La specificità dei motivi di impugnazione: dalle S.U. Galtelli alla riforma Orlando

La specificità dei motivi di impugnazione: dalle S.U. Galtelli alla riforma Orlando

Uno dei vari effetti tradizionalmente riconosciuti all’atto di impugnazione consiste nella devoluzione, ad un giudice di grado superiore, della cognizione su una questione di fatto o di diritto specificato nei motivi di gravame. Sotto tale profilo, istituzionalmente si è soliti distinguere tra “impugnazioni interamente devolutive” e “limitatamente devolutive”. Le prime consentono alle parti di “confezionare” un’impugnazione che, a pena di inammissibilità, non deve contenerne necessariamente i motivi. Nelle seconde, viceversa, la parte impugnante deve, a pena di inammissibilità, specificare i motivi di impugnazione: in tal modo operando una perimetrazione della cognizione del giudice ad quem. In particolare, la forma dell’impugnazione è prescritta nell’art.581 c.p.p. che trova completamento nell’art.591 c.p.p.: norma che ne sanziona con l’inammissibilità la mancanza. Inoltre, il trittico va completato con una norma ulteriore, all’art.581 speculare, rappresenta dall’art.546 c.p.p. che elencando i requisiti della sentenza indica, tra essi, alla lettera e), la motivazione. Così dando attuazione alla disposizione costituzionale dell’art.111 comma 6 secondo il quale «tutti i provvedenti giurisdizionali devono essere motivati».

Tutto ciò premesso, occorre notare come la materia qui in esame, è stata oggetto prima di una importante sentenza della Corte Suprema di Cassazione, Sezioni Unite “Galtelli” depositata in cancelleria in data 22 febbraio 2017 e successivamente della legge 23 giugno 2017, n. 103, “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario”, anche conosciuta come riforma Orlando, dal nome del Ministro proponente. Con il primo intervento, le Sezioni Unite, presiedute da Giovanni Canzio, sono state chiamate a comporre un persistente contrasto giurisprudenziale delle sezioni semplici della Suprema Corte in materia di specificità dei motivi di appello e dei conseguenti poteri di declaratoria di inammissibilità delle impugnazioni. Dal canto suo, la riforma Orlando, di appena qualche mese ad essa successiva, nel recare varie modifiche al codice di rito si è occupato, tra l’altro, da un lato di irrobustire i motivi dell’impugnazioni e dall’altro, e in via perfettamente speculare, di specificare gli elementi motivazionali che il giudice deve indicare nel pronunciare una sentenza. Giova qui solo premettere come tra i principali obiettivi, della riforma appena richiamata, vanno menzionati soprattutto quelli tesi ad armonizzare il più possibile i mezzi di impugnazione, previsti dal nostro ordinamento penale, ai principi sul giusto processo, introdotti con la legge Costituzionale n.2 del 1999. E dall’altro nel deflazionare il carico di lavoro di cui sono oberati i palazzi di giustizia attraverso un “irrigidimento” dell’onere motivazionale delle sentenze e della specificità dei motivi di gravame, implementando così le maglie della inammissibilità delle impugnazioni che appaiono defatiganti o meramente dilatorie. Ciò anche in considerazione di un altro effetto tipico riconosciuto all’atto di impugnazione: l’effetto sospensivo di cui all’art.568 c.p.p. Uno sguardo conclusivo, infine verrà tracciato attraverso una breve, ma significativa, comparazione con la specificità dei motivi di impugnazione che, dal 2012 anche il processo civile conosce.

Le Sezioni Unite Galtelli, sono state chiamate a pronunciarsi sul ricorso proposto da Cristian Galtelli avverso l’ordinanza della Corte di Appello di Bologna del 24 maggio 2016, con la quale essa aveva dichiarato inammissibile l’appello proposto dall’imputato avverso la sentenza di primo grado del Tribunale di Parma, che nell’ambito di un giudizio abbreviato lo condannava alla pena di un mese di reclusione oltre ad euro 50 di multa, per tentato furto pluriaggravato di un telefono cellulare. L’appello di Bologna, rilevando come l’impugnazione del ricorrente consisteva nella mera richiesta di riduzione della pena e in particolare “nella rideterminazione della pena in senso favorevole all’imputato; applicazione del minimo della pena; prevalenza delle attenuanti sulle contestate aggravanti; applicazione della diminuente per il rito, concessione dei benefici di legge” risultavano “palesemente deficitarie” e ciò non solo con riguardo agli elementi oggettivi di valutazione ma altresì sul versante dei profilo di critica rispetto alle argomentazioni compiute dal tribunale. Contro tale atto, la difesa dell’imputato ha proposto ricorso per cassazione ritenendo come non fosse necessaria “un’esposizione lunga, prolissa e maggiormente specifica” dell’atto di appello. Il primo Presidente, con decreto del 29 luglio 2016, ha assegnato d’ufficio, ex art. 610 comma 2 c.p.p. il ricorso alle Sezioni Unite affinché queste risolvessero il problema relativo alla specificità dei motivi di appello e dei consequenziali poteri sulla declaratoria di inammissibilità, componendo così una giurisprudenza di legittimità da anni conflittuale.

Il tema della specificità dei motivi di impugnazione è uno dei temi più caldi e discussi all’interno del procedimento penale, considerata anche la sua importante funzione di “filtro” che si esplica nella declaratoria di inammissibilità delle impugnazioni e considerando altresì la tutela costituzionale di cui all’art.24 Cost. che consacra il diritto ad agire e difendersi in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi oltre all’art.111 comma 7 che ammette sempre il ricorso in cassazione contro le sentenze e i provvedimenti sulla libertà personale, per violazione di legge. Per l’appello, viceversa, non vi è alcuna tutela costituzionale anche se esso risulta protetto dal Patto Internazionale sui diritti Civili e Politici oltre che da una lunga tradizione nel nostro ordinamento giudiziario.  È comprensibile dunque come la costruzione del filtro qui in esame non può prescindere da tale substrato costituzionale.

Tornando alla funzione “filtro” garantita dalla specificità dei motivi di impugnazione e dalla conseguenziale declaratoria di inammissibilità di cui agli artt. 581 e 591 c.p.p. giova subito notare come da un punto di vista topografico, le due disposizioni qui richiamate si collocano nel titolo I del Libro IX (disposizioni generali) e sono pertanto applicabili sia all’appello che al ricorso per cassazione. Da tale combinato disposto si ricava, ulteriormente, come nel nostro ordinamento processuale penale, la forma dell’impugnazione è necessariamente scritta e deve essere tale da consentire l’individuazione non solo del provvedimento impugnato ma anche di delimitare quella che sarà poi la cognizione dl giudice ad quem. Sul punto occorre segnalare come la pronuncia, qui in esame, faccia riferimento al testo dell’art.581 in vigore prima delle modifiche apportate dalla legge n.103/2017. Va anche segnalato come la giurisprudenza di legittimità ha spesso sottolineato come «il contenuto tipico delle impugnazioni (…) rigorosamente definito dal codice di rito che, nel riconoscere alla parte le più ampie possibilità di iniziativa contro le decisioni ritenute erronee, ha inteso al tempo stesso evitare ogni uso strumentale e meramente dilatorio dei rimedi previsti».[1] Altra giurisprudenza di legittimità ha poi ulteriormente precisato come «esistono all’interno dell’ordinamento fondamentali esigenze di funzionalità e di efficienza del processo, che devono garantire – nel rispetto delle regole normative previste e in tempi ragionevoli – l’effettivo esercizio della giurisdizione e che non possono soccombere di fronte ad un uso non corretto, spesso strumentale e pretestuoso, dell’impugnazione».[2]

Le Sezioni Unite Galtelli richiamano gli orientamenti di legittimità sulle conseguenze discendenti dal mancato o difettoso assolvimento dell’onere di indicare ed enunciare, nell’atto di gravame, gli elementi menzionati nell’art.581 c.p.p. In particolare, con riferimento all’indicazione degli elementi identificativi del provvedimento impugnato, la giurisprudenza di legittimità ha da tempo affermato come ai fini della sua ammissibilità, «l’omessa od errata indicazione del provvedimento impugnato, della data del medesimo e del giudice che lo ha emesso non ha rilievo di per sé, ma solo in quanto può determinare incertezza nell’individuazione dell’atto».[3] Ciò nell’ottica complessiva della scelta legislativa orientata al c.d. favor impugnationis. Per quanto attiene invece alla indicazione dei “capi” e dei “punti” della sentenza oggetto di gravame, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito come la nozione di “capo” della sentenza, riscontrabile soprattutto all’interno di sentenze plurime o cumulative, va riferito ad ogni decisione emessa relativamente ad uno dei reati attribuiti all’imputato. Invece il “punto” della decisione ha portata più limitata riguardando ogni statuizione suscettibile di autonoma considerazione necessaria per ottenere una decisione completa su un determinato capo. In ultima analisi, lo scopo comune dell’enunciazione di capi e di punti della decisione è quello di perimetrare con precisione la cognizione e l’oggetto di impugnazione scongiurando al contempo impugnazioni generiche e dilatorie.

Interessante poi il richiamo che le Sezioni Unite Galtelli fanno alla “consolidata” giurisprudenza che, in passato, ha invece affermato l’ammissibilità del ricorso per cassazione anche in mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a sostegno del gravame. La giurisprudenza aveva infatti già posto in evidenza come l’inammissibilità dei motivi di ricorso per cassazione discende «non solo quando risultano intrinsecamente indeterminati, altresì quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato»[4] non potendo l’atto di impugnazione «ignorare le ragioni del provvedimento censurato».[5] Si è poi precisato come sia da considerare «inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che si risolvono nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e puntualmente disattesi dalla corte di merito, dovendosi gli stessi considerare non specifici ma soltanto apparenti, in quanto omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso».[6] Nello stesso senso si è poi rilevata l’inammissibilità del ricorso per cassazione «i cui motivi si limitino a enunciare ragioni ed argomenti già illustrati in atti o memorie presentate al giudice a quo, in modo disancorato dalla motivazione del provvedimento impugnato».[7] Infine la giurisprudenza di legittimità aveva anche ammonito la prassi di aggiungere ai motivi di appello «frasi incidentali di censura alla sentenza impugnata meramente assertive ed apodittiche, laddove difettino di una critica argomentata avverso il provvedimento “attaccato” e l’indicazione delle ragioni della loro decisività rispetto al percorso logico seguito dal giudice di merito».[8] Giova anche rammentare come le condirezioni fino ad ora compiute attengono a quella che è stata definita la “specificità estrinseca” dei motivi di ricorso per cassazione.

Con riferimento ai motivi di appello, il contrasto interpretativo che le Sezioni Unite Galtelli sono state chiamate a comporre, oscillava tra due indirizzi interpretativi. Un primo indirizzo favorevole ad un diverso “metro di valutazione” circa l’ammissibilità dei motivi di appello rispetto al ricorso per cassazione e proponeva di valutare il requisito della specificità dei motivi di appello in modo meno stringente e in ogni caso diverso rispetto alla specificità richiesta ai motivi di ricorso per cassazione. Tale orientamento faceva leva talvolta sul principio generale del favor impugnationis, valorizzando al contempo anche la sostanziale diversità strutturale dei due giudizi, ponendo in luce altresì la differente funzione dei motivi di ricorso nella delimitazione della cognizione dei due diversi giudici. Più in particolare, si tratta di un indirizzo che non negava la necessità di un rigoroso sindacato sulla c.d. “genericità intrinseca” dei motivi. Il punto di contrasto dei due orientamenti riguardava unicamente la c.d. “genericità estrinseca” dei motivi di appello, vale a dire l’omessa correlazione tra essi e le ragioni di fatto o di diritto su cui si fonda la sentenza impugnata. L’indirizzo qui in esame, valorizza la necessità che l’atto di appello sia valutato nel suo complesso al solo fine di apprezzarne la completezza e la sua idoneità a dare impulso al grado di giudizio successivo.

Vi era poi un orientamento intermedio tra quello appena esaminato e quello ad esso opposto. Tale orientamento fa perno sulla diversità strutturale tra i due giudizi per escludere che la riproposizione di questioni già esaminate e disattese in primo grado siano per ciò stesso causa di ammissibilità dell’appello che, a detta di tale orientamento, avrebbe per contenuto l’integrale rivisitazione del punto “attaccato”, con gli stessi poteri del primo giudice e a prescindere dalle ragioni dedotte in sede di gravame. Tale scenario è destinato, invece, a mutare in sede di ricorso per cassazione in cui la censura deve colpire necessariamente uno dei vizi della motivazione di cui all’art.606 lettera e). [9]

Il secondo orientamento che ha alimentato il contrasto giurisprudenziale afferma invece la “sostanziale omogeneità” della valutazione sulla “specificità estrinseca” dei motivi di appello e dei motivi di ricorso per cassazione. Omogeneità che traspare in primo luogo dalla struttura del giudizio di appello. Secondo tale orientamento vi sarebbe “perfetta equiparazione” tra appello e ricorso per cassazione in punto di specificità dei motivi di censura. Ciò discende intanto dalla natura del giudizio di appello che secondo l’orientamento qui in esame non è da intendere come un “nuovo giudizio” ma semplicemente come «uno strumento di controllo o, rectius, di censura su specifici punti e per specifiche ragioni, della decisione impugnata». Ciò con la necessaria e prevedibile conseguenza che l’impugnazione «deve esplicarsi attraverso una critica specifica, mirata e necessariamente puntuale della decisione impugnata e da essa deve trarre gli spazi argomentativi della domanda di una decisione corretta in diritto e in fatto».[10]

Tale ultimo orientamento, è quello accolto dalle Sezioni Unite Galtelli del 2017, che lo ritiene come il più coerente con il piano normativo (ante riforma). In particolare, le Sezioni unite illustrano i tratti comuni e distintivi esistenti tra il giudizio di appello e il ricorso per cassazione. Sotto il primo profilo viene richiamata la collocazione topografica degli art.581 e 591 c.p.p. nel titolo I del libro IX dedicato alle disposizioni generali in materia di impugnazioni. Si tratta di due disposizioni che vanno lette in combinato disposto in quanto alla prima disposizione prevede la forma dell’impugnazione e la seconda ne sanziona con l’inammissibilità la sua mancanza (o parziale mancanza). Sul versante dei tratti distintivi tra i due giudizi si ripropone la distinzione tra mezzi di impugnazione “a critica libera” e quelli “a critica vincolata”. La Corte ribadisce poi come il contrasto interpretativo, che si accinge a risolvere, attiene unicamente alla c.d. “specificità estrinseca” e non anche quella intrinseca su cui vi è, in sua mancanza, concordia nell’applicazione della sanzione dell’inammissibilità.

Secondo la Corte la tesi di riferire la “specificità estrinseca” non solo al ricorso per cassazione ma anche all’appello ha “solide basi sistematiche” oltre che letterali. Infatti, essa non è ostacolata dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti umani in materia di processo equo, la quale, al contrario, richiama la più ampia discrezionalità degli stati sulla configurazione dei mezzi di impugnazione e dei relativi giudizi. Anche se la Corte EDU ha altresì precisato, nel caso Mazzoni c. Italia del 2015, come il margine di apprezzamento riconosciuto agli Stati nel limitare l’accesso delle parti in causa ad un tribunale non è assoluta ma che «essa si concilia con l’art. 6 § 1 soltanto se tendono ad uno scopo legittimo e esse esiste un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi utilizzati e lo scopo perseguito».[11] In altre decisioni la Corte EDU ribadisce come il legislatore, sebbene goda di un libero margine di apprezzamento, nell’architettare i mezzi di impugnazione, incontra tuttavia un limite nel rispetto del principio di proporzionalità: essi infatti non devono essere tali da vanificare il diritto ad una pronuncia di merito ad esempio attraverso l’imposizione di eccessivi formalismi tali da limitare il diritto di difesa dell’impugnante.

Dunque, dal combinato disposto degli artt. 581, 591 e 597 c.p.p. si delinea una prima fase che attiene al controllo dell’ammissibilità e che ha per oggetto, tre le altre, una verifica sulla “specificità estrinseca”. Da ciò si ricava come la c.d. plena cognitio del giudice d’appello assume rilevanza solo nei limiti in cui esso sia legittimamente investito dei suoi poteri. Tale conclusione non può essere messa in dubbio dall’indirizzo che ritiene di valutare con minore rigore la specificità dei motivi di appello rispetto al ricorso per cassazione opponendo il favor impugnationis: in altre parole queste considerazioni non possono portare ad una “sostanziale elisione” del requisito della specificità limitandolo unicamente a quella intrinseca. Del resto, la necessità di valutare anche la “specificità estrinseca” dei motivi di appello trova conferma anche nel fatto che essi non risultano proiettati ad introdurre un nuovo giudizio, diverso e sconnesso da quello di primo grado, ma sarebbero semplicemente diretti ad attivare uno “strumento di controllo” della decisione impugnata. Ciò poiché in un processo accusatorio basato sulla formazione della prova nel contraddittorio tra le parti, il giudizio di appello non può essere inteso come un giudizio “a tutto campo” ma va inteso, viceversa, come un giudizio che deve essere delimitato ad una critica specifica. Il giudizio di appello non sarebbe pertanto, secondo tale indirizzo interpretativo fatto proprio dalle Sezioni Unite Galtelli, una semplice revisio prioris instantiae.

Interessante a questo punto, nell’esame del tema che qui ci occupa, analizzare gli interventi che, sul punto, ha apportato la legge n. 103/2017, anche nota come riforma Orlando. In particolare, nello spirito ambivalente di adeguare, quanto più possibile, il processo penale ai principi sul giusto processo, da un lato e di comporre l’annosa problematica legata all’eccessivo carico giudiziario, dall’altro, la riforma Orlando è intervenuta, relativamente al tema qui in esame, rendendo maggiormente oneroso e quindi “irrobustendo” la specificità dei motivi di impugnazione (e quindi intervenendo sull’art.581 c.p.p.) e in modo speculare rafforzando il contenuto motivazionale delle sentenze (art. 546 comma 1 lett. e)). Di conseguenza ciò ha comportato un ampliamento dei casi di inammissibilità delle impugnazioni non specificatamente motivate.

Sul primo profilo giova precisare come il testo novellato dell’art.581 c.p.p. rubricato “forma dell’impugnazione” richieda la proposizione dell’impugnazione con un atto scritto nel quale devono essere indicati: il provvedimento impugnato, la data e il giudice che lo ha emesso. A ciò aggiungendo «l’enunciazione specifica, a pena di inammissibilità» di una serie di elementi. In primis dei capi e dei punti della decisione ai quali si riferisce l’impugnazione (lettera a); poi una specifica enunciazione delle prove dalle quali l’impugnante deduce «l’inesistenza, l’omessa assunzione o l’omessa o erronea valutazione» (lettera b), «delle richieste anche istruttorie» (lettera c) e non da ultimo dei «motivi attraverso l’indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta» (lettera d). Tutto questo l’impugnante lo dovrà specificare a pena di inammissibilità dell’impugnazione stessa, stante il disposto con l’art.591 comma 1 lett. c) e delimitando, di conseguenza, la cognizione del giudice di secondo grado ai punti e ai capi della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti (art.597 comma 1 c.p.p.). Per il ricorso in cassazione, invece, l’art.581 andrà attentamente coordinata all’art. 606 c.p.p. in quanto per essa i motivi di gravame sono, a pena di inammissibilità del ricorso, unicamente quelli indicati nelle sue cinque lettere (c.d. critica vincolata).

La riforma Orlando ha altresì modificato l’art.546 c.p.p. che discorrendo del contenuto della sentenza, ne indica alla lettera e) «la concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata, con l’indicazione dei risultati acquisiti e dei criteri di valutazione della prova adottati e con l’enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie» con riferimento ad una serie di fattispecie introdotte dalla legge 103/2017, tra cui «accertamento dei fatti e delle circostanze che si riferiscono all’imputazione e alla loro qualificazione giuridica» e poi «alla punibilità e alla determinazione della pena» e «della misura di sicurezza», a cui si aggiunge «la responsabilità civile derivante dal reato» e da ultimo «all’accertamento dei fatti dai quali dipende l’applicazione di norme processuali». Si comprende dunque come se da un lato la riforma Orlando ha irrobustito l’onere motivazionale dell’impugnate, ampliando di conseguenza le possibilità di una decisione di inammissibilità dello stesso, dall’altro lato ciò si spiega con un maggiore onere del giudice all’atto di motivare le sue determinazioni. Ad esempio, se il giudice, dopo la riforma, ha l’onere di esporre il motivo per cui ha ritenuto attendibile una certa legge scientifica o una determinata massima di esperienza nella prova indiziaria, dall’altra parte, il soggetto impugnante dovrà specificare in sede di gravame le prove delle quali egli assume, tra l’latro, l’erronea valutazione. Si tratta in altre parole della creazione di un perfetto parallelismo tra due momenti, due soggetti e due atti che attraverso la sanzione dell’inammissibilità, dovrà favorire una riduzione delle impugnazioni meramente defatiganti e dilatorie, con una conseguenziale riduzione del carico di lavoro degli uffici giudiziari e quindi con una valorizzazione del principio sulla ragionevole durata dei processi così assicurando al cittadino uno dei suoi diritti inviolabili (art.2 Cost.) oltre che di una maggiore tutela dei propri diritti attraverso un giudizio più celere ed efficiente nel suo scopo.

Un’ultima sfumatura, sul tema della specificità dei motivi di impugnazione, va intercettata attraverso una comparazione con gli sviluppi che il processo civile ha conosciuto di recente. In particolare, la disciplina sulla forma dell’atto di appello nel processo civile è contenuta nell’art.342 c.p.c. che ha subito una modificazione per opera del D.L. 22 giugno 2012, n.83, convertito con modificazioni in legge 7 agosto 2012, n.134. nel testo ante riforma, l’art.342 c.p.c. richiedeva semplicemente che l’appello contenesse una «esposizione sommaria dei fatti ed i motivi specifici di impugnazione» a cui non era prevista una sanzione in caso di difetto della specificità. Al silenzio della legge, per il vero, le Sezioni Unite avevano ricondotto tale fattispecie alla sanzione dell’inammissibilità, considerando inidoneità dell’atto così costruito a raggiungere il suo scopo[12]. Successivamente sempre le Sezioni Unite civili hanno anche precisato il perimetro della specificità, in particolare la necessità che essa sia correlata al percorso motivazionale del provvedimento impugnato, precisando come «affinché un capo di sentenza possa ritenersi validamente impugnato, non è sufficiente che nell’atto d’appello sia contenuta una parte argomentativa che, contrapponendosi alla motivazione della sentenza impugnata, con espressa e motivata censura, miri ad incrinarne il fondamento logico-giuridico»[13]. Si tratta di un orientamento pienamente recepito dalla modifica dell’art.342 c.p.c. del 2012. Tale disposizione, infatti, oggi non discorre più di un generico “motivi specifici di impugnazione” ma prevede gli specifici contenuti che l’atto di appello, ora a pena di inammissibilità, deve contenere. In particolate, esso deve contenere l’indicazione delle parti del provvedimento che si intendono impugnare oltre che delle modifiche chieste sulla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado. A ciò si aggiunga altresì «l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata».

Nella stessa direzione va letta la modifica dell’art.434 c.p.c. sulla forma dell’atto di appello in materia di controversie di lavoro. La riforma del 2012 ha infatti introdotto nel nuovo art.348 bis c.p.c. una causa di inammissibilità dell’appello che il giudice deve dichiarare con ordinanza nel momento in cui l’impugnazione «non ha una ragionevole probabilità di essere accolta». Il diritto processuale civile, si spinge, oggi, fino a richiedere un vaglio sulla ragionevolezza della probabilità che la censura sia accolta o se si preferisce una manifesta infondatezza che il giudice dovrà dichiarare con ordinanza.

In conclusione, dall’analisi condotta, sul tema della specificità dei motivi di impugnazione, si è visto come esso sia stato al centro della riforma della legge 103/2017 che se ne è occupata al fine di dare attuazione ai principi costituzionali sul giusto processo e al contempo operando una riduzione del carico di lavoro di cui sono costantemente oberati gli uffici giudiziari. Si è anche esaminato il triplice orientamento di legittimità, ad essa precedente, composta dalla Sezioni Unite Galtelli nel febbraio 2017 che, in modo anche discutibile, ha assimilato la specificità dei motivi di impugnazione del giudizio di appello al ricorso per cassazione nonostante una sostanziale diversità strutturale e di scopo dei due giudizi. Da una brevissima comparazione poi, con il processo civile, si è segnalato una conferma della tendenza al rafforzamento della specificità dei motivi di impugnazione e quindi ad un maggiore rafforzamento del filtro che, per il tramite della sanzione dell’inammissibilità, produce sulla tutela del diritto di azione e difesa delle parti oltre che sul funzionamento della macchina giustizia lato sensu intesa.


[1] Sul punto si veda Sez.6, n. 5489 del 29.04.1999, Bassi.

[2] Sez. U, n. 12602 del 17.12.2015, de. 2016, Ricci.

[3] Si veda ex multis Sez. I, n. 23932 del 17.05.2013, Marini.

[4] Sul punto Sez. 5, n. 28011 del 15.02.2013, Sammarco.

[5] Sez. 2, n.11951 del 29.01.2014, Lavorato.

[6] Sez. 6, n.20377 del 11.03.2009, Arnone.

[7] Sez. 6, n.22445 del 08.05.2009, Candita.

[8] Sez. 6, n.8700 del 21.01.2013, Leonardo.

[9] Su tale orientamento si veda ex multis, Sez. 6, n.13449 del 12.02.2014, Kasem e Sez. 4, n.48469 del 07.12.2011, El Katib.

[10] Sez. 6, n.13621 del 06.02.2003, Valle.

[11] Così al § 39-40, Sez.4, 16.06.2015, Mazzoni c. Italia.

[12] Sul punto Sez.U civ., n.16 del 29.01.2000.

[13] Si veda Sez. U civ., n.23299 del 09.11.2011.


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