili formali e sostanziali, è possibile proseguire la trattazione con l’esposizione delle ulteriori novità introdotte dalla Legge Gelli, la quale ha previsto un sistema di azioni di diversa natura e con diverso oggetto esperibili a seguito del verificarsi dell’episodio causativo del danno. In particolare, il soggetto leso o i suoi congiunti in caso di morte, può ovvero possono proporre domanda giudiziale volta ad ottenere il risarcimento dei danni:

a) nei confronti della struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, “nell’adempimento della propria obbligazione”, si sia avvalsa “dell’opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa”, la quale “risponde, ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile, delle loro condotte dolose o colpose”. Tale disposizione, ossia l’art. 7 comma 1, “si applica anche alle prestazioni sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria ovvero nell’ambito di attività di sperimentazione e di ricerca clinica ovvero in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale nonché attraverso la telemedicina” (art. 7, comma 2) c.d. azione diretta, nella quale sono litisconsorti necessari ex lege la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata (se l’azione è stata promossa contro l’impresa di assicurazione di questa) e l’esercente la professione sanitaria (se l’azione è stata promossa contro l’impresa di assicurazione di questo) e per l’esercizio della quale è previsto il termine di prescrizione pari a quello dell’azione verso la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata o l’esercente la professione sanitaria (art. 12, commi 4 e 5);

b) nei confronti dell’ “esercente la professione sanitaria di cui ai commi 1 e 2”, il quale “risponde del proprio operato ai sensi dell’articolo 2043 del codice civile” (art. 7, comma 3);

c) nei confronti del medesimo esercente nell’ipotesi in cui “abbia agito nell’adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente” (art. 7, comma 3);

d) nei confronti dell’impresa di assicurazione della struttura ovvero dell’esercente, “entro i limiti delle somme per le quali è stato stipulato il contratto di assicurazione” (art. 12, comma 1).

Pertanto, come osservato, prima della proposizione della domanda risarcitoria, quale che sia il soggetto convenuto in giudizio e il titolo contrattuale o extracontrattuale della responsabilità invocato, è obbligatorio esperire uno dei filtri di procedibilità sin qui descritti a fini conciliativi.

Il novero delle azioni proponibili si arricchisce, poi, delle seguenti:

e) giudizio di rivalsa promosso dall’impresa di assicurazione contro l’esercente la professione sanitaria in caso di dolo o colpa grave (art. 9, comma 1);

f) giudizio di responsabilità amministrativa, proponibile per dolo o colpa grave, nei confronti dell’esercente la professione sanitaria, da parte del pubblico ministero presso la Corte dei conti in caso di accoglimento della domanda di risarcimento proposta dal danneggiato nei confronti della struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica (art. 9, comma 5);

g) giudizio di regresso promosso dal Fondo di garanzia – istituito, nello stato di previsione del Ministero della salute per i danni derivanti da responsabilità sanitaria, alimentato dal versamento di un contributo annuale dovuto dalle imprese autorizzate all’esercizio delle assicurazioni per la responsabilità civile per i danni causati da responsabilità sanitaria – nei confronti del responsabile del sinistro (art. 14).

Con riferimento a tali azioni sono doverose alcune precisazioni, seppur brevi. Come innanzi anticipato, ai sensi dell’art. 9, comma 2, se l’esercente la professione sanitaria non è stato parte della procedura stragiudiziale di risarcimento del danno, l’azione di rivalsa nei suoi confronti può essere esercitata soltanto successivamente al risarcimento avvenuto sulla base del titolo stragiudiziale ed è esercitata, a pena di decadenza, entro un anno dall’avvenuto pagamento. Qui va aggiunto che la medesima previsione vale nell’ipotesi che l’esercente non abbia partecipato al giudizio. Ove si verifichi questa ipotesi, inoltre, la decisione pronunciata nel giudizio promosso contro l’impresa di assicurazione (o anche contro la struttura sanitaria o sociosanitaria) non fa stato nel giudizio di rivalsa (art. 9, comma 3). Così, “In nessun caso la transazione è opponibile all’esercente la professione sanitaria nel giudizio di rivalsa” (l’art. 9, comma 4). Se, invece, “nel giudizio instaurato dal danneggiato nei confronti della struttura sanitaria o sociosanitaria o dell’impresa di assicurazione” l’esercente la professione sanitaria è stato parte, nel giudizio di rivalsa il giudice può desumere argomenti di prova dalle prove ivi assunte (art. 9, comma 7). Infine, ai sensi dell’art. 9, comma 6, “In caso di accoglimento della domanda proposta dal danneggiato nei confronti della struttura sanitaria o sociosanitaria privata o nei confronti dell’impresa di assicurazione titolare di polizza con la medesima struttura, la misura della rivalsa e quella della surrogazione richiesta dall’impresa di assicurazione, ai sensi dell’articolo 1916, primo comma, del codice civile, per singolo evento, in caso di colpa grave, non possono superare una somma pari al triplo del valore maggiore del reddito professionale, ivi compresa la retribuzione lorda, conseguito nell’anno di inizio della condotta causa dell’evento o nell’anno immediatamente precedente o successivo. Il limite alla misura della rivalsa, di cui al periodo precedente, non si applica nei confronti degli esercenti la professione sanitaria di cui all’articolo 10, comma 2”. Ai sensi dell’art. 9, comma 5, “Ai fini della quantificazione del danno, fermo restando quanto previsto dall’articolo 1, comma 1-bis, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, e dall’articolo 52, secondo comma, del testo unico di cui al regio decreto 12 luglio 1934, n. 1214, si tiene conto delle situazioni di fatto di particolare difficoltà, anche di natura organizzativa, della struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica, in cui l’esercente la professione sanitaria ha operato. L’importo della condanna per la responsabilità amministrativa e della surrogazione di cui all’articolo 1916, primo comma, del codice civile, per singolo evento, in caso di colpa grave, non può superare una somma pari al triplo del valore maggiore della retribuzione lorda o del corrispettivo convenzionale conseguiti nell’anno di inizio della condotta causa dell’evento o nell’anno immediatamente precedente o successivo. Per i tre anni successivi al passaggio in giudicato della decisione di accoglimento della domanda di risarcimento proposta dal danneggiato, l’esercente la professione sanitaria, nell’ambito delle strutture sanitarie o sociosanitarie pubbliche, non può essere preposto ad incarichi professionali superiori rispetto a quelli ricoperti e il giudicato costituisce oggetto di specifica valutazione da parte dei commissari nei pubblici concorsi per incarichi superiori”. Anche nel giudizio di responsabilità amministrativa il giudice può desumere argomenti di prova dalle prove assunte nel giudizio instaurato dal danneggiato nei confronti della struttura sanitaria o sociosanitaria o dell’impresa di assicurazione se l’esercente la professione sanitaria ne è stato parte (art. 9, comma 7).

Ai sensi dell’art. 14, comma 7, “Il Fondo di garanzia di cui al comma 1 risarcisce i danni cagionati da responsabilità sanitaria nei seguenti casi: a) qualora il danno sia di importo eccedente rispetto ai massimali previsti dai contratti di assicurazione stipulati dalla struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata ovvero dall’esercente la professione sanitaria ai sensi del decreto di cui all’articolo 10, comma 6; b) qualora la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata ovvero l’esercente la professione sanitaria risultino assicurati presso un’impresa che al momento del sinistro si trovi in stato di insolvenza o di liquidazione coatta amministrativa o vi venga posta successivamente; c) qualora la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata ovvero l’esercente la professione sanitaria siano sprovvisti di copertura assicurativa per recesso unilaterale dell’impresa assicuratrice ovvero per la sopravvenuta inesistenza o cancellazione dall’albo dell’impresa assicuratrice stessa”.

Rispetto a questo secondo gruppo di azioni, non v’è alcuna necessità di promuovere il tentativo di conciliazione in via preliminare, poiché l’art. 8 legge 24/2017 si riferisce alla sola “azione innanzi al giudice civile relativa a una controversia di risarcimento del danno derivante da responsabilità sanitaria”.

Nei paragrafi che seguono, si guarderà all’incidenza della riforma sulla distribuzione e sul contenuto dell’onere della prova nelle prime due azioni rientranti nel primo gruppo, vale a dire quella contrattuale che il danneggiato può promuovere nei confronti della struttura sanitaria oppure del medico con il quale abbia eventualmente stipulato uno specifico contratto di prestazione d’opera professionale, nonché quella che il paziente può promuovere, sempre nei confronti del medico, ma a titolo di responsabilità extracontrattuale.

11. L’azione di responsabilità contrattuale nei confronti della struttura sanitaria e quella extra-contrattuale nei confronti del medico.

Con riferimento al medico dipendente, una storica pronuncia dei giudici di legittimità del 1999 (Cass. 22 gennaio 1999, n. 589), inserendosi in un vivace contrasto, consacrò il titolo della responsabilità riportandolo nell’alveo di quella contrattuale, ma valorizzando la assoluta peculiarità del rapporto da questo instaurato con il paziente sul piano non solo professionale, ma anche sociale. Per la Cassazione, la natura contrattuale doveva affermarsi non già per l’esistenza di un pregresso rapporto obbligatorio insorto tra le parti, bensì, in virtù di un rapporto di fatto originato dal contatto sociale.

La responsabilità della struttura sanitaria, da ben prima dell’avvento delle due principali riforme degli ultimi anni (legge 189/2012 e legge 24/2017), è stata pressoché pacificamente ricondotta all’inadempimento di una obbligazione contrattuale, sia pure del tutto autonoma da quella del professionista.

In particolare, secondo gli Ermellini, il complesso rapporto che si instaura tra la struttura e il paziente, anche nell’ipotesi in cui quest’ultimo scelga al di fuori della struttura sanitaria il medico curante, non si esaurisce nella mera fornitura di prestazioni di natura alberghiera (somministrazione di vitto e alloggio), ma consiste nella messa a disposizione del personale medico ausiliario e di quello paramedico nonché nell’apprestamento dei medicinali e di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicanze, essendo perciò configurabile una responsabilità autonoma e diretta della casa di cura ove il danno subìto dal paziente risulti causalmente riconducibile ad una inadempienza alle obbligazioni ad essa facenti carico (Cass., Sez. Unite., 1 luglio 2002, n. 9556). Tale rapporto assume la forma di un contratto a prestazioni corrispettive che prende il nome di contratto di spedalità o di assistenza sanitaria e che produce effetti protettivi nei confronti del terzo. Ne consegue che la responsabilità della struttura nei confronti del paziente rientra nell’alveo dell’art. 1218 c.c., ma anche in quello dell’art. 1228 c.c., poiché ricomprende l’inadempimento della prestazione medico-professionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario necessario pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e la sua organizzazione aziendale, non rilevando in contrario al riguardo la circostanza che il sanitario risulti essere anche di fiducia dello stesso paziente, o comunque dal medesimo scelto (Cass. 22 settembre 2015, n. 18610; Cass. 28 novembre 2007, n. 24742; Cass. 26 gennaio 2006, n. 1698; Trib. Milano 29 ottobre 2015; Corte d’App. Roma 10 gennaio 2012).

Il quadro appena delineato sia pur per brevi cenni, era stato messo in discussione dalla previsione contenuta nella legge 189/2012 (cd. legge Balduzzi), il cui art. 3, comma 1 aveva ambiguamente stabilito che: “L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo”. L’ambiguità del dettato normativo si coglieva sotto due aspetti principali: per un verso, il riferimento all’art. 2043 c.c., non sufficientemente chiaro nel senso di una riqualificazione in termini extracontrattuali della responsabilità del professionista, come sembrava suggerire la finalità generale della riforma, volta a ridimensionare gli effetti negativi del progressivo dilagare del fenomeno cd. della medicina difensiva (cfr. Trib. Torino 26 febbraio 2013), oppure nel senso di una mera conferma della clausola generale del neminem laedere con riguardo al diritto umano inviolabile alla salute e dell’obbligo risarcitorio conseguente alla sua lesione, nel senso che il richiamo all’art. 2043 cc operato dall’art. 3, comma 1, ha inteso innovare il diritto vivente, stabilendo che il medico e la struttura sanitaria, ove non agiscano quali controparti contrattuali, rispondono dei danni che cagionano ai pazienti a titolo di responsabilità aquiliana, e non secondo lo schema della responsabilità contrattuale da contatto sociale (cfr. Trib. Milano 23 luglio 2014); per un altro verso, il rinvio alle linee guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, insufficiente tanto a definire un criterio di vera e propria depenalizzazione della colpa lieve del medico quanto a delineare una condotta rilevante solo sul piano della quantificazione risarcitoria (cfr. Trib. Pisa 10 giungo 2015, secondo cui la legge 189/2012, nell’escludere la responsabilità medica in sede penale, se l’esercente dell’attività sanitaria si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, fermo comunque l’obbligo di cui all’art. 2043 cc, non ha inteso disciplinare la responsabilità civile e non ha inteso escludere che, nell’ambito civilistico, il medico risponda a titolo (anche) contrattuale; il richiamo dell’art. 2043 cc si giustifica in quanto, trattando delle conseguenze civili di un illecito penale, non può che farsi riferimento alla responsabilità per fatto illecito (perché tale è la responsabilità civile da reato) essendo ormai acquisito che in materia di responsabilità medica vi è un concorso di azioni, contrattuale ed extracontrattuale, la disposizione è estrinseca alla prima di tali azioni e non vale certo a escluderne la configurabilità).

La riforma del 2017 ha tentato di riportare ordine nel sistema della responsabilità in materia sanitaria e medica, istituendo un cd. “doppio binario”, che, come già detto, vede la struttura sanitaria rispondere a titolo contrattuale ex artt. 1218 e 1228 c.c. ed il professionista a titolo extracontrattuale ex art. 2043 c.c.

L’esercente in questo modo si vede, almeno sulla carta, più protetto, date le maggiori difficoltà sul piano probatorio connesse alla azione extracontrattuale eventualmente promossa nei suoi confronti dal paziente. Peraltro, anche sul piano penale si coglie l’effetto deterrente del nuovo regime, dovendosi ormai ritenere egli non punibile – sebbene sotto il solo profilo della imperizia – ricorrendo le condizioni previste dal nuovo art. 590-sexies c.p. (rispetto delle linee guida o, in mancanza, delle buone pratiche clinico-assistenziali, adeguate alla specificità del caso), indipendentemente dal grado della colpa, essendo compatibile il rispetto delle stesse linee guide e delle buone pratiche con la condotta imperita nell’applicazione delle stesse (Cass. pen., sez. IV, 19 ottobre 2017, n. 50078; Cass. Sez.Un. n. 8770/2018).

12. Oneri di allegazione e prova nell’azione di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale.

L’inquadramento della condotta nell’alveo della responsabilità contrattuale ovvero in quello della responsabilità extracontrattuale comporta conseguenze di non poco momento per ciò che concerne la distribuzione dell’onere probatorio. In un caso l’assenza di colpa integra un fatto impeditivo che spetta al convenuto provare (art. 1218 c.c.); nell’altro la colpa funziona come fatto costitutivo il cui onere è a carico dell’attore (art. 2043 c.c.). Nel campo della responsabilità sanitaria e medica questo schema apparentemente semplice e con esso l’applicazione concreta della regola di giudizio di cui all’art. 2697 c.c. è stato oggetto di molteplici interventi giurisprudenziali in concomitanza con l’evoluzione del dibattito circa la natura della responsabilità.

Nel 2001 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass., Sez. Un., 30 ottobre 2001 n. 13533) nel risolvere un contrasto in materia di inadempimento contrattuale tra un orientamento maggioritario che diversificava il regime probatorio laddove il creditore agisse per l’adempimento e ritenendo, nel qual caso, sufficiente la prova della fonte del diritto vantato ovvero per la risoluzione affermando la necessità della prova non solo del titolo, ma anche dell’inadempimento integrante anch’esso il fatto costitutivo della pretesa ed un altro orientamento minoritario tendente ad unificare il regime probatorio gravante sul creditore senza distinguere tra azione di adempimento, risoluzione o azione risarcitoria – sufficiente in ogni caso, la prova della fonte dell’obbligazione asseritamente inadempiuta e spettando, invece, al debitore provare il fatto estintivo dell’avvenuto adempimento – avevano affermato che il creditore che agisce in giudizio, sia per l’adempimento del contratto sia per la risoluzione ed il risarcimento del danno, deve fornire la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto limitandosi ad allegare l’inadempimento della controparte su cui incombe l’onere della dimostrazione del fatto estintivo costituito dall’adempimento con la precisazione che, ove si tratti inadempimento di obbligazioni negative, la prova dell’inadempimento è sempre a carico del creditore anche nel caso in cui agisca per l’adempimento e non per la risoluzione o il risarcimento.

Poco tempo dopo, la Cassazione applicò tali principi in tema di responsabilità contrattuale del professionista medico nel caso specifico responsabile di una diagnosi errata, integrante di per sé l’inadempimento, in presenza di un quadro clinico complesso per la gravità della patologia e le precarie condizioni di salute del paziente, stabilendo che la prova della mancanza di colpa per la morte del paziente dovesse essere fornita dal debitore della prestazione e che dell’eventuale situazione di incertezza sulla stessa si deve giovare il creditore e non il debitore (Cass. 4 marzo 2004, n. 4400).

E poi ancora, in un altro caso, ribadì che il paziente che agisce in giudizio deducendo l’inesatto adempimento dell’obbligazione sanitaria deve provare il contratto e/o il contatto con il professionista e allegare l’inadempimento di quest’ultimo, che consiste nell’aggravamento della situazione patologica o nell’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento, restando a carico dell’obbligato – il sanitario ovvero la struttura presso cui egli opera – la prova che la prestazione sia stata eseguita in modo diligente e che gli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile (Cass. 28 maggio 2004, n. 10297; Cass. 21 giugno 2004, n. 11488 che, considerando come inadempimento contrattuale l’omessa diagnosi di gravi malformazioni del feto da parte del medico ecografista, ha affermato che non compete alla gestante la prova della gravità della colpa del medico, ma spetta a quest’ultimo provare che l’impossibilità della prestazione sia derivata da causa a lui non imputabile; Cass. 20 marzo 2015, n. 5590)

Se in queste e nelle immediatamente successive applicazioni giurisprudenziali, al soggetto convenuto veniva addebitato il duplice onere di dimostrare la propria diligenza e l’imprevedibilità dell’evento, tuttavia, a carico del soggetto danneggiato si continuò per qualche tempo ad addebitare la prova del nesso causale tra evento e danno, vale a dire la dimostrazione dell’inserimento dell’esecuzione del rapporto curativo, articolata con comportamenti positivi ed eventualmente omissivi, nella serie causale che ha condotto all’evento di preteso danno, rappresentato o dalla persistenza della patologia per cui si era richiesta la prestazione o dal suo aggravamento o dall’insorgenza di una nuova patologia che non era quella con cui il rapporto era iniziato (Cass. 19 aprile 2006, n. 9085; Cass. 11 novembre 2005, n. 22894).

Nel 2008, un ulteriore arresto delle Sezioni Unite della Cassazione contribuì ad alleggerire ulteriormente l’onere probatorio del paziente, confermando che a quest’ultimo spettasse provare soltanto il contratto relativo alla prestazione sanitaria e il danno, mentre ai debitori l’insussistenza dell’inadempimento, aggiungendo anche a carico di questi ultimi il compito di dimostrare, in caso di sussistenza dell’inadempimento, l’assenza o l’irrilevanza del nesso causale (Cass., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 577). In tal caso, l’attenzione si è spostata dal contenuto degli oneri probatori a quello degli oneri di allegazione, richiedendosi da parte di una certa giurisprudenza di merito una precisa e dettagliata indicazione nell’atto introduttivo dei profili concreti della colpa medica posti a fondamento dell’azione risarcitoria. La Cassazione, però, ha meglio definito i limiti dell’attività assertiva richiesta, affermando che l’onere dell’attore non si spinge fino alla necessità di enucleare ed indicare specifici e peculiari aspetti tecnici di responsabilità professionale, conosciuti e conoscibili soltanto agli esperti del settore, essendo sufficiente la contestazione dell’aspetto colposo dell’attività medica secondo quelle che si ritengono essere, in un dato momento storico, le cognizioni ordinarie di un professionista che, se disattese, determinano casi di negligenza, intesa come violazione di regole sociali e non solo come mera disattenzione; imprudenza, intesa come violazione delle modalità imposte dalle regole sociali per l’espletamento di certe attività ed imperizia intesa come violazione delle regole tecniche di settori determinati della vita di relazione e non più solo come insufficiente attitudine all’esercizio di arti e professioni. Vanno altresì richiamati ed applicati, onde poter valutare i comportamenti contrattuali, i principi riguardanti la diligenza nell’adempimento ex art. 1176, comma 2 c.c., con riguardo alla natura dell’attività esercitata e la disposizione contenuta nell’art. 2236 c.c. in virtù della quale, se la prestazione implica la soluzione di problemi di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo e colpa grave.

Partendo da tali premesse, si ritiene che il giudice non sia rigidamente vincolato alle iniziali prospettazioni dell’attore, stante la inesigibilità della individuazione ex ante di specifici elementi tecnico-scientifici di norma acquisibili solo all’esito dell’istruttoria e dell’espletamento di una Ctu potendo, pertanto, accogliere la domanda nei confronti della struttura in base al concreto riscontro di profili di responsabilità diversi da quelli in origine ipotizzati, senza violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (Cass. 20 marzo 2018, n. 6850).

In merito al nesso causale tra condotta del medico, meglio, tra azione od omissione dello stesso ed evento lesivo, la giurisprudenza penale è intervenuta con la celebre e fondamentale sentenza, Cassazione penale, Sezioni Unite, 10 luglio 2002 n. 30328, stabilendo il criterio di cui deve tenersi conto al fine di individuare tale nesso di causalità. Per la Corte, in estrema sintesi, il collegamento eziologico nel processo penale sussisterà tutte quelle volte in cui, in base alle circostanze di fatto ed esclusa l’interferenza di fattori alternativi, risulti processualmente certo che la condotta omissiva del medico sia stata condizione necessaria dell’evento “con alto o elevato grado di credibilità razionale” o “probabilità logica”, ovvero “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Per l’accertamento del nesso causale in materia civile, invece, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi vige la regola ispirata al principio della normalità causale della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”, caratterizzata, dunque, dall’accedere ad una soglia meno elevata di probabilità rispetto a quella penale, con la conseguenza che l’accertamento della responsabilità del sanitario in sede penale è molto più difficile rispetto al giudizio civile, dove, in sostanza e per semplificare, è sufficiente accertare che la condotta, commissiva od omissiva, del medico si pone come causa dell’evento secondo un criterio probabilistico del 51 per cento (Cass. 20 febbraio 2018, n. 4020; Cass., Sez. Un., 11 gennaio 2008 n. 576; Cass., 17 giugno 2016, n. 12516; Cass., n. 15993/2011; Cass., 577/2008; Cass., n. 6537/2006).

Laddove, l’esercente la professione sanitaria debba rispondere del proprio operato ai sensi dell’art. 2043 c.c.., sul piano dell’onere probatorio in capo al medico si assisterà ad un alleggerimento.

Infatti, l’onere della prova nella responsabilità extracontrattuale si concentra prevalentemente sul danneggiato: sarà costui a dover provare il rapporto di causalità: la condotta antigiuridica, l’evento dannoso ed il nesso di causalità tra condotta e danno e la diligenza del medico trasgredita.

13. Le linee guida e le buone pratiche clinico assistenziali.

Fermo quanto sopra, la distribuzione degli oneri probatori non può non tenere conto della rilevanza definitivamente acquisita dalle cd. linee guida e dalle cd. buone pratiche clinico-assistenziali nella valutazione della imperizia imputata dal paziente al professionista con la richiesta risarcitoria.

Ad esse già si riferiva l’art. 3, comma 1 Legge Balduzzi la quale stabiliva che dalla loro osservanza scaturisse la non punibilità dell’esercente la professione sanitaria per colpa lieve e che, nella determinazione del risarcimento del danno, il giudice tenesse debitamente conto della condotta osservante. Tuttavia, non aveva precisato quale fosse e, soprattutto, se vi fosse una fonte ufficiale alla quale attingere per la loro individuazione. Ciò aveva favorito il moltiplicarsi delle fonti non tutte riconosciute dalla comunità scientifica e/o dal Ministero della Salute.

La legge 24/2017, che ha abrogato l’art. 3, comma 1, cit., ha riproposto le linee guida come criterio di valutazione della responsabilità, ma in maniera decisamente più strutturata.

In primo luogo, l’art. 3 ha previsto l’istituzione presso l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas) dell’Osservatorio nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanità entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge, con decreto del Ministro della salute, previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano. L’Osservatorio acquisisce dai Centri per la gestione del rischio sanitario e la sicurezza del paziente, i dati regionali relativi ai rischi ed eventi avversi nonché alle cause, all’entità, alla frequenza e all’onere finanziario del contenzioso e, anche mediante la predisposizione, con l’ausilio delle società scientifiche e delle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie, di linee di indirizzo, individua idonee misure per la prevenzione e la gestione del rischio sanitario e il monitoraggio delle buone pratiche per la sicurezza delle cure nonché per la formazione e l’aggiornamento del personale esercente le professioni sanitarie. In data 29 settembre 2017 il Ministero della Salute ha provveduto a rendere operativa questa disposizione.

In secondo luogo, ai sensi dell’art. 5, comma 1, gli esercenti le professioni sanitarie nell’esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale, “si attengono, salve le specificità del caso concreto, alle raccomandazioni previste dalle linee guida pubblicate ai sensi del comma 3 ed elaborate da enti e istituzioni pubblici e privati nonché dalle società scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie iscritte in apposito elenco istituito e regolamentato con decreto del Ministro della salute, da emanare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, e da aggiornare con cadenza biennale. In mancanza delle suddette raccomandazioni, gli esercenti le professioni sanitarie si attengono alle buone pratiche clinico-assistenziali”. Il comma 3 poi stabilisce che “Le linee guida e gli aggiornamenti delle stesse elaborati dai soggetti di cui al comma 1 sono integrati nel Sistema nazionale per le linee guida (Snlg), il quale è disciplinato nei compiti e nelle funzioni con decreto del Ministro della salute, da emanare, previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, con la procedura di cui all’articolo 1, comma 28, secondo periodo, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, e successive modificazioni, entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge. L’Istituto superiore di sanità pubblica nel proprio sito internet le linee guida e gli aggiornamenti delle stesse indicati dal Snlg, previa verifica della conformità della metodologia adottata a standard definiti e resi pubblici dallo stesso Istituto, nonché della rilevanza delle evidenze scientifiche dichiarate a supporto delle raccomandazioni”. Per tali finalità, con dm 2 agosto 2017 è stato istituito presso il Ministero della salute l’elenco delle società scientifiche e delle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie e sono stati stabiliti i requisiti per l’iscrizione nell’elenco. Successivamente, con dm 27 febbraio 2018 è stato istituito il Sistema nazionale linee guida (Snlg).

In terzo luogo, come già accennato, ai sensi del nuovo art. 590-sexies, comma 2 cp, “Qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto”.

In quarto luogo, l’art. 7, comma 3, dispone che “L’esercente la professione sanitaria di cui ai commi 1 e 2 risponde del proprio operato ai sensi dell’articolo 2043 del codice civile, salvo che abbia agito nell’adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente. Il giudice, nella determinazione del risarcimento del danno, tiene conto della condotta dell’esercente la professione sanitaria ai sensi dell’articolo 5 della presente legge e dell’articolo 590-sexies del codice penale, introdotto dall’articolo 6 della presente legge”.

Da tale quadro emerge l’istituzionalizzazione delle linee guida che, pur continuando a rappresentare raccomandazioni suscettibili di continuo aggiornamento e, in quanto tali, espressione di soft law, incidono per esplicita previsione normativa sulla valutazione della condotta del professionista ai fini penali e sulla misura del risarcimento del danno.

Tale attitudine è destinata a riverberarsi, tuttavia, anche sul contenuto degli oneri probatori almeno allorquando sia fatta valere l’imperizia del professionista. Il tenore letterale dell’art. 5, comma 1, sembra piuttosto chiaro nell’individuare un preciso dovere in capo agli esercenti circa l’osservanza delle stesse utilizzando la locuzione “si attengono”. Il che si giustifica con l’utilità e l’autorevolezza delle raccomandazioni contenute nelle linee guida. Allo stesso tempo, deve riconoscersi il dovere degli esercenti di discostarsi dalle linee guida ove le specificità del caso concreto lo impongano. Esiste, peraltro, un ulteriore dovere per i professionisti che, in via sussidiaria rispetto al primo, consiste nel seguire le buone pratiche clinico-assistenziali in mancanza di linee guida corrispondenti o adeguate al caso concreto. E’ estremamente importante che le linee guida e le buone pratiche siano individuate prima dell’instaurazione del processo. La massima chiarezza in tal senso consente, infatti, di articolare in maniera meno lacunosa e per questo strategicamente più forte, gli scritti difensivi in punto di allegazioni e di prova. Altrettanto evidente, quindi, è l’importanza del ruolo che a questo fine può essere svolto dai consulenti tecnici. Sotto questo profilo, l’esperimento dell’accertamento tecnico preventivo ex art. 696-bis cpc si rivela determinante per la selezione delle linee e delle best practices confacenti al caso e così l’acquisizione in giudizio della relazione peritale ove fallisca il tentativo di conciliazione.

Ora, gli oneri di allegazione e prova con riguardo a tali fonti, certamente non del diritto, sono destinati inevitabilmente a variare a seconda del tipo di azione promossa dal paziente.

Infatti, nel giudizio di risarcimento promosso a titolo di responsabilità contrattuale, dove il paziente dovrebbe limitarsi ad allegare l’inadempimento, all’esercente dovrebbe spettare la dimostrazione dell’assenza di colpa, avendo egli tenuto una condotta corrispondente alle linee guida o alle buone pratiche stabilite in relazione al caso concreto oppure la necessità di discostarsene completamente a causa della specificità del caso concreto.

Invece, nel giudizio di risarcimento del danno promosso a titolo di responsabilità extracontrattuale, il paziente dovrebbe allegare e provare gli elementi della fattispecie e, quindi, anche la condotta che il professionista stesso avrebbe dovuto correttamente tenere in base alle linee guida tipizzate o alle buone pratiche clinico-assistenziali. Ciò detto, alcune osservazioni paiono opportune.

In primo luogo, la rilevanza delle linee guida e, in seconda battuta, alle buone pratiche si dovrebbe cogliere, stando alla lettera della legge, soltanto allorquando sia fatta valere l’imperizia del professionista. Ove mai si ammettesse una qualsiasi incidenza probatoria con riferimento alla negligenza o all’imprudenza, questa sarebbe operante comunque ad un livello diverso, ossia quale principio di prova, argomento di prova.

In secondo luogo, non è scontato che la prova fornita dal professionista di essersi attenuto alle linee guida sia di per sé sufficiente a liberarlo dalla responsabilità, non soltanto là dove emergano profili di negligenza o di imprudenza, ma anche allorquando sia dimostrata ex adverso la non adeguatezza della linea o della pratica prescelta oppure il suo mancato riconoscimento formale oppure ancora qualora resti ignota la causa che ha prodotto il danno, circostanza questa sulla quale occorrerà procedere ad un autonomo accertamento. Ciò nel senso che là dove le linee guida si adattino completamente al caso specifico e si discuta della perizia del sanitario, la prestazione del sanitario coincide con la loro osservanza, con la conseguenza che ogni qualvolta le linee guida vengano rispettate, il giudice civile dovrà necessariamente esonerare da responsabilità il medico. In tale ipotesi, infatti, il sanitario, dimostrando di aver rispettato le linee guida, ha già provato l’esattezza del suo adempimento, il quale non è costituito dal miglioramento o dal non peggioramento delle condizioni di salute del paziente, ma appunto dall’osservanza di quelle regole che la scienza medica ritiene di applicare in quella specifica situazione. Ogni eventuale accertamento sulla causa ignota che ha cagionato il danno al paziente dovrebbe, quindi, essere precluso. Appare opportuno, quindi, separare la prova dell’adempimento da quella sull’imputabilità della causa ignota. Quest’ultima dimostrazione deve, infatti, essere fornita solo e soltanto nel caso in cui il debitore non riesca a dimostrare l’esattezza della prestazione eseguita. Nei casi in cui le linee guida non siano applicabili o la contestazione mossa nei confronti del sanitario sia di negligenza e imprudenza e non di imperizia, la prova dell’esattezza dell’adempimento non potrà coincidere con la dimostrazione dell’osservanza delle linee guida. Tuttavia ogni qualvolta il sanitario riesca a dimostrare la correttezza delle ragioni che hanno escluso l’applicabilità delle linee guida allo specifico caso, si porranno le basi per verificare se vi sia stato o meno esatto adempimento.

In terzo luogo, nelle ipotesi di asserita responsabilità extracontrattuale del medico, si potrebbe dubitare circa l’operatività del criterio della vicinanza o disponibilità della prova al fine di temperare la rigidità degli oneri di allegazione e prova posti a carico del paziente. Infatti, per quanto sia certamente più prossimo alle competenze tecniche dell’esercente l’individuazione della corretta linea guida o della buona pratica più confacente, il soggetto danneggiato conserva oggi comunque la possibilità di attingere alle indicazioni ufficiali raccolte e fornite a livello ministeriale grazie al nuovo sistema di accreditamento degli enti a ciò preposti.

È anche vero, peraltro, che il ricorso a tali dati, dovendo avvenire con necessaria cognizione di causa, necessita dell’ausilio di un tecnico del quale il paziente dovrà munirsi inevitabilmente nel momento in cui decide di avanzare la pretesa risarcitoria nei confronti del professionista. A questo proposito, va ribadito il peso che la relazione peritale, già espletata in sede di tentativo di conciliazione ex art. 696 bis c.p.c. e presumibilmente assunta in giudizio è destinata ad esercitare trattandosi quasi sempre di accertare questioni di carattere altamente tecnico. Almeno sotto questo profilo, ne dovrebbe discendere una riduzione della forbice tra giudizi di responsabilità contrattuale e giudizi di responsabilità extracontrattuale quanto agli oneri probatori posti a carico del paziente.

14. Sulla quantificazione del danno.

L’espressione neminem laedere sintetizza il principio in base al quale tutti sono tenuti al dovere generale di non ledere l’altrui sfera giuridica. Tale principio è posto a fondamento della responsabilità extracontrattuale: chiunque violi il divieto del neminem laedere è obbligato al risarcimento del danno cagionato.

In generale, il concetto di danno può essere distinto in due grandi categorie: il danno evento e il danno conseguenza. La prima accezione definisce la lesione in sé di un interesse giuridicamente rilevante, mentre il danno conseguenza ricomprende le conseguenze pregiudizievoli derivanti da tale lesione che si specificano ulteriormente nelle sottocategorie di danno emergente e lucro cessante. Inoltre, il danno evento può essere attribuito all’autore sulla base del principio di imputazione, ossia dolo o colpa, diverse dal danno conseguenza che rileva soltanto secondo il principio di causalità.

Sotto un diverso profilo, il danno si distingue in danno patrimoniale e non patrimoniale.

Il primo indica qualsiasi diminuzione del patrimonio del soggetto leso che sia conseguenza di una condotta colpevole del terzo, vale a dire un’entità accertabile di sottrazione al patrimonio del danneggiato nella sua composizione al momento dell’azione dannosa. Ai sensi dell’art. 1223 c.c., il danno patrimoniale si compone del danno emergente e del lucro cessante, consistendo rispettivamente nella perdita della possibilità di conseguire il bene desiderato e nella violazione dell’interesse a conservare gli altri beni che integrano il patrimonio del danneggiato e nell’incremento che il danneggiato avrebbe potuto conseguire in assenza del fatto illecito. Il primo pilastro dell’accertamento del danno patrimoniale consiste nella necessità, affinché sia configurabile il risarcimento, che il danno sia ricollegabile, con nesso di causalità immediato e diretto, al fatto illecito. Il secondo pilastro dell’accertamento del danno patrimoniale è costituito dall’art. 1226 cod. civ., che prevede la liquidazione in via equitativa da parte del giudice quando il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare. La corretta applicazione di tale disposizione necessita di tre condizioni fondamentali:
1) la liquidazione del danno deve essere impossibile o comunque estremamente difficoltosa;
2) tale impossibilità o difficoltà deve essere oggettiva, ossia non deve dipendere dalla negligenza del danneggiato, che non fornisce supporti probatori di alcun tipo in merito al danno;
3) la liquidazione equitativa deve essere motivata, ossia deve essere indicato il criterio valutativo che il giudice ha utilizzato per quantificare il danno.

Il terzo pilastro dell’accertamento del danno patrimoniale è rappresentato dall’art. 1227 c.c. e concerne il concorso di colpa della vittima, elemento che incide sul danno patrimoniale. Se la vittima tiene una condotta colposa che limita la responsabilità dell’offensore, questa circostanza è rilevabile d’ufficio perché il nesso di causa tra la condotta illecita e l’evento di danno è sempre rilevabile d’ufficio; il secondo comma disciplina l’aggravamento del danno ed afferma la regola per cui non è risarcibile l’aggravamento del danno che la vittima avrebbe potuto evitare con l’ordinaria diligenza.
Per quanto concerne il danno non patrimoniale, esso non trova definizione nel codice civile, il quale si limita a contemplarne la risarcibilità nei casi previsti dalla legge, ai sensi dell’art. 2059 cod. civ., si può genericamente affermare che tale tipologia di danno copre tutte le lesioni a diritti personali costituzionalmente tutelati, non riconducibili a danni patrimoniali, ricomprendendo le ipotesi di danno biologico, danno morale e danno esistenziale.
Dal combinato disposto delle suddette norme si evince che il danno non patrimoniale è caratterizzato dalla tipicità, in quanto è risarcibile solo nei casi determinati dalla legge.
Tale visione è stata oggetto di un’evoluzione giurisprudenziale che, in virtù di un’interpretazione costituzionalmente orientata, ha ritenuto il danno non patrimoniale applicabile non solo alle ipotesi tipiche, ma anche alle violazioni dei diritti costituzionali inerenti alla persona, configurabile solo quando vi sia una lesione dell’integrità psico fisica secondo i canoni fissati dalla scienza medica, del danno morale soggettivo tradizionalmente inteso il cui ambito resta esclusivamente quello della sofferenza psichica e del patema d’animo, nonché del danno esistenziale costituito da tutti quei pregiudizi, diversi ed ulteriori, purché costituenti conseguenza della lesione di un interesse di rango costituzionale relativo alla persona. In tale prospettiva, nell’ambito dell’art. 2059 c.c. trovano collocazione e protezione tutte quelle situazioni soggettive relative a perdite non patrimoniali subite dalla persona, per fatti illeciti determinanti un danno ingiusto e per la lesione di valori costituzionalmente protetti o specificamente tutelati da leggi speciali.

Le sentenze gemelle della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 26972 – 26973 – 26974 – 26975/ 2008, hanno chiarito definitivamente quali siano le voci risarcibili di cui è possibile chiedere il ristoro in caso di lesioni alla persona. La sentenza n. 9283/2014 della Corte di Cassazione ne ha ribadito e chiarito il contenuto nei seguenti termini. La categoria del danno non patrimoniale attiene ad ipotesi di lesione di interessi inerenti alla persona, non connotati da rilevanza economica o da valore scambio ed aventi natura composita, articolandosi in una serie di aspetti o voci con funzione meramente descrittiva (danno alla vita di relazione, danno esistenziale, danno biologico, ecc.); ove essi ricorrano cumulativamente occorre, quindi, tenerne conto, in sede di liquidazione del danno, in modo unitario, al fine di evitare duplicazioni risarcitorie, fermo restando, l’obbligo del giudice di considerare tutte le peculiari modalità di atteggiarsi del danno non patrimoniale nel singolo caso, mediante la personalizzazione della liquidazione (Cass. n. 21716/2013; n. 1361/2014; S.U. n. 26972/2008). Dalla sentenza emerge che il danno non patrimoniale comprende le categorie descrittive del biologico, morale ed esistenziale, che non rappresentano pertanto voci distinte e autonome.

La definizione di danno biologico o alla salute è contenuta nel comma 2 dell’art 139 del Codice delle assicurazioni private. La disposizione, pur riferendosi alle lesioni di lieve entità (non superiori al 9% d’invalidità) causate da sinistro stradale, si applica in tutti i casi in cui il soggetto subisce danni alla salute a causa della condotta illecita altrui La norma detta i criteri necessari per quantificare le microlesioni e definisce il danno biologico come: “la lesione temporanea o permanente all’integrità psicofisica della persona, suscettibile di accertamento medico legale, che esplica un’incidenza relativa  sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito.” Criteri di liquidazione diversi sono previsti per le lesioni più gravi. La quantificazione delle macrolesioni (superiori al 9%) avviene ricorrendo alle tabelle del Tribunale di Milano, la cui applicazione è valida su tutto il territorio nazionale.

In rispetto del principio di personalizzazione del danno, la Cassazione, Sezione Terza Civile, del 20.04.2016 n. 7766 ha previsto che, in caso di lesioni riportate in conseguenza di un sinistro stradale, il risarcimento del danno biologico può essere aumentato nella misura del 30% rispetto a quanto contemplato dagli standard risarcitori.

Il danno esistenziale, definito anche danno alla vita di relazione è probabilmente il tema più controverso in caso di lesioni alla persona. La sentenza n. 336 del 13.01.2016 della Cassazione ne ha escluso l’autonomia risarcitoria affermando che: “Non è ammissibile nel nostro ordinamento l’autonoma categoria del “danno esistenziale” inteso quale pregiudizio alle attività non remunerative della persona, atteso che: ove in essa si ricomprendano i pregiudizi scaturenti dalla lesione di interessi della persona di rango costituzionale, ovvero derivanti da fatti-reato,  essi sono già risarcibili ai sensi dell’art. 2059 c.c., interpretato in modo conforme a Costituzione, con la conseguenza che la liquidazione di una ulteriore posta di danno comporterebbe una duplicazione risarcitoria, ove nel “danno esistenziale” si intendesse includere pregiudizi non lesivi di diritti inviolabili della persona, tale categoria sarebbe del tutto illegittima, posto che simili pregiudizi sono irrisarcibili, in virtù del divieto di cui all’art. 2059 c.c.”(Cass. 11 novembre 2008 n. 26972) Nella fattispecie in esame il danno esistenziale non poteva essere liquidato come voce autonoma, essendo stato già liquidato agli attori il risarcimento del danno non patrimoniale, comprensivo sia della sofferenza soggettiva che del danno costituito dalla lesione del rapporto parentelare e dal conseguente sconvolgimento dell’esistenza”.

Svolta tale doverosa premessa in termini generali, può essere affrontato il tema della determinazione dell’ammontare del risarcimento nelle controversie in ambito sanitario.

Circa il quantum risarcitorio, l’ art. 7, comma 4, prevede che il danno conseguente all’attività della struttura sanitaria o sociosanitaria, pubblica o privata, e dell’esercente la professione sanitaria è risarcito sulla base delle tabelle di cui agli artt. 138 e 139 del Codice delle Assicurazioni private (d.lgs. 209/2005), già oggetto della Legge Balduzzi e riproposte dalla Legge Gelli.

Al riguardo possono essere richiamati i principi affermati con la sentenza n. 12408 del 2011 con cui la Cassazione, Sezione Terza Civile, al fine di fornire ai giudici di merito l’indicazione di un unico valore medio di riferimento da porre a base del risarcimento del danno alla persona (c.d. uniformità pecuniaria di base), fermo restando il potere equitativo del giudice per adattare la misura del risarcimento alle circostanze del caso concreto, ha affermato la generale applicabilità delle tabelle milanesi quale valido criterio per la liquidazione equitativa del danno non patrimoniale, riconoscendone una vocazione nazionale e ferma la possibilità, in attesa dell’approvazione della tabella ministeriale, per i Tribunali, di adottare i comuni criteri risarcitori. Più precisamente si prevede nella sentenza n. 12408/2011 che “Poiché l’equità va intesa anche come parità di trattamento, la liquidazione del danno non patrimoniale alla persona da lesione dell’integrità psico-fisica presuppone l’adozione da parte di tutti i giudici di merito di parametri di valutazione uniformi che, in difetto di visioni normative (come l’art. 139 del codice delle assicurazioni private, per le lesioni di lieve entità conseguenti alla sola circolazione dei veicoli a motore e dei natanti), vanno individuati in quelli tabellari elaborati presso il tribunale di Milano, da modularsi a seconda delle circostanze del caso concreto”. Per effetto di tale pronuncia si è delineato un sistema duale: a) per quanto concerne il danno biologico da danni micropermanenti (1/9 punti di invalidità) scaturente da sinistri stradali o errori medici, si applicano le tabelle cui all’art. 139 Cod. Ass.; b) per tutti gli altri tipi di danno biologico – tutte le macropermanenti; nonché le micropermanenti causate da fatto dannoso diverso da un sinistro stradale e da un errore medico –  valgono ad oggi le tabelle c.d. milanesi, per giurisprudenza considerate come un valido parametro di riferimento.


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