La violenza sessuale tra il pubblico e il privato: le Sezioni Unite rispondono

La violenza sessuale tra il pubblico e il privato: le Sezioni Unite rispondono

Cassazione Penale, Sezioni Unite, 1 ottobre 2020 (ud. 16 luglio 2020), n. 27326
Presidente Fumu, Relatore Ramacci

Con ordinanza n. 2888/2020 era stata rimessa alle Sezioni Unite la seguente questione di diritto tema di violenza sessuale con abuso di autorità: «se l’abuso di autorità di cui all’art. 609 bis comma primo c.p. presupponga nell’agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico o se, invece, si riferisca anche a poteri di supremazia di natura privata di cui l’agente abusi per costringere il soggetto passivo a compiere o subire atti sessuali».

La questione ruota, dunque, attorno al concetto di “abuso di autorità” che costituisce, unitamente alla “violenza” o alla “minaccia”, una delle modalità di consumazione del reato di violenza sessuale previsto di cui art. 609-bis, comma 1, c.p.

Pertanto, prima di passare all’analisi del dibattito, è necessario riportare una breve analisi dell’articolo in esame.

In particolare, la fattispecie incriminatrice di cui l’art. 609 bis c.p., rubricato sotto il titolo di “Violenza sessuale”, così come inserito dalla L. n. 66/1996, prospetta due tipi di condotta: la violenza per costrizione di cui al primo comma e la violenza per induzione disciplinata, invece, nel secondo comma del medesimo articolo.

Mentre la prima è tale in quanto realizzata mediante violenza, minaccia o abuso di autorità, quella per induzione il disvalore della condotta risiede nell’abuso delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto, ovvero il colpevole inganna la vittima sostituendosi ad altra persona.

È pacifico che il bene giuridico offeso nel reato di violenza sessuale per costrizione e per induzione sia la libertà sessuale del soggetto passivo.

Ai fini della sua configurabilità si ritiene che qualsiasi costringimento psicofisico,  idoneo ad incidere sull’altrui libertà di autodeterminazione, rilevi ai fini della configurabilità del reato.

Da un punto di vista soggettivo, invece, è sufficiente il dolo generico rappresentato dalla volontaria invasione e compromissione della sfera di libertà sessuale della vittima non consenziente.

Circa l’analisi dell’elemento oggettivo, la nozione di minaccia la si ritiene integrata nel momento in cui qualunque male mostri le proprie capacità di coazione nei confronti della vittima costretta, quindi, a subire gli atti sessuali.

Pertanto, la giurisprudenza è giunta a ritenere che rientri nella nozione di minaccia anche la prospettazione da parte del soggetto agente, di esercitare un diritto quando è finalizzata a conseguire l’ulteriore vantaggio di tipo sessuale.

Per aversi violenza, invece, il soggetto passivo non deve essere tanto impossibilitato ad opporre resistenza all’autore della violenza sessuale, quanto la capacità di quest’ultimo di superare la volontà contraria della vittima.

In tema di violenza sessuale, sono atti sessuali tutti quelli che risultino idonei a compromettere la determinazione del soggetto passivo invadendone la sfera sessuale.

Ne consegue che per decifrare il significato di atto sessuale è necessario fare riferimento sia ad un concetto oggettivistico – anatomico, sia ad un criterio oggettivistico – contestuale che tenga conto, cioè, delle modalità della condotta nel suo complesso. In tal modo è possibile accertare se vi sia stata o meno una compromissione della libera determinazione della sfera sessuale altrui.

L’induzione sufficiente alla sussistenza del reato, invece, non si identifica solo nell’attività di persuasione esercitata sulla persona offesa al fine di convincerla a prestare il proprio consenso all’atto sessuale, ma consiste in ogni forma di sopraffazione posta in essere senza ricorrere ad atti costrittivi ed intimidatori nei confronti della vittima. Questa, peraltro, non potendo opporsi a causa della sua inferiorità, soggiace al volere dell’autore della violenza.

Si giunge, così, all’analisi del concetto di “abuso di autorità” che costituisce, insieme alla minaccia e alla violenza, una delle modalità di consumazione del reato di violenza sessuale ex art. 609 bis c.p..

Come anticipato in premessa, la questione non è stata di pronta soluzione considerato che intorno a tale concetto, per anni si sono contrapposti due orientamenti giurisprudenziali a fronte dei quali era stata rimessa alle Sezioni Unite la seguente questione di diritto con l’ordinanza n. 2888/2020.

In particolare, si è chiesto alla Suprema Corte di stabilire se la locuzione “abuso di autorità” vada confinata alle sole ipotesi di abuso di una formale posizione di potere pubblicistico, come quella del pubblico ufficiale nei confronti di un comune cittadino, oppure possa comprendere anche poteri di supremazia di natura privata, come ad esempio quella di un insegnante privato nei confronti dei propri alunni.

Il caso portato in esame innanzi la Suprema Corte, inoltre, ricomprende un’ipotesi in cui la vittima sia un soggetto minore; la questione, infatti, è di rilevata importanza al fine di delimitare i confini applicativi tra il reato di «violenza sessuale» (art. 609 bis c.p.) e il reato di «atti sessuali con minorenne» (art. 609 quater c.p.).

Il caso di specie riguarda la condotta di un insegnante di inglese che impartiva lezioni private in un garage, imputato di aver compiuto, abusando della propria autorità, atti sessuali con due alunne di età minore degli anni quattordici.

In primo grado il fatto è stato qualificato come reato di “atti sessuali con minorenne” ai sensi dell’art. 609 quater c.p.

La Corte d’appello ha riqualificato i fatti come “violenza sessuale” ai sensi dell’art. 609 bis c.p., peraltro aggravata ai sensi dell’art. 609 ter c.p., n. 1), disposizione che nella formulazione allora vigente riguardava i fatti compiti nei confronti di persona che non ha compiuto gli anni quattordici.

La difesa dell’imputato, nel ricorso in Cassazione, lamenta l’erronea applicazione di legge, sostenendo che la corretta qualificazione del fatto sia quella operata dal giudice di prime cure, ossia quella come reato di atti sessuali con minorenne ex art. 609-quater c.p.

La Corte di Cassazione ha rimesso la questione interpretativa alle Sezioni Unite, rinvenendo sul punto un contrasto giurisprudenziale fra

due diversi indirizzi interpretativi venutisi a formare con riferimento alla violenza sessuale definita “costrittiva” in relazione al concetto di “abuso di autorità”.

Secondo un primo orientamento, che ha preso le mosse da una pronuncia delle Sezioni Unite, la n. 13/2000, si era stabilito che l’abuso di autorità di cui all’art. 609 bis c.p., comma 1, presuppone nell’agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico, escludendone la configurabilità nei confronti di un insegnante privato che aveva compiuto atti sessuali con un minore degli anni sedici a lui affidato per ragioni di istruzione ed educazione.

La Corte, dunque, in quell’occasione, qualificava il fatto come atti sessuali con minorenne ai sensi dell’art. 609 quater c.p..

La sentenza riteneva rilevante, ai fini della soluzione interpretativa prospettata, la circostanza che l’art. 609 bis c.p., comma 1, aveva sostituito quella precedentemente prevista dagli abrogati art. 519 c.p., comma 1 e artt. 520 e 521 c.p., ritenendo l’abuso d’autorità coincidente con l’abuso della qualità di pubblico ufficiale già contemplato dall’art. 520.

Tale soluzione interpretativa faceva perno sulla forza di coartazione scatenata da un esercizio distorto dei poteri connessi con la funzione preminente esercitata dal titolare della posizione sovraordinata.

La decisione delle Sezioni Unite veniva avallata, altresì, da una successiva pronuncia secondo la quale la posizione autoritativa richiesta dall’art. 609 bis c.p., comma 1, deve ritenersi distinta dalla ipotesi di violenza sessuale di cui al n. 1 del comma 2 del medesimo articolo, caratterizzata dall’induzione all’atto sessuale di persona in condizioni di inferiorità fisica o psichica e da quella di atti sessuali compiuti con minori degli anni sedici ad opera dell’ascendente o di altri soggetti in rapporto qualificato con la persona offesa, considerata dall’art. 609 quater c.p., comma 1, n. 2.

La sentenza opera tale distinzione rilevando che, nell’ipotesi di abuso di autorità, vi è la costrizione al compimento degli atti sessuali la quale difetta, invece, negli altri casi, caratterizzati da un consenso viziato dalle condizioni di inferiorità della vittima (art. 609 bis c.p., comma 2, n. 1); consenso che ricorre anche nel reato di atti sessuali con minorenne (art. 609 quater c.p., comma 1, n. 2), ma che si ritiene invalido in conseguenza del rapporto che lega la persona offesa all’autore del reato, sulla base delle tipizzazioni contenute nella norma.

Ulteriore conferma dell’indirizzo in esame, è rinvenibile da altre pronunce in cui veniva valorizzato anche un argomento definito di carattere sistematico, osservando che, considerando l’abuso di autorità riferibile anche a poteri di carattere privatistico, verrebbe meno la possibilità di distinguere l’ipotesi di reato contemplata dall’art. 609 bis c.p., comma 1 dall’ipotesi di rapporto sessuale con abuso di potere parentale o tutorio ora previsto dall’art. 609 quater c.p., comma 2; ciò in quanto l’unica interpretazione idonea a salvaguardare la coerenza normativa è quella che attribuisce carattere pubblicistico all’autorità considerata dalla prima delle richiamate disposizioni e carattere privatistico a quella considerata dalla seconda.

Invero, intendendo come autorità ogni posizione sovraordinata pubblicistica o privatistica, l’art. 609 quater c.p., comma 2, resterebbe praticamente privo di effetti, poiché presuppone espressamente l’inapplicabilità delle ipotesi previste nell’art. 609 bis, tra le quali rientra anche quella di ogni atto sessuale commesso con abuso di autorità.

Alla luce di questo primo indirizzo si rinviene, dunque, una nozione ristretta di abuso di autorità in cui viene ribadita la posizione pubblicistica dell’autore della violenza.

Il diverso orientamento, richiamando la prevalente dottrina, propende invece per un concetto di abuso di autorità più ampio, comprensivo di ogni relazione, anche di natura privata, in cui l’autore del reato riveste una posizione di supremazia della quale si avvale per coartare la volontà della persona offesa.

Ed invero, un caso esaminato dalla Corte configurava la convivenza dell’imputato con la madre del minore quale valido presupposto dell’abuso di autorità, senza, tuttavia, manifestare un esplicito dissenso rispetto alle precedenti decisioni, alle quali fa invece riferimento una successiva pronuncia, ove, esaminando un caso in cui il fatto era stato commesso con abuso della potestà genitoriale, viene dato conto del formarsi di un diverso orientamento che colloca nell’ambito dell’abuso di autorità ogni forma di strumentalizzazione del rapporto di supremazia, senza distinzioni tra autorità pubblica e privata, osservando che, per individuare quest’ultima, viene fatto riferimento all’art. 61 c.p., n. 11.

Il richiamo operato in riferimento all’art. 61 c.p., n. 11 implica la sua compatibilità con il reato di violenza sessuale con abuso di autorità che, peraltro, è stata ripetutamente riconosciuta dalla giurisprudenza.

Osservando che lo stesso si riferisce, indifferentemente, all’abuso di autorità o di relazioni domestiche o di relazioni d’ufficio, di prestazioni d’opera, di coabitazione o di ospitalità e ricordando come la giurisprudenza ne abbia sempre offerto un’interpretazione pacificamente ampia, riferibile indistintamente tanto all’autorità pubblica che a quella privata, mentre quando il legislatore intende considerare una posizione autoritativa di tipo pubblicistico la indica espressamente, come nel caso dell’art. 608 c.p., il quale fa specifico riferimento al “pubblico ufficiale”, menzione che, presente nell’abrogato art. 520 c.p., non è stata ripetuta nella formulazione dell’art. 609 bis c.p. con il preciso fine di sanzionare qualsiasi persona che, dotata di autorità pubblica o privata, abusi della sua posizione per costringere il soggetto passivo a compiere o a subire atti sessuali.

Nondimeno, successive pronunce hanno rilevato che il legislatore, oltre ad utilizzare espressioni diverse (“abuso di autorità” nell’art. 609-bis e “abuso di poteri” nell’art. 609-quater), il delitto di atti sessuali con minorenne, che richiede peraltro una più diretta ed effettiva strumentalizzazione della posizione rivestita dall’agente, si caratterizza per l’assenza di costrizione, richiesta, invece, per la configurabilità della violenza sessuale.

Inoltre, ponendo l’accento anche sulla diversa natura del bene giuridico tutelato rispetto alla previgente disciplina, che non è più la moralità pubblica ed il buon costume, ma la libertà personale, che prescinde dalla rilevanza pubblicistica della posizione di autorità e sulla natura di reato comune della violenza sessuale, rileva anche come la presenza di una clausola di riserva nell’art. 609-quater c.p. sia di per sé idonea a delimitarne l’ambito di operatività rispetto all’art. 609-bis c.p., regolando l’eventuale concorso apparente di norme e che, descrivendo tale ultimo articolo la modalità della condotta come “abuso di autorità”, esso considera la strumentalizzazione della dimensione soggettiva dell’autorità, mentre per l’art. 609 quater, che si riferisce ad un “abuso dei poteri”, rileva la strumentalizzazione della dimensione oggettiva, funzionale, dei poteri connessi alla posizione dell’agente.

Anche la dottrina, come si è detto, propende per una interpretazione ampia del concetto di autorità, pur dando atto, in alcuni casi, della difficoltà di individuare le condotte di abuso di autorità rispetto a quelle in cui la costrizione al compimento degli atti sessuali avviene con minaccia.

Richiamati i contrapposti orientamenti giurisprudenziali che hanno dato origine al contrasto e preso atto di quanto osservato in dottrina, occorre in primo luogo individuare, prima di stabilire quale sia l’origine della posizione autoritativa rilevante per la configurabilità del reato, il significato concreto della locuzione abuso di autorità nel contesto in cui è collocato.

La differente formulazione dei primi due commi dell’art. 609-bis c.p. evidenzia come, nella violenza sessuale “costrittiva”, il soggetto passivo ponga in essere o subisca un evento non voluto poiché ne viene annullata o limitata la capacità di azione e di reazione coartandone la capacità di autodeterminazione, mentre nella violenza sessuale “induttiva” l’agente persuade la persona offesa a sottostare ad atti che, diversamente, non avrebbe compiuto, ovvero a subirli, strumentalizzandone la vulnerabilità e riducendola al rango di un mezzo per il soddisfacimento della sessualità.

In entrambi i casi l’autore del reato incide sul processo formativo della volontà della persona offesa, direttamente compressa, nel primo caso, fino ad impedire ogni diversa opzione ed orientata, nel secondo, conformemente alle intenzioni dell’agente.

Si tratta, a ben vedere, di due situazioni distinte, che rendono evidente come l’abuso di autorità considerato dal comma 1 sia solo quello che determina una vera e propria sopraffazione della volontà della persona offesa che si risolve in una costrizione e non anche una mera induzione, alla quale viene fatto riferimento solo nel comma 2 nei termini dianzi specificati.

Come osservato in dottrina, la condizione in cui versa la persona offesa nei casi di abuso di autorità è una condizione di sudditanza materiale o psicologica ma non psichica e, quindi, di origine patologica in senso stretto.

L’abuso di autorità può, peraltro, ritenersi distinguibile anche dalla minaccia funzionale alla costrizione, menzionata sempre nell’art. 609 bis c.p., comma 1.

Il confine è certamente labile, ma risponde all’esigenza di ampliare l’ambito di operatività del comma 1 fino a ricomprendervi situazioni non riconducibili alla violenza o minaccia ed è individuabile nel senso che, mentre la minaccia determina un’efficacia intimidatoria diretta sul soggetto passivo, costretto a compiere o subire l’atto sessuale, la coartazione che consegue all’abuso di autorità trae origine dal particolare contesto relazionale di soggezione tra autore e vittima del reato determinato dal ruolo autoritativo del primo, creando le condizioni per cui alla seconda non residuano valide alternative di scelta rispetto al compimento o all’accettazione dell’atto sessuale che, consegue, dunque, alla strumentalizzazione di una posizione di supremazia.

Secondo le Sezioni Unite non vi sono validi argomenti per accedere all’interpretazione maggiormente restrittiva del concetto di abuso di autorità nei termini prospettati dal primo degli indirizzi giurisprudenziali richiamati in precedenza.

Invero, la collocazione del delitto di violenza sessuale tra quelli contro la libertà personale e la pacifica natura di reato comune rendono evidente l’intenzione del legislatore di ampliare l’ambito di operatività della fattispecie e svincolano del tutto l’art. 609 bis c.p. dai riferimenti alla figura del pubblico ufficiale di cui all’abrogato art. 520 c.p., la cui posizione, secondo la lettura della norma offerta dalla giurisprudenza, era di per sé sufficiente alla configurazione del reato.

A riguardo non si richiedeva la costrizione, bensì il solo nesso occasionale tra la posizione di pubblico ufficiale ed il fatto, tanto da ritenersi penalmente rilevante la condotta posta in essere con soggetto consenziente o indotta dal soggetto passivo, essendo peraltro il reato configurabile soltanto quando quest’ultimo fosse una persona arrestata, detenuta o in affidamento per esecuzione di un provvedimento dell’autorità.

Corretta risulta, poi, l’osservazione secondo cui, quando la legge ha inteso riferirsi a soggetti che rivestono una posizione autoritativa formale, lo ha fatto espressamente, come nel caso dell’art. 608 c.p., concernente l’abuso di autorità contro arrestati o detenuti, mentre in altre disposizioni il concetto di autorità è inteso in senso ampio, pacificamente comprensivo di posizioni di preminenza non necessariamente di derivazione pubblicistica, come, ad esempio, nel caso dell’art. 61 c.p., n. 11, richiamato dalla giurisprudenza in precedenza menzionata e confrontato anche con il n. 9 del medesimo articolo, ovvero in altre disposizioni richiamate dalla dottrina, quali l’ormai abrogato art. 671 c.p., l’art. 600-octies c.p., comma 1, che attualmente sanziona condotte analoghe e gli artt. 571, 600 e 601 c.p..

A sostegno della interpretazione estensiva è, inoltre, il richiamo alla clausola di riserva e alla diversa formulazione che si riferisce non all’abuso di autorità bensì all’abuso di poteri, nonché alla diversa conformazione della condotta sanzionata che non richiede la costrizione del minore, il quale è ritenuto non capace di esprimere un valido consenso (in ragione dell’età o del rapporto che lo lega al soggetto attivo)

Consegue che il bene giuridico del reato non è la libertà di autodeterminazione del minore ma la sua integrità fisio-psichica nella prospettiva di un corretto sviluppo della propria.

Tali considerazioni trovano ulteriore conferma nel fatto che colui che riconosce l’autorità di chi la esercita subisce, senza reagire, gli atti che ne derivano, sicché in un simile contesto, non può validamente sostenersi che il riconoscimento dell’autorità debba avere esclusivamente natura formale e pubblicistica.

Una simile interpretazione risulta, invero, in evidente contrasto con l’esigenza di tutelare la libertà sessuale della persona che la legge persegue.

A tal fine sono collocabili nella fattispecie astratta di cui all’art. 609 bis c.p., comma 1 anche situazioni che, altrimenti, ne resterebbero escluse, quali quelle derivanti da rapporti di natura privatistica o di mero fatto, come, ad esempio, nel caso dei rapporti di lavoro dipendente (anche irregolare), ovvero di situazioni di supremazia riscontrabili in ambito sportivo, religioso, professionale ed all’interno di determinate comunità, associazioni o gruppi di individui.

Accedendo, pertanto, alla tesi più restrittiva, la prevaricazione esercitata dall’agente sulla persona offesa sarebbe valutabile in sede penale solo se collocabile nell’ambito della minaccia o dell’abuso delle condizioni di inferiorità psichica, restandone esclusa qualora il compimento dell’atto sessuale con soggetto non consenziente avvenga in assenza dei presupposti caratterizzanti le suddette forme di coartazione o induzione.

Alla luce delle suesposte considerazioni, le Sezioni Unite escludono la natura formale e pubblicistica dell’autorità di cui l’agente abusa nel commettere il reato di cui all’art. 609bis c.p..

Pertanto, secondo la Corte, occorre stabilire se l’autorità “privata” sia solo quella che deriva dalla legge o anche un’autorità di fatto.

Conseguentemente alle premesse indicate, è opportuno ritenere corretta la seconda ipotesi, poiché, se ciò che rileva è la coartazione della volontà della vittima, posta in essere da una posizione di preminenza, la specifica qualità del soggetto agente resta in secondo piano rispetto alla strumentalizzazione di tale posizione, quale ne sia l’origine.

Va peraltro osservato che il riconoscimento della validità della interpretazione più ampia del concetto di abuso di autorità non incide negativamente sul principio di tipicità.

A tale proposito, si rammenta che, tra le finalità della L. n. 66/1996 vi era quella di assicurare la massima tutela a tutti coloro che, per caratteristiche personali o in ragione del contesto ambientale o relazionale che li vede coinvolti, vengano indotti o costretti a compiere o subire atti sessuali, sicché una nozione ampia del concetto di autorità risulta del tutto coerente con gli scopi perseguiti dal legislatore.

Inoltre, la sussistenza oggettiva del rapporto autoritario così come in precedenza individuato, deve essere inequivocabilmente dimostrata mediante un’analisi concreta della dinamica dei fatti idonea a porre in luce un rapporto di soggezione effettivamente intercorrente tra l’agente e la vittima del reato.

Deve, poi, essere dimostrata anche l’arbitraria utilizzazione del potere, dando anche conto della correlazione esistente tra l’abuso di autorità e le conseguenze sulla capacità di autodeterminazione della persona offesa, poiché una condotta che dovesse diversamente estrinsecarsi dovrebbe inevitabilmente essere inquadrata nelle contermini ipotesi di minaccia o induzione.

In altre parole, per la configurabilità del reato in esame occorre dimostrare non soltanto l’esistenza di un rapporto di autorità tra autore del reato e vittima diverso dalla mera costrizione fisica e dalle richiamate ipotesi di minaccia ed induzione, ma anche che di tale posizione di supremazia l’agente abbia abusato al fine di costringere la persona offesa a compiere o subire un atto sessuale al quale non avrebbe in altro contesto consentito, dovendosi dunque escludere la possibilità di desumere la costruzione in via meramente presuntiva sulla base della posizione autoritativa del soggetto agente.

Quanto in precedenza rilevato consente, infine, di ritenere rilevante, per la configurabilità del reato, la valenza coercitiva dell’abuso di autorità tanto nel caso in cui la posizione di preminenza dell’agente sia venuta meno, permanendo tuttavia una condizione di soggezione psicologica derivante dall’autorità da questi già esercitata, quanto in quello di relazione di dipendenza indiretta tra autore e vittima del reato, quando il primo, abusando della sua autorità, concorre con un terzo che compie l’atto sessuale non voluto dalla persona offesa.

Alla stregua di quanto precede, le Sezioni Unite hanno posto fine ad uno storico dibattito giurisprudenziale enunciando il seguente principio di diritto: “L’abuso di autorità cui si riferisce l’art. 609-bis c.p., comma 1, presuppone una posizione di preminenza, anche di fatto e di natura privata, che l’agente strumentalizza per costringere il soggetto passivo a compiere o subire atti sessuali”.


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