La ripetizione dell’indebito

La ripetizione dell’indebito

Attraverso la previsione dell’istituto in questione, il legislatore ha predisposto uno strumento finalizzato a consentire la ripetizione delle prestazioni non dovute, permettendo così al solvens di ottenere la restituzione di quanto indebitamente pagato.

Quanto alla natura giuridica, il pagamento di indebito costituisce un fatto giuridico lecito suscettibile di costituire fonte di obbligazioni ex art. 1173 c.c., obbligando colui il quale ha ricevuto la prestazione indebita a restituirla.

Come previsto dall’art. 2033 c.c., in particolare, chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato, nonché al pagamento dei frutti e degli interessi dal giorno del pagamento, se chi lo ha ricevuto era in mala fede, oppure se questi era in buona fede, dal giorno della domanda.

Ai sensi dell’art. 2036 c.c., chi ha pagato un debito altrui, credendosi debitore in base ad un errore scusabile, può ripetere ciò che ha pagato, sempre che il creditore non si sia privato in buonafede del titolo o delle garanzie del credito; chi ha ricevuto l’indebito è anche tenuto a restituire i frutti e gli interessi dal giorno del pagamento, se era in mala fede, o dal giorno della domanda, se era in buona fede. Quando la ripetizione non è ammessa, colui che ha pagato subentra nei diritti del creditore.

Considerato il dato legislativo emerge così la distinzione tra indebito oggettivo, previsto dall’art. 2033 c.c., ed indebito soggettivo, disciplinato dall’art. 2036 c.c.

Nell’indebito oggettivo, in particolare, vanno ricomprese tutte quelle ipotesi in cui il debito non è mai esistito, sia già stato estinto con adempimento o mediante altro mezzo, ovvero sia venuto successivamente venuto meno per effetto dell’annullamento o della risoluzione del titolo che ne costituiva il fondamento.

Nell’ambito di applicazione dell’art. 2033 c.c., d’altra parte, si fa rientrare anche il caso dell’indebito soggettivo ex latere creditoris, ossia quello caratterizzato dal fatto che chi paga ha un debito nei confronti di un soggetto diverso dal destinatario del pagamento; anche in questa ipotesi, si dice, il debito non esiste.

Si definisce indebito soggettivo, invece, così come previsto dall’art. 2036 c.c., quello nel quale il debito esiste oggettivamente ma è un altro il soggetto tenuto ad effettuarne il pagamento.

Con il termine “pagamento’’ il codice intende riferirsi all’adempimento di una data prestazione, a prescindere cioè dall’oggetto che la caratterizza; per pagamento non dovuto, dunque, non deve intendersi solo quello avente ad oggetto una somma di denaro, ma più in generale qualsiasi atto di adempimento.

Il pagamento di una somma di denaro, in particolare, è regolato dagli articoli 2033 e 2036 c.c., mentre gli articoli 2037 e 2038 disciplinano l’ipotesi in cui il pagamento sia consistito nella consegna di una cosa determinata.

Secondo l’opinione dominante, anche le prestazioni di fare devono essere ricomprese nell’ambito di applicazione dell’istituto della ripetizione di indebito, con la sola particolarità che non potrà ovviamente procedersi alla restituzione della prestazione in natura, ma solo del suo valore.

Secondo parte della dottrina e della giurisprudenza, al contrario, la prestazione di fare eseguita indebitamente dovrebbe essere ricondotta alla nozione di ingiustificato arricchimento, e non invece a quella di ripetizione di indebito.

Tale opinione risulta tuttavia difficilmente condivisibile stante la diversità dei due rimedi in parola:  occorre considerare, infatti, che la normativa in tema di arricchimento senza giusta causa non consente una completa tutela del solvens, in quanto presuppone che all’impoverimento dell’agente sia correlato l’arricchimento del destinatario della prestazione, mentre per l’esercizio dell’azione di ripetizione dell’indebito è richiesto solo che il pagamento non sia dovuto, indipendentemente cioè dall’arricchimento di chi ha ricevuto la prestazione.

Per l’opinione dominante, tuttavia, a prescindere dalla tesi che si voglia adottare, quando la prestazione non dovuta sia consistita in una prestazione di fare, la restituzione non potrà mai prescindere dalla sussistenza di un effettivo arricchimento da parte dell’accipiens. 

In dottrina e giurisprudenza sono state elaborate varie teorie al fine di trovare una giustificazione causale all’azione di ripetizione dell’indebito.

Per la tesi dell’ingiustificato arricchimento, il fondamento dell’azione sarebbe da ricercarsi nell’ingiustificato arricchimento della controparte, la quale riceve un pagamento non dovuto.

Secondo tale interpretazione, dunque, il pagamento di indebito sarebbe solo un’ipotesi particolare di arricchimento senza giusta causa disciplinata espressamente dal legislatore, stante la particolare frequenza con la quale essa si verifica.

Tale concezione è tuttavia difficilmente condivisibile, in quanto sebbene le due azioni possano ricondursi ad un principio comune, individuato nella mancanza di una giustificazione causale dell’attribuzione, i presupposti ed i caratteri di queste sono in realtà differenti.

L’effettuazione di una prestazione non dovuta, si osserva, non sempre determina l’arricchimento della controparte; inoltre, mentre nella ripetizione dell’indebito il solvens ha diritto alla restituzione della prestazione eseguita, nell’ingiustificato arricchimento si ha diritto solo al pagamento di un indennizzo, nei limiti dell’arricchimento dell’altra parte.

D’altra parte, si dice, riconoscere nel pagamento di indebito un arricchimento senza giusta causa significa ammettere la validità del pagamento effettuato, idoneo come tale a determinare il trasferimento della proprietà della cosa consegnata, nonostante l’inesistenza della causa dell’attribuzione. Si finirebbe così per ammettere nel nostro ordinamento l’esistenza di negozi di trasferimento astratti, in contrasto con il principio di causalità dei negozi giuridici.

Accanto alla teoria dell’ingiustificato arricchimento si colloca quella della nullità del pagamento, secondo la quale l’azione di ripetizione dell’indebito discenderebbe dalla nullità del pagamento per mancanza della causa solvendi. 

Per tale impostazione, infatti, l’inesistenza oggettiva o soggettiva del debito priva di giustificazione causale il pagamento, che deve di conseguenza ritenersi nullo per mancanza di un elemento essenziale, ex art. 1325 c.c., quale appunto la causa.

Anche tale interpretazione non risulta esente da critiche: in primo luogo, si dice, essa presuppone la considerazione dell’atto di adempimento quale vero e proprio negozio giuridico, mentre ciò non è affatto pacifico in dottrina; secondo alcuni autori, infatti, il pagamento di indebito non è un negozio giuridico, ma al contrario un mero fatto giuridico consistente nell’aver pagato senza esservi tenuto.

In secondo luogo, ammettendo la nullità del pagamento si dovrebbe pervenire ad affermare l’assoluta invalidità del trasferimento e consentire pertanto al solvens il recupero della cosa presso chiunque.

D’altra parte, si osserva, del tutto irrilevante dovrebbe essere la sussistenza di un errore scusabile: stante la nullità del pagamento, infatti, al solvens dovrebbe essere riconosciuta la facoltà di ottenere la restituzione della cosa consegnata o comunque la restituzione di quanto eseguito indebitamente, indipendentemente dalla presenza di un errore nell’esecuzione del pagamento.

Secondo le norme del codice, invece, colui il quale ha consegnato la cosa potrà ottenerne la restituzione solo da chi l’ha ricevuta, non potendo rivendicarla presso eventuali terzi acquirenti; nello stesso tempo, la restituzione di quanto pagato all’accipiens, nell’indebito soggettivo, è sottoposta alla sussistenza di un errore scusabile.

Da quanto emerge dalle disposizioni del codice, dunque, deve ritenersi che il pagamento non dovuto non sia affatto nullo, ma al contrario un atto pienamente valido ed efficace, come tale suscettibile di comportare l’effettivo trasferimento della cosa nonostante l’insussistenza del debito.

Secondo parte della dottrina, ancora, per trovare una giustificazione all’azione di ripetizione dell’indebito occorre distinguere tra indebito oggettivo ed indebito soggettivo: mentre il primo, infatti, troverebbe il suo fondamento nella mancanza del titolo che giustifica il debito, il secondo, invece, essendo caratterizzato dalla sussistenza della causa solvendi, posto che chi riceve la prestazione è l’effettivo creditore, troverebbe la sua ragion d’essere nell’errore scusabile del solvens.

Secondo la lettera della legge, pertanto, la distinzione tra indebito oggettivo ed indebito soggettivo assume rilevanza in ordine ai presupposti necessari per l’esercizio dell’azione di ripetizione, la quale è nel secondo subordinata alla sussistenza di un errore scusabile.

Sulla base dell’indicazione legislativa, dunque, l’opinione maggioritaria ritiene che l’errore del solvens sia invece assolutamente irrilevante nell’indebito oggettivo, nel quale la ripetizione è subordinata esclusivamente all’insussistenza del debito.

Di contrario avviso è invece parte della dottrina, per la quale l’errore sarebbe in realtà un requisito (implicito) anche dell’indebito oggettivo: qualora il solvens effettui il pagamento nella consapevolezza del carattere non doveroso del comportamento, si osserva, egli porrebbe in essere una donazione e dunque il pagamento sarebbe valido ed efficace.

La necessità dell’errore scusabile è invece pacifica nell’indebito soggettivo: se l’agente fosse consapevole di adempiere un debito altrui, infatti, dovrebbe trovare applicazione l’art. 1180 c.c. e l’atto dovrebbe pertanto essere considerato alla stregua di un adempimento del terzo, con conseguente impossibilità per il solvens di ottenere la restituzione di quanto pagato.

La natura scusabile dell’errore, invece, è imposta dalla legge in considerazione del fatto che colui il quale ha ricevuto la prestazione è effettivamente il creditore e quindi ha un interesse legittimo a conservare quanto ricevuto: nel caso in cui l’errore sia dipeso da colpa del solvens, dunque, la legge ritiene corretto escludere in capo al creditore l’obbligo di restituzione, garantendogli il diritto di conservare quanto ottenuto, e consentendo al solvens di rivalersi solo sul debitore reale attraverso la surrogazione nei diritti del creditore.

Come previsto dall’art. 2036 c.c., d’altra parte, nell’indebito soggettivo l’azione di ripetizione è esclusa anche nell’ipotesi in cui il creditore si sia privato in buonafede del titolo o delle garanzie del credito. 

Il contenuto dell’obbligo di restituzione dipende dalla natura della prestazione non dovuta: se la prestazione effettuata indebitamente ha ad oggetto un obbligo di fare, come detto, la restituzione è subordinata al conseguimento di un effettivo vantaggio da parte dell’accipiens. In questa ipotesi,  d’altronde, posto che la prestazione di fare non è suscettibile di restituzione in natura, l’obbligo di restituzione avrà ad oggetto una somma di denaro che corrisponde al valore della prestazione effettuata.

Ove, invece, la prestazione indebita sia consistita nell’assunzione di un obbligo e questo non sia ancora stato adempiuto, la restituzione avrà per oggetto la liberazione dall’obbligo stesso. 

Con particolare riguardo alle cose determinate solo nel genere, ancora, l’opinione prevalente ritiene che l’accipiens dovrà restituire non le stesse cose che ha ricevuto, ma cose dello stesso genere e qualità. 

Di contrario avviso è però parte della dottrina, secondo la quale dovrebbero restituirsi esattamente le stesse cose che sono state consegnate, le quali assumono pertanto rilevanza nella loro individualità.

Nel caso in cui, infine, l’obbligo di restituzione concerna cose determinate, soccorrono gli articoli 2037 e 2038 c.c.

Come previsto dall’art. 2037 c.c., in particolare, chi ha ricevuto indebitamente una cosa determinata è tenuto a restituirla: se la cosa è perita, anche per caso fortuito, chi l’ha ricevuta in malafede è tenuto a corrisponderne il valore; se la cosa è soltanto deteriorata, colui che l’ha data può chiedere l’equivalente, oppure la restituzione e un’indennità per la diminuzione di valore. Chi ha ricevuto la cosa in buonafede, invece, non risponde del perimento o del deterioramento di essa, ancorché dipenda da fatto proprio, se non nei limiti del suo arricchimento.

L’art. 2038 c.c. disciplina l’ipotesi in cui il bene ricevuto indebitamente sia stato alienato: chi, avendo ricevuto la cosa in buonafede, l’ha alienata prima di conoscere l’obbligo di restituirla, è tenuto a restituire il corrispettivo conseguito; se questo è ancora dovuto, colui che ha pagato l’indebito subentra nel diritto dell’alienante. Nel caso di alienazione a titolo gratuito, poi, anche il terzo acquirente è obbligato, nei limiti del suo arricchimento, verso colui che ha pagato l’indebito.

Chi ha alienato la cosa ricevuta in mala fede, o dopo aver conosciuto l’obbligo di restituirla, è  invece obbligato a restituirla in natura o a corrisponderne il valore. Colui che pagato l’indebito può però esigere il corrispettivo dell’alienazione e può anche agire direttamente per conseguirlo. Se l’alienazione è stata fatta a titolo gratuito, l’acquirente, qualora l’alienante sia stato inutilmente escusso, è obbligato verso colui che ha pagato l’indebito nei limiti dell’arricchimento conseguito.

Oltre alla somma o alla cosa ricevuta, l’accipiens è tenuto anche a restituire i frutti percepiti e gli interessi maturati dal giorno del pagamento, se era in malafede, o dal giorno della domanda se era in buonafede.

Sulla base di quanto previsto dall’art. 2040 c.c., d’altronde, colui al quale è stata restituita la cosa è tenuto a rimborsare il possessore delle spese e dei miglioramenti, a norma degli articoli 1149, 1150, 1151 e 1152 c.c.

In dottrina, ci si interroga in ordine al rapporto tra l’azione di ripetizione dell’indebito e le azioni afferenti la validità o l’efficacia del contratto, quali quelle di nullità, annullamento, rescissione e risoluzione.

Ci si chiede, in pratica, se a seguito dell’esperimento di una di tali azioni e quindi della dichiarazione di invalidità od estinzione del rapporto obbligatorio, la parte possa recuperare le cose consegnate in esecuzione del negozio attraverso l’esperimento dell’azione di ripetizione o se, al contrario, debba esercitare quella di restituzione.

Secondo un orientamento restrittivo, infatti, l’azione di restituzione conseguente al venir meno del titolo dal quale derivava il debito deve essere mantenuta distinta da quella di ripetizione dell’indebito, la quale sarebbe esperibile esclusivamente quando tra le parti non sussiste alcun rapporto negoziale.

L’indebito oggettivo, dunque, sussisterebbe solo quando il debito mancava fin dall’inizio e non anche quando esso sia venuto meno successivamente per effetto della dichiarazione di nullità, dell’annullamento, della rescissione o della risoluzione del titolo dal quale derivava.

La necessità di distinguere l’azione di ripetizione dalle altre azioni riguardanti la validità e l’efficacia del negozio, si osserva, sussiste soprattutto con riferimento all’azione di nullità: consentire al soggetto interessato la possibilità di recuperare le cose consegnate in virtù del titolo dichiarato nullo attraverso l’esercizio dell’azione di ripetizione, infatti, striderebbe con l’essenza di tale categoria di invalidità negoziale, la quale, rendendo l’atto totalmente improduttivo di effetti fin dal momento in cui lo stesso è stato posto in essere, dovrebbe permettere alla parte di recuperare la cosa consegnata anche presso il terzo acquirente o comunque a prescindere dalla sussistenza di un errore scusabile.

Di contrario avviso è la dottrina prevalente, la quale, individuando in tali ipotesi un indebito oggettivo,  ammette di conseguenza l’esercizio dell’azione di ripetizione.

Tale impostazione sembra trovare conferma nella lettera della legge: come previsto dall’art. 1422 c.c., in particolare, l’azione per far dichiarare la nullità non è soggetta a prescrizione, salvi gli effetti della prescrizione dell’azione di ripetizione dell’indebito.

Secondo quanto sancito dall’art. 1463 c.c., d’altra parte, nei contratti a prestazioni corrispettive, la parte liberata per la sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta non può chiedere la controprestazione, e deve restituire quella che abbia già ricevuto secondo le norme relative alla ripetizione dell’indebito.

Per l’orientamento prevalente, inoltre, sussiste un rapporto di alternatività tra l’azione di ripetizione e quella di rivendica, nel senso che una volta prescritta la prima sarebbe comunque esercitabile la seconda, la quale è per sua stessa natura imprescrittibile.

Non può invece condividersi quella corrente dottrinale secondo la quale il pagamento d’indebito, comportando l’effettivo trasferimento della proprietà della cosa consegnata, renderebbe impossibile l’esercizio dell’azione di rivendicazione.


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L'avvocato Cuccatto è titolare di uno studio legale in provincia di Torino con pluriennale esperienza nel campo del diritto civile, penale ed amministrativo. L'avvocato è inoltre collaboratore esterno di un importante studio legale di Napoli, specializzato nel diritto civile. Quale cultore della materie giuridiche, l'avvocato è autore di numerose pubblicazioni in ogni campo del diritto, anche processuale. Forte conoscitore della disciplina consumeristica e dei diritti del consumatore, l'avvocato fornisce la propria rappresentanza legale anche a favore di un'associazione a tutela dei consumatori. Quale esperto di mediazione e conciliazione, l'avvocato è infine un mediatore professionista civile e commerciale.

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