Le cause di giustificazione del reato: le c.d. esimenti “culturali”

Le cause di giustificazione del reato: le c.d. esimenti “culturali”

Le cause di giustificazione, anche dette scriminanti, sono situazioni particolari contemplate dalla legge in presenza delle quali un fatto, altrimenti integrante una fattispecie criminosa, viene ad esser considerato lecito, in quanto l’ordinamento giuridico lo consente o, in alcuni casi, lo impone.

Le c.d. scriminanti sono disciplinate a livello codicistico sia nella parte generale, si parla in questo caso di scriminanti comuni, sia nella parte speciale e nella legislazione complementare relativamente a specifiche fattispecie incriminatrici, si parla in questo caso di scriminanti speciali.

Sotto il profilo dottrinale, le cause di giustificazione vengono collocate – a livello sistematico – in maniera differente a seconda che si aderisca alla teoria bipartita o tripartita.

Nel dettaglio, secondo la teoria bipartita le scriminanti sono elementi negativi del fatto, sicché la loro assenza è necessaria affinché un fatto concreto possa ritenersi tipico e, dunque, costituire un reato. Ne discende che, laddove rilevino le scriminanti, il fatto è atipico e, pertanto, lecito.

Secondo la teoria tripartita, le cause di giustificazione attengono al profilo dell’antigiuridicità, da intendersi come contrarietà di un fatto tipico alle norme dell’ordinamento giuridico. Da ciò ne deriva che la presenza di una scriminante rende il fatto lecito e, quindi, non antigiuridico (ergo, non in contrasto con le norme del diritto).

Sul piano oggettivo, giova precisare che le cause di giustificazione escludono la configurabilità del reato anche laddove non conosciute dal soggetto agente e sono suscettibili di applicazione anche ai c.d. concorrenti nel reato, ai sensi dell’art. 110 c.p., rubricato “Pena per coloro che concorrono nel reato”.

Le scriminanti si distinguono in: cause di esclusione della colpevolezza (anche dette scusanti), che incidono esclusivamente sull’elemento soggettivo del reato escludendo la colpevolezza, pur permanendo il fatto illecito sotto il profilo oggettivo; cause di esclusione della pena (anche dette cause di non punibilità), che non intervengono sulla struttura del reato ma semplicemente inibiscono l’applicazione di una sanzione penale ad un fatto oggettivamente e soggettivamente illecito; cause di estinzione del reato, le quali intervengono ex post sul reato già perfezionatosi in tutti i suoi elementi costitutivi, determinando la rinuncia dello Stato a far valere la pretesa punitiva.

Nell’ambito delle cause di giustificazione assumono notevole rilievo le c.d. esimenti “culturali”.

Tali scriminanti affondano le proprie radici nel crescente afflusso di migranti provenienti dall’Africa, dall’Asia, dall’Europa orientale in Europa occidentale. Naturalmente la convivenza – nel medesimo territorio – di un numero di persone eterogeneo sotto il profilo etnico, linguistico e religioso determina, dal punto di vista del sistema penale, un conflitto normo-culturale.

In tal senso, è frequente che si verifichino delle situazioni di antinomia tra il sistema giuridico nazionale del Paese ospitante – che considera e qualifica come penalmente rilevante una determinata condotta – e quello del Paese di provenienza dei vari gruppi di immigrati, che considera assolutamente lecita la medesima condotta.

Orbene, tali reati, la cui commissione inerisce al suddetto conflitto normativo, vengono denominati in dottrina come “reati culturalmente orientati” (c.d. cultural defense).

In altri termini, trattasi di condotte poste in essere sul territorio italiano da soggetti appartenenti ad etnie differenti, che costituiscono reati per il nostro ordinamento e che – per converso – sono considerate lecite e, dunque, approvate, dal contesto culturale del Paese di provenienza dell’agente.

Le c.d. esimenti “culturali” rappresentano, senza alcun dubbio, una categoria ampia ed eterogenea, in relazione alle quali si ricollegano diverse categorie di reati: violenze in famiglia, reati di difesa dell’onore, reati di riduzione in schiavitù a danno di minori, reati contro la libertà sessuale, mutilazioni genitali femminili, circoncisioni maschili rituali e tatuaggi ornamentali, reati in materia di sostanze stupefacenti, fatti consistenti nel rifiuto dei genitori di mandare i figli a scuola e reati concernenti l’abbigliamento rituale.

Seppur in assenza di una specifica norma che affronti il problema del ruolo da riconoscere alla diversità culturale nell’accertamento della responsabilità penale per i reati culturalmente orientati, il legislatore – mediante l’introduzione dell’art. 583 bis c.p. – ha espressamente incriminato una di quelle condotte frequentemente oggetto di tale tipologia di illeciti penali, ossia quella delle mutilazioni e lesioni genitali femminili.

La giurisprudenza peraltro si è pronunciata di frequente in ordine a tali condotte, rilevando – in maniera pressoché unanime – l’inammissibilità di tali scriminanti.

Sul punto, giova precisare che, a partire dalla fine degli anni ’90, si è delineato l’indirizzo giurisprudenziale prevalente e consolidato secondo il quale le norme costituzionali che riconoscono i diritti fondamentali dell’uomo sono intangibili, con la conseguenza che è da escludersi che il riconoscimento della “diversità culturale” possa estendersi fino all’accettazione – nel nostro ordinamento – di costumi, usi, consuetudini suscettibili di ledere la pari dignità sociale, l’uguaglianza tra i sessi, i diritti della famiglia e dei minori, i doveri dei genitori verso i figli (tra le tante, Cass. Pen., Sez. VI, 17.12.2009, n. 48272; Cass. Pen., Sez. VI, 05.07.2011, n. 26153).

La Suprema Corte ha avuto modo di pronunciarsi nuovamente in ordine alla rilevanza da riconoscere alle c.d. esimenti “culturali”, rilevando che il soggetto che si inserisce in una società multietnica è tenuto a prestare osservanza all’obbligo giuridico di “verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano e, quindi della liceità di essi in relazione all’ordinamento giuridico che la disciplina, non essendo, di conseguenza, riconoscibile una posizione di buona fede in chi, pur nella consapevolezza di essersi trasferito in un paese diverso e in una società in cui convivono culture e costumi differenti dai propri, presume di avere il diritto – non riconosciuto da alcuna norma internazionale – di proseguire in condotte che, seppure ritenute culturalmente accettabili e quindi lecite secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, risultano oggettivamente incompatibili con le regole proprie della compagine sociale in cui ha scelto di vivere” (Cass. Pen., Sez. III, 13.04.2015, n. 14960).

Dalla lettura di tale pronuncia, è possibile evincere l’ormai noto principio secondo il quale è obbligo dell’immigrato conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale, in cui ha liberamente scelto di inserirsi, e verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano e, dunque, la liceità di essi in relazione all’ordinamento giuridico che la disciplina.

Su tema è intervenuta anche la dottrina, elaborando una sorta di “test culturale”, utilizzabile dai giudici penali chiamati a decidere in ordine a quei casi concreti in cui l’imputato si difenda invocando la cultura del proprio paese di provenienza.

Secondo quest’ultimo orientamento dottrinale, il riconoscimento del fattore causale dovrebbe passare mediante la ponderazione di tre – imprescindibili – variabili: la prima, rappresentata dal livello di offensività del fatto commesso, così come risultante dal bene giuridico offeso, dal suo rango, dalla sua eventuale titolarità in capo ad una vittima determinata, nonché dal grado di offesa da esso subito; la seconda, rappresentata dalla natura della norma culturale in adesione alla quale è stato commesso il reato (ad es. se trattasi di norma religiosa, norma di diritto positivo); infine, la terza ed ultima, da ravvisare nella biografia del soggetto agente, per quanto concerne – nello specifico – il suo grado di integrazione nella cultura del Paese d’arrivo e, reciprocamente, il suo grado di perdurante adesione alla cultura d’origine.

Naturalmente, è doveroso precisare che, mentre la prima delle tre variabili del predetto “test” preclude qualsiasi esito assolutorio laddove vengano ad essere offesi beni giuridici fondamentali della persona, la considerazione delle altre due restanti variabili potrebbe consentire di attribuire rilievo alla motivazione culturale, quantomeno ai fini della quantificazione della punibilità.

In conclusione, attraverso un’attenta ponderazione delle tre variabili ut supra, è dunque possibile approdare – in presenza di determinati presupposti – ad un prudente riconoscimento benevolo del fattore causale.


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