La sentenza 202/2023 della Corte Costituzionale

La sentenza 202/2023 della Corte Costituzionale

La verifica di compatibilità costituzionale della mancata previsione di qualsivoglia strumento di controllo avverso un provvedimento e la competenza prevalente della Corte Costituzionale ai fini del giudizio di legittimità costituzionale

di Michele Di Salvo

 

Con la sentenza n. 202 del 2023 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale – ex artt. 3 e 24 Cost. – degli artt. 669-quaterdecies e 695 c.p.c., nella parte in cui non consentono di utilizzare lo strumento del reclamo, previsto dall’art. 669-terdecies c.p.c., avverso il provvedimento che rigetta (anche per ragioni di inammissibilità) il ricorso per la nomina del consulente tecnico preventivo ai fini della composizione della lite di cui all’art. 696-bis del medesimo codice, poiché l’esclusione della reclamabilità priva definitivamente e irragionevolmente la parte di una importante facoltà processuale diretta alla possibile composizione della lite, in ingiustificata distonia con la reclamabilità del rigetto delle istanze di istruzione preventiva.

L’occasione e l’oggetto sono ricostruiti “in fatto” nella sentenza

Con ordinanza in data 14 dicembre 2022, iscritta nel relativo registro al n. 25 dell’anno 2023, il Tribunale di Roma, sezione tredicesima civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 669-quaterdecies e 695 cod. proc. civ., in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non prevedono la reclamabilità del provvedimento di diniego dell’istanza di nomina del consulente tecnico preventivo ai fini della composizione della lite ai sensi dell’art. 696-bis cod. proc. civ.

Il Tribunale rimettente rileva che l’art. 696-bis cod. proc. civ., laddove stabilisce che la consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite può essere richiesta «anche» al di fuori delle condizioni di cui al primo comma dell’art. 696 cod. proc. civ., non può essere intesa – come pure sarebbe possibile in forza della formulazione letterale – nel senso che il relativo espletamento è possibile pur in presenza di condizioni di urgenza, in quanto in tale ipotesi la parte interessata può ricorrere allo strumento tipico dell’accertamento tecnico preventivo, come peraltro confermato da alcune pronunce della Corte di cassazione.

Lo stesso giudice rimettente rileva che la conseguente inammissibilità del rimedio del reclamo cautelare pone un problema di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 695 e 669-terdecies cod. proc. civ. rispetto ai parametri tanto dell’art. 3 Cost., atteso che detta esclusione comporta un’irragionevole disparità di trattamento rispetto ai provvedimenti cautelari e all’accertamento tecnico preventivo di cui all’art. 696 cod. proc. civ., quanto dell’art. 24 Cost., stante la funzionalità all’effettività della tutela giurisdizionale dell’assoluzione dell’onere della prova.”

Il rilievo della sentenza oggetto del presente commento – che non ha alcuna pretesa di esaustività – va (come spesso accade nell’articolazione delle motivazioni della Corte) ben oltre l’oggetto specifico di decisione di costituzionalità.

Le motivazioni che ampiamente richiameremo in questa sede mettono in evidenza alcuni elementi centrali nella “vita del diritto” e dei diritti dei cittadini.

In questa occasione il giudice delle leggi chiarisce innanzitutto in via preliminare il proprio ruolo in sede di rigetto dell’eccezione dell’Avvocatura generale dello Stato – opponente – di inammissibilità delle questioni per carenza di motivazione sulla possibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata.

“È noto che questa Corte, a partire quanto meno dalle sentenze n. 83 e n. 42 del 2017 (e nella stessa ottica già la sentenza n. 221 del 2019), ha rivisto l’orientamento, risalente alla sentenza n. 456 del 1989, secondo cui quando «il dubbio di compatibilità con i principi costituzionali cada su una norma ricavata per interpretazione da un testo di legge è indispensabile che il giudice a quo prospetti […] l’impossibilità di una lettura adeguata ai detti principi». Infatti si è affermato che a fronte «di adeguata motivazione circa l’impedimento ad un’interpretazione costituzionalmente compatibile, dovuto specificamente al “tenore letterale della disposizione” […] “la possibilità di un’ulteriore interpretazione alternativa, che il giudice a quo non ha ritenuto di fare propria, non riveste alcun significativo rilievo ai fini del rispetto delle regole del processo costituzionale, in quanto la verifica dell’esistenza e della legittimità di tale ulteriore interpretazione è questione che attiene al merito della controversia, e non alla sua ammissibilità”» (sentenza n. 42 del 2017).

In seguito è stato più volte ribadito che il «tenore letterale della disposizione» assolve il giudice rimettente dall’onere di sperimentare l’interpretazione conforme (da ultimo, sentenza n. 178 del 2023).

Va quindi ribadito l’orientamento, ormai costante, di questa Corte secondo cui l’onere di interpretazione conforme viene meno, lasciando il passo all’incidente di costituzionalità, allorché il giudice rimettente sostenga, come nel caso di specie, che il tenore letterale della disposizione, in quanto inequivoco, non consente tale interpretazione (ex plurimis, sentenze n. 104 del 2023, n. 18 del 2022, n. 59 e n. 32 del 2021, n. 32 del 2020, n. 221 e n. 141 del 2019, n. 268 e n. 83 del 2017, n. 241 del 2016).

La disposizione oggetto dell’odierno incidente di costituzionalità (l’art. 695 cod. proc. civ., censurato unitamente all’art. 669-quaterdecies cod. proc. civ.) ha quindi un univoco tenore letterale che esclude, in via generale, la impugnabilità e quindi la reclamabilità dei provvedimenti; reclamabilità che ora è, invece, possibile affermare, ma con riferimento al provvedimento di rigetto dell’istanza per l’assunzione preventiva dei mezzi di prova di cui agli artt. 692 e 696 cod. proc. civ., proprio perché la disposizione è stata dichiarata costituzionalmente illegittima in tali termini (sentenza n. 144 del 2008).

Di contro, rimane ancora non reclamabile il provvedimento di rigetto dell’istanza per l’espletamento di una consulenza tecnica preventiva ai sensi dell’art. 696-bis cod. proc. civ. In presenza di questo dato testuale è certamente plausibile la motivazione del Tribunale rimettente che ha diffusamente argomentato in ordine alla non praticabilità dell’interpretazione conforme, discostandosi da una giurisprudenza di legittimità di segno opposto, la quale però – come si dirà infra, punti da 5 a 7 – non può qualificarsi come “diritto vivente”.

Di qui l’ammissibilità, sotto questo profilo, delle sollevate questioni di legittimità costituzionale.”

Ritiene la Corte quindi di procedere ad una sintetica ricostruzione del quadro normativo di riferimento dell’istituto della consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite.

“Con l’art. 696-bis cod. proc. civ. è stato introdotto nel nostro ordinamento – nell’ambito delle riforme varate in sede di conversione del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35 … – l’istituto della consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite.

Il legislatore ha considerato – nel legittimare la proposizione di un ricorso che consente alla parte interessata, anche in assenza di un periculum in mora, di richiedere la nomina di un consulente tecnico prima ed anzi al fine di prevenire la lite – l’esperienza giuridica di altri ordinamenti europei e, in particolare, di quello tedesco, nel quale il secondo comma del paragrafo 485 del Zivilprozessordnung contempla il procedimento di istruzione probatoria indipendente (selbständiges Beweisverfahren), disposto mediante la nomina di un consulente tecnico in ogni caso in cui ciò corrisponda all’interesse dell’istante, anche se non sussiste un rischio di dispersione del mezzo di prova, se ciò è funzionale ad evitare il processo.

Nel nostro sistema, l’art. 696-bis cod. proc. civ. consente di richiedere al giudice, analogamente, anche in mancanza del presupposto dell’urgenza, – come si desume dalla previsione per la quale si può instare per lo stesso «anche al di fuori delle condizioni di cui al primo comma dell’articolo 696» – l’espletamento di una consulenza tecnica ante causam «ai fini dell’accertamento e della relativa determinazione dei crediti derivanti dalla mancata o inesatta esecuzione di obbligazioni contrattuali o da fatto illecito».

La norma, inoltre, assegna al consulente il compito di tentare, prima del deposito della propria relazione, di conciliare le parti e precisa che, ove queste pervengano a una soluzione transattiva, l’accordo è trasfuso e formalizzato in un verbale (esente da imposta di registro) al quale il giudice, con proprio decreto, attribuisce efficacia di titolo esecutivo.

Qualora, invece, la conciliazione non riesca, ciascuna parte potrà chiedere che l’elaborato peritale sia acquisito agli atti del successivo giudizio di merito, previo vaglio di ammissibilità e rilevanza.

Con la consulenza tecnica conciliativa il legislatore ha in sostanza offerto alle parti la possibilità di ottenere, in via preventiva rispetto all’instaurazione del processo, una valutazione tecnica in ordine all’esistenza del fatto e all’entità del danno, nell’auspicio che, proprio sulla scorta di tale valutazione, le parti possano trovare un accordo – al quale il giudice attribuisce con decreto efficacia di titolo esecutivo – che renda superflua l’instaurazione del giudizio contenzioso.

Nella delineata prospettiva, questa Corte ha osservato che il previo svolgimento dinanzi all’autorità giudiziaria del procedimento di cui all’art. 696-bis cod. proc. civ. è finalizzato non solo alla definizione in via conciliativa della controversia, ma anche ad anticipare un segmento istruttorio fondamentale per la risoluzione di alcune cause caratterizzate – come quelle in tema di responsabilità sanitaria – da questioni soprattutto tecniche» (sentenza n. 87 del 2021).”

La Corte poi è intervenuta – in via esplicativa e in parte anche dirimente – nella questione del rilevante rapporto tra la propria competenza e il valore della giurisprudenza di Cassazione, in particolare nel ruolo delle sentenze di quest’ultima nel dare valore al cd. “diritto vivente”.

“Occorre considerare che la Corte di cassazione, nel decidere su alcuni ricorsi, proposti ai sensi dell’art. 111, settimo comma, Cost. contro provvedimenti di diniego dell’istanza di nomina di un consulente tecnico preventivo ai fini della composizione della lite ex art. 696-bis cod. proc. civ., li ha ritenuti inammissibili essendo i provvedimenti impugnati privi del requisito della definitività. Ha, inoltre, ritenuto che, nella specie, avrebbe potuto essere proposto, invece, il rimedio del reclamo, stante l’analoga natura cautelare (almeno in senso lato) di detti provvedimenti, come ritraibile anche dalla collocazione sistematica e dall’applicabilità, quanto al procedimento, delle disposizioni sull’accertamento tecnico preventivo e, di qui, dell’art. 695 cod. proc. civ., che, come evidenziato, è stato dichiarato illegittimo laddove non contemplava il reclamo cautelare contro i provvedimenti di rigetto delle istanze volte all’assunzione della prova testimoniale e dell’accertamento tecnico preventivo (Cass. n. 23976 del 2019; Corte di cassazione, sezione terza civile, ordinanza 21 novembre 2022, n. 34202).

Tuttavia, non può riconoscersi, in questa giurisprudenza, una situazione di diritto vivente, pur se essa perviene ad una soluzione interpretativa che è in sintonia con quello che sarà l’esito del presente scrutinio di costituzionalità, in quanto, nella sostanza, lo anticipa.

In riferimento a tali pronunce occorre innanzi tutto ribadire che ricade nel sindacato di questa Corte accertare la compatibilità costituzionale della norma in forza del significato ad essa attribuito da una giurisprudenza consolidata della Corte di cassazione. Si è affermato che «la Corte deve prendere le mosse dagli orientamenti della Corte di Cassazione», alla quale «compete la nomofilachia», e sulla base di questi operare il controllo di costituzionalità «poiché il diritto “vivente” non è sempre conforme ai dettami della Carta Costituzionale» (sentenza n. 167 del 1984). «In presenza di tale “diritto vivente”, questa Corte non ha la possibilità di proporre differenti soluzioni interpretative (v. sentenza n. 299 del 2005), ma deve limitarsi a stabilire se lo stesso sia o meno conforme ai principi costituzionali» (sentenza n. 266 del 2006).

Vi è pertanto che, quando sussiste una situazione di diritto vivente, questa Corte recepisce la norma così interpretata quale oggetto dello scrutinio ad essa riservato (ex plurimis, sentenze n. 243, n. 20 e n. 13 del 2022, n. 33 e n. 1 del 2021).

Sennonché compete a questa Corte verificare se decisioni, pur rese dalla Corte di cassazione, possano o meno ritenersi espressive di quella consolidata interpretazione della legge che rende la norma, che ne è stata ritratta, vero e proprio “diritto vivente” nell’ambito e ai fini del giudizio di legittimità costituzionale, atteso che la “vivenza” della norma costituisce «una vicenda per definizione aperta» (sentenza n. 242 del 2014).

In questa prospettiva, va considerato che un’interpretazione consolidata da parte della Corte di cassazione, rilevante per la formazione del “diritto vivente”, può sussistere in relazione a quella parte della pronuncia nella quale si esprime effettivamente la ratio decidendi rispetto alla questione di diritto rimessa all’attenzione del giudice di legittimità, e non anche ad eventuali obiter dicta, anche se volti, in qualche misura, a rafforzare la motivazione della decisione.

Non può, quindi, ritenersi che le richiamate decisioni della Corte di Cassazione, nella parte in cui fanno riferimento alla possibilità di proporre reclamo cautelare contro il provvedimento di diniego del giudice adito con ricorso per la nomina di un consulente tecnico preventivo ai fini della composizione della lite, siano suscettibili di essere considerate in parte qua espressione di “diritto vivente”, in quanto le medesime sono state solo volte a corroborare, con argomento in realtà ad abundantiam, l’orientamento assunto sulla diversa questione rispetto alla quale la Corte di legittimità era effettivamente chiamata a decidere, ossia quella della proponibilità – nella specie esclusa – del ricorso straordinario per cassazione ex art. 111, settimo comma, Cost., nei confronti di tale provvedimento.

Del resto, questa Corte ha puntualizzato, con una recente decisione, che risulta difficilmente ipotizzabile un diritto vivente in relazione ai provvedimenti cautelari, essendo precluso, rispetto ad essi, l’accesso al giudizio di legittimità anche attraverso lo strumento del ricorso straordinario per cassazione (sentenza n. 54 del 2023).”

Nello stabilire definitivamente che le questioni sollevate dal Tribunale di Roma sono fondate in riferimento ad entrambi i parametri costituzionali evocati, la Corte interviene – ripercorrendo i rimedi della reclamabilità e dell’impugnazione per le sentenze e le ordinanze – a riprendere chiarire anche la loro rilevanza costituzionale come elementi di “difesa” in giudizio dei diritti.

“Il diritto di agire in giudizio è sancito dall’art. 24 Cost. come diritto inviolabile e quindi fondamentale.

Contro le sentenze – ossia i provvedimenti a carattere decisorio e definitivo – è generalizzato, in quanto «sempre ammesso», il ricorso per cassazione per violazione di legge (art. 111, settimo comma, Cost.), salva la limitazione ai soli motivi inerenti alla giurisdizione quanto alle decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti.

La nozione di sentenza, proprio ai fini della delimitazione dell’ambito applicativo della predetta garanzia, è da lungo tempo intesa nel diritto vivente, in senso sostanziale, ossia ricomprendendovi tutti i provvedimenti che, pur non avendo la veste formale della sentenza, sono decisori e definitivi, ossia incidono sui diritti soggettivi coinvolti con quella peculiare efficacia corrispondente al giudicato, pur talvolta allo stato degli atti, alla stregua di quanto peraltro ricordato nella recente giurisprudenza di questa stessa Corte (sentenza n. 89 del 2021).

Invece, contro le ordinanze – e tale è quella pronunciata nel giudizio a quo, oggetto del reclamo della cui ammissibilità, o no, si dibatte – può essere previsto un mezzo di impugnazione (il reclamo) non in via generale, stante che esse, peraltro di norma modificabili e revocabili dal giudice che le ha pronunciate, comunque «non possono mai pregiudicare la decisione della causa» (art. 177, primo comma, cod. proc. civ.); decisione che poi chiama in campo la suddetta garanzia del ricorso straordinario di cui al settimo comma dell’art. 111 Cost.

Ma, in attesa della decisione della causa, il riconoscimento della facoltà di impugnazione, mediante reclamo, del provvedimento del giudice, pur non definitivo né decisorio, può talora costituire necessaria implicazione della garanzia costituzionale del diritto di agire in giudizio per la tutela di un diritto o di un interesse legittimo. Il reclamo è previsto, in via generale, nei procedimenti adottati in camera di consiglio di cui all’art. 739, primo comma, cod. proc. civ. In questa logica è introdotto, in via generale, il reclamo contro i provvedimenti cautelari di cui all’art. 669-terdecies cod. proc. civ. (all’inizio solo limitatamente ai provvedimenti di accoglimento), che testualmente trova applicazione nei confronti dei provvedimenti cautelari di sequestro, di denuncia di nuova opera e di danno temuto, e nei confronti dei provvedimenti d’urgenza. Ai sensi di questa medesima disposizione è reclamabile – come espressamente previsto dall’art. 23, lettera e-bis), del già richiamato d.l. n. 35 del 2005, come convertito – anche l’ordinanza che accoglie o respinge la domanda di reintegrazione e di manutenzione nel possesso (art. 703 cod. proc. civ.).

(…) Nel complesso, quindi, vi è un’area di tendenziale reclamabilità di provvedimenti che, in quanto non definitivi né decisori, si sottraggono alla ricorribilità per cassazione di cui al settimo comma dell’art. 111 Cost.

Invece, ai procedimenti di istruzione preventiva (articoli da 692 a 699), pur appartenendo essi al genus dei procedimenti cautelari, non si applicano … le disposizioni comuni di cui alla Sezione I (salvo l’art. 669-septies cod. proc. civ.: sentenza n. 87 del 2021) e quindi neppure quella che consente il reclamo avverso i provvedimenti. Pertanto, non era reclamabile il provvedimento di diniego emesso a seguito di richiesta di assunzione di testimoni (art. 662 cod. proc. civ.) o di accertamento tecnico o di ispezione giudiziale (art. 669 cod. proc. civ.). Si riteneva, da parte del legislatore che ha introdotto il procedimento cautelare uniforme, che siffatto provvedimento non fosse particolarmente pregiudizievole perché, in caso di diniego, la domanda, diretta a soddisfare anticipatamente il diritto alla prova, poteva essere riproposta e comunque, anche in caso di accoglimento, la contestazione della prova avrebbe trovato sicura garanzia nel contraddittorio del giudizio di merito.

Tale apparato di garanzie – costituito dal complesso delle fattispecie di reclamabilità (ad altro giudice di merito) di provvedimenti non ricorribili (in cassazione) – è risultato non di meno affetto da lacune comportanti una lesione del diritto alla tutela giurisdizionale.

Questa Corte, con sentenza n. 253 del 1994 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 669-terdecies cod. proc. civ., nella parte in cui non ammetteva il reclamo anche avverso l’ordinanza con cui fosse stata rigettata la domanda di provvedimento cautelare.

Più recentemente, proprio con riferimento ai procedimenti di istruzione preventiva, questa Corte, con la già richiamata sentenza n. 144 del 2008, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 669-quaterdecies e 695 cod. proc. civ., nella parte in cui non prevedono la reclamabilità del provvedimento di rigetto dell’istanza per l’assunzione preventiva dei mezzi di prova di cui agli artt. 692 e 696 cod. proc. civ., ossia rispettivamente l’audizione di testimoni, l’accertamento tecnico e l’ispezione giudiziale, mirati tutti ad assicurare elementi di prova ante causam in riferimento ad una lite che può insorgere. Ed ha osservato, in particolare, che tale normativa «fa parte della tutela cautelare, della quale condivide la ratio ispiratrice che è quella di evitare che la durata del processo si risolva in un pregiudizio della parte che dovrebbe veder riconosciute le proprie ragioni».

La matrice comune dei procedimenti cautelari è al fondo anche della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 669-quaterdecies cod. proc. civ., nella parte in cui, escludendo l’applicazione dell’art. 669-quinquies cod. proc. civ. ai provvedimenti di accertamento tecnico e ispezione giudiziale, impedisce, in caso di clausola compromissoria, di compromesso o di pendenza di giudizio arbitrale, la proposizione della domanda di accertamento tecnico preventivo al giudice che sarebbe competente a conoscere del merito (sentenza n. 26 del 2010).

(…) Questa Corte ha già sottolineato «la consapevolezza, sempre più avvertita, che, a fronte di una crescente domanda di giustizia, anche in ragione del riconoscimento di nuovi diritti, la giurisdizione sia una risorsa non illimitata e che misure di contenimento del contenzioso civile debbano essere messe in opera» (sentenza n. 77 del 2018).

L’istituto in esame ha poi assunto ancor più rilievo quando il legislatore ha prescritto che colui il quale intenda esercitare un’azione, innanzi al giudice civile, relativa a una controversia di risarcimento del danno derivante da responsabilità sanitaria è tenuto preliminarmente a proporre ricorso proprio ai sensi dell’art. 696-bis cod. proc. civ., quale condizione di procedibilità della domanda di risarcimento.

Il provvedimento del giudice, che rigetta (o dichiara inammissibile) la richiesta di espletamento di una consulenza tecnica ai sensi dell’art. 696-bis cod. proc. civ., priva definitivamente la parte di una importante facoltà processuale diretta alla possibile composizione della lite, arrecando al diritto di agire in giudizio (art. 24, primo comma, Cost.) una compromissione anche maggiore del rigetto di un accertamento tecnico ai sensi dell’art. 696 cod. proc. civ.; provvedimento, quest’ultimo, ormai reclamabile a seguito della richiamata pronuncia di illegittimità costituzionale (sentenza n. 144 del 2008).

La previsione, dunque, della possibilità di proporre una domanda di fronte a un giudice senza poter contestare dinanzi a un giudice diverso le ragioni che hanno condotto a un provvedimento di diniego si pone in contrasto con il diritto di agire e difendersi in giudizio (art. 24, primo e secondo comma, Cost.) e con il canone di ragionevolezza (art. 3, primo comma, Cost.).”

Partendo da questa sentenza come contributo ad un ulteriore ostacolo al diritto di difesa, nel complesso motivazionale la Corte sembra – a parere di chi scrive – andare oltre la norma in discussione, ed anzi abbracciare con un principio generale l’intero sistema delle garanzie di difesa nel procedimento civile.

Ciò è esplicitato con chiarezza nel seguente passaggio immediatamente successivo, quando la Corte afferma che:

“Fermo restando che nel nostro ordinamento il doppio grado di giudizio non è costituzionalmente prescritto nel processo civile (ex multis, sentenza n. 58 del 2020), a venire in rilievo è la compatibilità costituzionale della mancata previsione di qualsivoglia strumento di controllo avverso un provvedimento, quale è il diniego di nomina del consulente tecnico a fronte del ricorso di cui all’art. 696-bis cod. proc. civ., avverso il quale non è ammesso il ricorso straordinario per cassazione poiché esso non decide su un diritto soggettivo o su uno status nel senso dinanzi indicato e che, tuttavia, incide sulla tutela dell’interesse giuridico del ricorrente ad accedere alla definizione concordata di una possibile controversia, previa risoluzione, con l’ausilio del consulente nominato dal giudice, delle questioni tecniche in fatto controverse tra le parti (sentenza n. 87 del 2021).

Questo interesse della parte, inoltre, come attestato dalla previsione dell’istituto in esame quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale nelle controversie in tema di responsabilità sanitaria (sentenza n. 87 del 2021), è coerente con quello generale dell’ordinamento, rilevante anche sul piano costituzionale, alla ragionevole durata dei processi (ex aliis, sentenza n. 173 del 2022), risultato al quale si può pervenire soprattutto mediante una riduzione del numero delle cause demandate alla decisione degli uffici giudiziari.

(…)  Da qui discende, pertanto, che la perdita del diritto della parte ricorrente alla chance di svolgere, mediante la nomina di un consulente ai sensi dell’art. 696-bis cod. proc. civ., un approfondimento tecnico nell’ambito di un procedimento mirato ad evitare l’instaurazione di un lungo e dispendioso giudizio contenzioso, deve essere presidiato da uno strumento di gravame, quale è il reclamo del provvedimento di rigetto.

Vi è quindi che il diritto della parte istante a contestare le statuizioni di provvedimenti di rigetto inidonei alla formazione del giudicato, e che tuttavia determinano a carico della stessa un pregiudizio a diritti – sostanziali o processuali – del medesimo, costituisce una componente essenziale ed insopprimibile del diritto di difesa, in quanto si tratta di misure che non sono sottoposte ad alcuna ulteriore forma di controllo, neppure in sede di legittimità (sentenza n. 89 del 2021).

In simili casi, la compressione della tutela giurisdizionale, in assenza di un reclamo dinanzi ad altro giudice contro un provvedimento di diniego, diventa non tollerabile al punto da trasmodare in violazione dell’art. 24 Cost. (sentenza n. 493 del 2002).

(…) la mancata previsione del medesimo strumento di controllo anche nei confronti della misura con la quale il giudice disattenda il ricorso della parte volto alla nomina di un consulente tecnico ex art. 696-bis cod. proc. civ. si traduce, sul piano dell’art. 3 Cost., in una diseguaglianza nei mezzi di tutela contemplati per provvedimenti che, per scelta ex ante del legislatore, sono tutti ricondotti nel più ampio genere dell’istruzione preventiva.”

E proprio estendendo il ragionamento al quadro più ampio delle garanzie e del diritto di difesa conclude la Corte:

“Questa Corte ha già riconosciuto, evidenziandone il carattere espansivo (sentenza n. 26 del 2010), che le norme sul procedimento cautelare uniforme esprimono principi generali dell’ordinamento, ai quali occorre fare riferimento per colmare le eventuali lacune della disciplina di procedimenti ispirati alla medesima ratio.

In una prospettiva di “equivalenza” delle garanzie – ossia di identità del rimedio impugnatorio a fronte di provvedimenti di analogo contenuto sul piano effettuale – il duttile rimedio del reclamo contemplato dall’art. 669-terdecies cod. proc. civ. si presta ad essere esteso, negli stessi termini, anche a provvedimenti privi di natura d’urgenza, ma altrettanto meritevoli di tutela sotto il profilo tanto sostanziale che processuale.”


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