Le misure di sicurezza patrimoniali: “la cauzione di buona condotta” e “le confische”

Le misure di sicurezza patrimoniali: “la cauzione di buona condotta” e “le confische”

Premessa. La teoria del sistema del c.d. “doppio binario” costituisce una delle più significative novità introdotte dal Codice Penale Rocco del 1930, fondata sulla previsione di due differenti piani sanzionatori: da un lato, la pena, inflitta in funzione della colpevolezza del reo e, dall’altro, le misure di sicurezza, applicate in relazione alla pericolosità sociale dello stesso.

Il sistema sanzionatorio del “doppio binario” nacque con l’obiettivo di conciliare i fondamenti della scuola classica di diritto penale con quelli della scuola positiva.  Venne a coniugarsi, da un lato, l’idea che un uomo, che abbia coscienza e volontà delle proprie condotte, possa essere sottoposto alla sanzione della pena, dall’altro, la teoria secondo cui un soggetto socialmente pericoloso  – anche eventualmente non imputabile – influenzato da una pluralità di fattori sociali, ambientali o patologici, possa essere controllato attraverso misure di sicurezza, al fine di neutralizzarne la pericolosità, in un’ottica di prevenzione sociale post delictum.

In particolare, le misure di sicurezza – disciplinate dagli artt. 199 e seguenti del codice penale, nonché dall’articolo 25, co. III, della Costituzione – che estende espressamente alle stesse il principio della riserva di legge – rappresentano degli speciali mezzi di prevenzione della delinquenza ad applicazione individuale. Tali provvedimenti di natura rieducativa, risocializzante, curativa ovvero anche di carattere cautelativo, sono applicabili dall’Autorità Giudiziaria, all’esito di un giudizio di pericolosità sociale (ad es. in virtù della dichiarazione di abitualità), alternativamente o cumulativamente rispetto alla pena, in ragione di determinate situazioni in cui il reo si presenti come una minaccia per la collettività.

Sotto il profilo temporale, ai sensi dell’art. 200 del codice penale, si deve sottolineare come, al contrario delle pene, le misure di sicurezza siano regolate dalla legge vigente al momento della loro applicazione e non da quella sussistente al momento della commissione del fatto di reato, secondo il principio del “tempus regit actum”.

I presupposti applicativi delle stesse sono rappresentati dall’elemento oggettivo della commissione di un fatto previsto dalla legge come reato o di un c.d. “quasi reato” (reato impossibile ex art.49 c.p.[1]; istigazione ex art. 115 c.p.[2]), nonché dall’elemento soggettivo della pericolosità sociale in capo al reo, desunta dalle circostanze indicate nell’art. 133 c.p., in relazione alla capacità dello stesso a delinquere.

Le misure di sicurezza sono state, nel corso degli anni, oggetto di accese critiche da parte della dottrina, determinate dal fatto che il Legislatore non abbia previsto una durata massima per l’esecuzione delle stesse.

La durata delle misure di sicurezza è, infatti, indeterminata nel massimo, poiché collegata al protrarsi o alla cessazione della pericolosità sociale del reo.

In ogni caso, l’articolo 69 dell’ordinamento penitenziario, al IV comma, stabilisce che il magistrato di sorveglianza “provvede al riesame della pericolosità ai sensi del primo e secondo comma dell’articolo 208 del codice penale, nonché all’applicazione, esecuzione, trasformazione o revoca, anche anticipata, delle misure di sicurezza. Provvede altresì, con decreto motivato, in occasione dei provvedimenti anzidetti, alla eventuale revoca della dichiarazione di delinquenza abituale, professionale o per tendenza di cui agli articoli 102, 103, 104, 105 e 108 del codice penale”.

Il Titolo VIII del Libro I del codice penale dedica il primo Capo alle “misure di sicurezza personali” – di carattere detentivo e non detentivo, le quali sono volte a limitare la libertà personale dell’individuo – ed il secondo Capo alle “misure di sicurezza patrimoniali” che incidono, invece, sul patrimonio del reo.

Queste ultime, in relazione alle quali si sofferma il presente elaborato, si sostanziano, ai sensi dell’art. 236, co. I, del codice penale, nella “cauzione di buona condotta” e nella “confisca”, oltre alle ulteriori ipotesi specificatamente previste da particolari disposizioni di legge.

La cauzione di buona condotta. Tanto premesso in relazione alla disciplina generale che regola le misure di sicurezza, è possibile procedere all’analisi della cauzione di buona condotta, istituto quest’ultimo che si inserisce nel Capo II del Titolo VIII del codice penale, disciplinato dall’art. 236 all’art. 239 e fondato sull’ obbligo “de non delinquendo”.

Ai sensi dell’art. 237 c.p., l’istituto in esame consiste nel deposito, presso la Cassa delle ammende, di una somma di denaro non inferiore ad euro 103, 29 e non superiore ad euro 2.065,83€, fermo restando la possibilità, prevista dal successivo secondo comma, di prestare, in luogo della predetta prestazione, “una garanzia mediante ipoteca o anche mediante fideiussione solidale”.

La somma è mantenuta in deposito per un periodo minimo di un anno e massimo di cinque anni, decorrente dal giorno in cui la cauzione viene prestata.

Il terzo comma dell’art. 236 c.p. estende a tale istituto i presupposti oggettivi e soggettivi di cui agli artt. 202 e 203 c.p., nonché la disciplina della revoca della misura, ai sensi dell’art. 207 c.p., qualora il soggetto ad essa sottoposto non risulti più socialmente pericoloso, a seguito di accertamento da parte del giudice.

In virtù dell’art. 238 c.p., qualora la misura de qua sia disposta dal giudice ed il deposito della somma non sia eseguito o la garanzia anzidetta non sia prestata, l’autorità giudicante sarà tenuta a sostituire la cauzione con la misura di sicurezza personale della libertà vigilata ex art. 228 c.p.

Nel caso in cui il reo assuma, invece, una buona condotta e, durante l’esecuzione della misura di sicurezza, non commetta delitti ovvero contravvenzioni per le quali la legge stabilisce la pena dell’arresto, l’art. 239 c.p.  dispone la restituzione della somma di denaro depositata ovvero la cancellazione dell’ipoteca o ancora l’estinzione della fideiussione.

Viceversa, ai sensi dell’art. 239, co. II, c.p., qualora il soggetto trasgredisca l’obbligo di buona condotta, la somma depositata o per la quale venne data garanzia, è devoluta alla Cassa delle ammende.

Appare evidente la ratio dell’istituto: tentare di neutralizzare la pericolosità sociale del reo, evitando che lo stesso, temendo di poter perdere il denaro depositato, commetta ulteriori reati, in un’ottica, altresì, di risocializzazione e rieducazione.

La confisca ex art 240 c.p. La misura di sicurezza patrimoniale della confisca, nella sua forma tradizionale prevista dall’art. 240 c.p., consiste in un atto di sottrazione totale o parziale ad un soggetto privato da parte dello Stato delle cose che servirono o furono destinate a commettere un reato ovvero di qui beni che ne rappresentano il prodotto, il profitto o il prezzo.

Tale misura ha carattere definitivo e perpetuo e non viene meno neppure in caso di estinzione del reato o della relativa pena.

In generale, la ratio sottesa a tale istituto è quella di prevenire la reiterazione di fattispecie criminose, mediante l’espropriazione di beni che, provenendo da reati o comunque strettamente collegati all’ esecuzione degli stessi, mantengono viva l’idea e l’attrattiva del reato.

La confisca rappresenta una misura di sicurezza “reale”, diretta conseguenza della commissione di un illecito penale o comunque di un’attività pericolosa, che va ad interessare cose mobili o immobili ed è esperibile sia in via facoltativa, che obbligatoria, a seconda del tipo di relazione intercorrente tra i beni ed il reato e dall’illecito commesso.

Come da insegnamento della Suprema Corte di Cassazione, i beni confiscabili devono essere strettamente correlati al fatto di reato. Tale misura è infatti circoscritta a quelle sole cose che sono avvinte da un nesso eziologico diretto ed immediato con il fatto illecito commesso. Il collegamento deve essere stabile e funzionale e tale da rilevare effettivamente la probabilità di commissione di ulteriori fatti illeciti[3].

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza n. 26654 del 2008, hanno evidenziato le plurime sfaccettature e la diversa natura giuridica che tale istituto assume nell’ordinamento penale, definendola di natura “proteiforme”[4].

Alla confisca diretta, di cui all’art. 240 c.p., sono state, infatti, progressivamente affiancate, all’interno del codice penale, una serie di ulteriori misure, connotate da presupposti ed effetti differenti, come nel caso della confisca per equivalente, nonché della c.d. confisca allargata, confluita nel testo dell’art. 240 bis c.p., ad opera del decreto legislativo n. 21 del 2018, insieme a tutta una serie di altre ipotesi contenute in altri specifici articoli del codice penale, come nel caso dell’art. 322 ter,  in tema di reati contro la pubblica amministrazione, o dell’art. 270 septies, in relazione ai delitti commessi con finalità di terrorismo o ancora nelle leggi speciali, come nel  caso degli articoli 73 e 74 del Testo unico degli stupefacenti.

In relazione al presupposto della pericolosità sociale del reo, ai fini dell’applicazione della confisca, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, nel 2014, si è espressa sul punto affermando che il presupposto della pericolosità sociale del soggetto “non nasce da una considerazione della personalità della persona in sé, quanto piuttosto dal collegamento con la cosa oggetto della confisca, che può rappresentare uno stimolo alla commissione di altri reati”[5].

L’art. 240 c.p. prevede che, per quanto concerne le cose “strumentali” che servirono o furono destinate a commettere il reato e per le cose che ne rappresentano il prodotto od il profitto, la confisca sia facoltativa, mentre per quanto riguarda le cose che ne costituiscono il prezzo e quei beni illeciti, la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione o alienazione costituisce reato, oppure per gli strumenti informatici utilizzati per commettere reati informatici, la confisca si configuri, invece, per l’autorità giudiziaria come obbligatoria.

Nei casi in cui si tratti di beni illeciti, la confisca degli stessi sarà comunque obbligatoria, indipendentemente dal fatto che si pervenga ad una sentenza di condanna (ad esempio, nel caso di detenzione di sostanza stupefacente ai sensi sell’art 73, comma V, D.P.R. 309/1990).

Il comma 3 del suddetto articolo prevede una speciale tutela per i soggetti terzi, affermando che per quanto concerne le ipotesi di confisca facoltativa e prevista dai numeri 1 e 1-bis del secondo comma, non sia possibile disporre la confisca se i beni appartengano a persona estranea al reato.

La confisca per equivalente. La confisca per equivalente, introdotta dal decreto legislativo n. 202 del 2016 in relazione ai reati informatici, confluita nel testo dell’art. 240, co. II, n. 1 bis c.p., viene definita altresì come “confisca di valore” e rappresenta un istituto innovativo all’interno dell’ordinamento nazionale.

La confisca “tradizionale”, nel corso del tempo, non si è mostrata sempre adeguata e sufficiente rispetto a specifiche forme di criminalità.

A partire dalla metà gli anni ’90, il Legislatore nazionale ha dovuto introdurre, all’interno dell’ordinamento, nuove tipologie di confisca, come la c.d. “confisca per equivalente”, introdotta dalla legge 29 settembre 2000, n. 300 per alcuni reati previsti dal codice penale e rivelatasi particolarmente efficace in relazione ad una pluralità di fattispecie, riconducibili alla criminalità c.d. “di profitto”, come nel caso della criminalità organizzata.

Tale misura rappresentò – e costituisce tutt’oggi –  un importante strumento volto alla lotta contro la criminalità, permettendo di confiscare anche dei beni di valore equivalente rispetto a quelli strettamente correlati al reato, nel caso in cui questi ultimi non possano essere rinvenuti dalle autorità.

La confisca può essere, infatti, diretta, quando la procedura ablativa ha di mira esattamente il bene che ha costituito il prezzo, il prodotto o il profitto del reato, oppure, in via residuale, per equivalente, allorquando, essendo impossibile la confisca diretta di tali beni, si procede a colpire ulteriori e diversi beni di cui il reo abbia anche la mera disponibilità per un valore agli stessi corrispondente.

Tale misura, proprio in virtù del suo carattere indiretto, è destinata ad operare solo in via sussidiaria rispetto alla confisca tradizionale, pertanto, solo laddove non sino stati rinvenuti dall’autorità giudiziari quei beni che rappresentano il prezzo, profitto, prodotto del reato o quelle cose ad esso strumentali.

Proprio per l’assenza di un rapporto di pertinenza tra i beni confiscabili ed il reato, ne deriva l’assenza di pericolosità in capo agli stessi, da cui è conseguito un acceso dibattito circa il carattere prettamente sanzionatori e afflittivo di tale misura, diversamente dalla confisca tradizionale, caratterizzata, viceversa, dalla diversa funzione preventiva, propria delle ordinarie misure di sicurezza.

La confisca allargata ex art. 240 bis c.p. La confisca c.d. allargata trova il proprio fondamento normativo all’interno dell’art 12 sexies del decreto-legge n. 306 del 1992 ed è oggi confluita nell’art. 240 bis c.p. per effetto del Decreto Legislativo n. 21 del 2018, rubricato “ Confisca in casi particolari”.

Tale misura prevede che nei casi di condanna (anche all’esito di sentenza di patteggiamento) per taluno dei reati tassativamente indicati, è sempre disposta la confisca del denaro, dei beni e delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza.

Sulla scorta del comma II dell’art 240 bis c.p., in caso di gravissimi reati, quali l’associazione per delinquere di stampo mafioso, la riduzione in schiavitù e tratta e commercio di schiavi, l’estorsione ed il sequestro di persona a scopo di estorsione, l’usura, la ricettazione, il riciclaggio, il traffico di stupefacenti etc, “è sempre disposta la confisca del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica”. Tale strumento può essere applicato sia nella fase cautelare, con il sequestro preventivo, sulla base di gravi indizi di colpevolezza, o a seguito di sentenza di condanna, attraverso la confisca definitiva.

Siffatta tipologia di misura di sicurezza viene definita “allargata”, proprio in considerazione del suo oggetto, il quale, in relazione alla condanna per una serie tassativa di reati, travalica i tradizionali confini del prodotto, profitto, prezzo del singolo reato, estendendosi invece, sull’intero patrimonio personale del reo.

Tale confisca permette, infatti, allo Stato di agire mediante l’ablazione di tutti quei beni di cui il destinatario della misura non possa legittimamente giustificare la loro provenienza e di cui, anche per interposta persona, risulti esserne il titolare o averne la disponibilità a qualsiasi titolo, in valore sproporzionato rispetti al reddito dichiarato ai fini delle imposte o alla propria attività economica, ecco perché viene altresì definita confisca “per sproporzione”.

Al fine dell’applicazione di tale istituto, diversamente dalla confisca tradizionale, non è richiesta la provenienza illecita dei beni, ma si pone invece in risalto la sproporzione tra reddito dichiarato ed il valore delle cose oggetto di confisca, ponendo a carico del soggetto interessato l’onere di fornire la documentazione attestante la loro legittima provenienza.

 

 

 

 


[1] Art 49 c.p. “Non è punibile chi commette un fatto non costituente reato, nella supposizione erronea che esso costituisca reato. La punibilità è altresì esclusa quando, per la inidoneità dell’azione o per la inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso.  Nei casi preveduti dalle disposizioni precedenti, se concorrono nel fatto gli elementi costitutivi di un reato diverso, si applica la pena stabilita per il reato effettivamente commesso. Nel caso indicato nel primo capoverso, il giudice può ordinare che l’imputato prosciolto sia sottoposto a misura di sicurezza”.
[2] Art. 115 c.p. “Salvo che la legge disponga altrimenti [270, 271, 304, 305, 306], qualora due o più persone si accordino allo scopo di commettere un reato, e questo non sia commesso, nessuna di esse è punibile per il solo fatto dell’accordo. Nondimeno, nel caso di accordo per commettere un delitto, il giudice può applicare una misura di sicurezza [229]. Le stesse disposizioni si applicano nel caso di istigazione a commettere un reato [266, 302, 322, 327, 414, 415], se l’istigazione è stata accolta, ma il reato non è stato commesso). Qualora l’istigazione non sia stata accolta, e si sia trattato d’istigazione a un delitto, l’istigatore può essere sottoposto a misure di sicurezza.”
[3] Corte di Cassazione, Sez. VI, n. 6062 del 2015 “La confisca facoltativa prevista dall’art. 240 comma 1 cod. pen. è legittima quando sia dimostrata una relazione di asservimento tra cosa e reato, dovendo la prima essere collegata al secondo non da un rapporto di mera occasionalità, ma da uno stretto nesso strumentale, rivelatore dell’effettiva probabilità del ripetersi di un’attività punibile”.
[4] Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penali, Sentenza 27 marzo 2008 (dep. 2 luglio 2008), n. 26654.
[5] Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penali, Sentenza 26 giugno 2014 (dep. 2 febbraio 2015), n. 4880.

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