Le Neuroscienze ed il paradigma della nuova prova scientifica

Le Neuroscienze ed il paradigma della nuova prova scientifica

1.1 Le tecniche neuroscientifiche

Il termine neuroscienza inizia a essere impiegato negli anni sessanta del XX  secolo per definire “un insieme di discipline aventi ad oggetto vari aspetti del sistema nervoso cerebrale mediante l’apporto di numerose branche della ricerca biomedica, che includono, tra le altre, la neurofisiologia, la farmacologia, la biochimica, la biologia molecolare, la biologia cellulare, le tecniche di neuroradiologia  e la genetica .”[1]

Le neuroscienze consentirebbero di individuare e comprendere i cc. dd. substrati neurali dei processi mentali e del comportamento umano, misurando la struttura e la funzionalità del cervello. Attraverso degli studi che hanno ad oggetto i meccanismi neurologici a livello molecolare, biochimico e genetico, riusciamo a costituire la piattaforma programmatica delle nostre condotte.

Una prima classificazione secondo Gazzaniga può esser compiuta tra:

  • neuroscienze cognitive: che si fondano sugli studi della psicologia cognitiva, introducendo nuove tecniche di indagine tanto in relazione alla struttura che al funzionamento del cervello. Esse si occupano dei meccanismi biologici sottesi ai processi cognitivi, con particolare attenzione ai substrati neurali dei processi mentali  (percezioni,  decisioni,  memoria,  emozione,  linguaggio,  apprendimento) che  stanno  alla  base  dell’agire  umano;

  • neuroscienze comportamentali: che studiano alcuni aspetti  della  personalità umana tra cui l’intelligenza, l’introversione e l’estroversione, il comportamento aggressivo e antisociale, l’orientamento sessuale, l’abuso di alcool o di droghe, “nel tentativo di individuare i geni che possano giocare un ruolo nel determinare l’espressione di tali tratti”[2]

  • neuroscienze forensi: che si occupano delle problematiche relative alla idoneità delle teorie e delle metodologie neuroscientifiche a costituire valida prova scientifica all’interno del processo. Le tecniche neuroscientifiche utilizzate nel processo si distinguono invece in: 1) tecniche neuroscientifiche in cui l’individuo rileva come “fonte di prova reale”: in questo senso, le neuroscienze sono assimilabili a tutti gli altri accertamenti relativi alla fisicità dell’individuo (prelievo di campioni di DNA, accertamento medico, ecc.) già noti al diritto delle prove penali; 2) tecniche neuroscientifiche in cui l’individuo rileva come “fonte di prova dichiarativa: in questo caso, le neuroscienze rappresentano uno strumento per così dire di “validazione” dell’attendibilità di una qualunque prova dichiarativa .”[3]

Scendendo nel dettaglio nelle fonti di prova reale ritroviamo:

a.1) le neuro-imaging a sua volta distinguibili in: a.1.1) Imaging strutturale o morfologico: dalla tomografia assiale computerizzata (TAC), alle più recenti tecniche tomografiche di medicina nucleare, ovvero vale a dire la PET (Positron Emission Tomography ) e la risonanza magnetica (MRI). Le tecniche strutturali  consentono  di  identificare  deficit  cerebrali  di  natura  morfologico–strutturale (ad es., la presenza, di una lesione, di un’anomalia volumetrica, di  una massa o di una alterazione morfologica); a.1.2) la Imaging funzionale: la risonanza magnetica funzionale fMRI (Functional Magnetic Resonance Imaging) tecnica che consente l’uso  delle  neuroimmagini  a  risonanza magnetica  per  valutare  la  funzionalità  di  un  organo  o  di  un  apparato  in maniera  complementare  rispetto  all’ imaging morfologico. Si identificano così i deficit cerebrali legati ad anomalie o peculiarità nel funzionamento delle strutture cerebrali oggetto d’indagine.  Le fMRI  misurano i cambiamenti nel flusso ematico locale nella zona esaminata, legato all’aumento dell’attività cellulare (in questo caso neuronale): un aumento di flusso indica quindi un’area di “attivazione” “Nelle neuroimmagini funzionali, le regioni del cervello che sono attivate quando il soggetto esegue un determinato compito – le famose “aree colorate” – svolgono un ruolo chiave nella comprensione del rapporto tra comportamento, emozioni, funzioni cognitive e substrato neuronale, in quanto ci informano  in  merito  alle  aree  cerebrali  “reclutate”  da  un  determinato  soggetto  con  specifiche  caratteristiche  personologiche al fine di risolvere un compito o porre in essere una determinata condotta”[4]a.1.3) Tecniche di “genetica comportamentale”: che studiano l’influenza genetica sul comportamento. In ambito forense, gli  esami genetici, verificano la presenza di varianti polimorfiche significativamente associate in letteratura con un aumentato rischio di determinati comportamenti (aggressività, impulsività, ecc.)

Fra le tecniche neuroscientifiche  che  rilevano  nell’ambito dell’acquisizione  della  prova  dichiarativa ritroviamo:

b.1) l’Implicit Association Test (I.A.T.), un esame del ricordo autobiografico sviluppato da Greenwald e colleghi nel 1998 per studiare gli atteggiamenti e le opinioni spontanee delle persone, “misurando  la forza dei legami associativi tra concetti rappresentati in memoria (e.g., donne–discipline umanistiche) o tra un concetto ed una valutazione generale (e.g., nordafricani–negativo)”[5] .

Lo I.A.T. aiuta nel comprendere in una persona se in lui sono presenti atteggiamenti egalitari o discriminatori verso un gruppo sociale stigmatizzato.

In poche parole la c.d. autobiographical I.A.T. è  è una procedura  che, tende a verificare l’esistenza di una traccia di memoria, di un’informazione, all’interno della mente di un soggetto, sulla base dei suoi tempi di reazione.

Il test svolto al computer richiedere al soggetto di rispondere nel modo più veloce e accurato possibile a delle frasi secondo un primo blocco basato sul “vero-falso” ed una secondo, riguardante “la versione della difesa-versione dell’accusa” la quale descrive il ricordo autobiografico che il soggetto afferma di avere e una ricostruzione alternativa che egli dichiara estranea al proprio vissuto.

Nei blocchi successivi le versioni dell’accusa e della difesa vengono abbinare ai concetti “vero” e “falso” e il soggetto deve effettuare la classificazione: “in un primo momento il tasto destro serve per scegliere la frase vera e quello sinistro per scegliere la frase falsa. Poi l’abbinamento viene invertito (…) In questo modo si cerca di verificare se l’abbinamento di “vero” con l’ipotesi dell’accusa susciti una risposta più veloce rispetto all’abbinamento di “falso” con l’ipotesi della difesa, oppure se si verifica il contrario. In una delle due ipotesi tende a scattare un conflitto cognitivo, al quale consegue un rallentamento della risposta motoria perché la mente deve effettuare un passaggio in più e, di conseguenza, un maggior sforzo, per poter classificare le frasi in modo coerente.”[6]

Secondo i creatori di questo test, il ricordo naturale o compatibile, avrebbe dei tempi di reazione molto rapidi, mentre un aumento anche infinitesimale di quest’ultimo, segnalerebbe il superamento di un conflitto cognitivo, nel rispondere in modo non vero al ricordo presente nella sua memoria. Quindi minori sono i tempi di reazione maggiore è l’attendibilità.

b.2) Il T.A.R.A., (Timed Anta-gonistic Response Alethiomete), anch’esso diretto a verificare la presenza in un determinato soggetto di una traccia mnestica di un evento autobiografico significativo. Sempre attraverso l’utilizzo di un computer, tale tecnica si fonda sulla cronometria cognitiva, il procedimento molto simile allo I.A.T. dove vengono formulate  una  successione  alternata  di  affermazioni  come  “vere”  o  “false”  nel modo più veloce e preciso possibile, dove l’individuo sottoposto deve premere uno dei due tasti indicati.

Tale tecnica ha una sua peculiarità nel fatto che “ essa crea una situazione artificiale in cui mentire è più impegnativo del rispondere in modo veritiero, aumentando così i tempi di risposta nel primo caso. Si tratta di una tecnica ancora ad un livello sperimentale, nonostante i primi studi effettuati abbiano mostrato un grado di accuratezza prossimo all’85%”[7]

1.2  Neuroscienze e diritto penale

L’interazione tra gli studi nel campo delle neuroscienze cognitive e le scienze giuridiche ha condotto in anni recenti al progressivo sviluppo di un inedito settore di indagine trasversale, il c.d. diritto cognitivo, da intendersi, come osserva Arnaudo, come quel “complesso di studi interessati ad impiegare ricerche, dati e tecniche, provenienti dalle neuroscienze cognitive al fine di considerare secondo la miglior scienza del momento i principi della  soggettività  umana  rispetto  alle  condotte  aventi  rilevanza  giuridica,  e  a  definire  di  conseguenza disposizioni e istituti migliori per la gestione di tali condotte.”[8]

Fra le diverse implicazioni delle neuroscienze  nel diritto penale, ricordiamo i sostenitori della tesi deterministica,  i quali affermano che la condotta umana sia del tutto predeterminabile e che quindi gli individui sarebbe privi di libero arbitrio, perdendo così di significato la nozione stessa di responsabilità penale e non. Ma i fautori di questa tesi parlano di un linguaggio causale, di una libertà del tutto inconciliabile con il determinismo neuronale, dove la nostra volontà sarebbe sostanzialmente inefficace nella produzione di azioni volontarie.

La tesi utilitarista invece, rappresenta per il penalista una profonda messa in discussione del paradigma della scelta razionale, rational choice theory, dove un soggetto che prende le decisioni, lo fa sulla base di un’analisi dei costi e dei benefici relativi alle opportunità criminali che gli si presentano. Tra i fautori più autorevoli citiamo Gary Becker che aveva liquidato in un modo piuttosto deciso, il contributo delle scienze psichiatriche e mediche alla spiegazione dell’agire criminoso, osservando come “la teoria del comportamento economico può fare utilmente a meno di particolari teorie psicologiche o genetiche, ed estendere invece l’usuale analisi economica delle scelte.”[9]

Oggi le neuroscienze vogliono ribaltare queste posizioni, ad esempio il determinismo neuroscentifico di stampo radicale, è rigettato pienamente dai sostenitori della tesi compatibilista, la quale affronta la questione della compatibilità tra libero arbitrio e determinismo, interrogandosi sulle possibilità individuali nel conservare la nostra capacità di determinarsi liberamente, nonostante la sottoposizione a leggi causali universali. Tale approccio si rifà all’elaborazione di filosofi quali Leibniz, Locke, Dennett e Hume, dove in effetti  è ben possibile sostenere la sussistenza di una volontà e di una razionalità del tutto indipendenti dai meccanismi fisici e in grado di governarli.

De Caro osserva come : “la causalità deterministica non impedisce affatto il libero arbitrio, anzi ne è condizione di possibilità. (…) Un’azione è libera se discende da una volontà libera da costrizioni esterne e da compulsioni interne: ma se tale volontà è invece determinata non è affatto un problema (quando voglio mangiare una mela, e lo faccio, la mia azione è libera anche se la mia volontà è determinata). Per mostrare che il libero arbitrio non esiste, allora, non basta provare che le nostre azioni sono determinate neurofisiologicamente; bisogna anche confutare la concezione compatibilistica del libero arbitrio.” [10]

La risposta dovrebbe invece basarsi su se e come possiamo controllare quello che facciamo (vale a dire, le nostre azioni), piuttosto che se possiamo controllare ciò che scegliamo di fare (ossia, la nostra volontà).

Gazzaniga afferma che le neuroscienze non saranno mai in grado, neppure in futuro, di individuare il corrispettivo cerebrale della responsabilità, in quanto tale qualità è un attributo dell’individuo e non del cervello. La responsabilità per il famoso scienziato è soltanto un costrutto sociale che non avrebbe nulla a che fare con le strutture neuronali del cervello.

Stephen J. Morse, principale sostenitore della tesi compatibilista, afferma come il diritto penale presupponga una visone della persona e del comportamento umana dalla c.d. psicologia del senso comune o folk psychology: “una  teoria  apparentemente  innata  utilizzata  da  tutti  i  normali  esseri umani  come  mezzo  per  comprendere  e  prevedere  il  comportamento  degli altri  esseri  umani.  Questa  capacità  cognitiva  consente  (…)  di  ritenere  che  il comportamento  sia  causalmente  connesso  a  stati  mentali  quali  credenze  e desideri,  e  prevedere  o  interpretare  tale  comportamento  in  base all’attribuzione di stati mentali”592

Tale psicologia si riferisce a ciò che noi sappiamo delle menti altrui, dove tale conoscenza ci permette la relazione con il prossimo, prevedendone il comportamento e adeguando così il nostro. Anche qui l’esistenza del libero arbitrio verrebbe meno, infatti secondo Morse, “la responsabilità morale è del tutto compatibile con una concezione meccanicistica della mente umana.”[11]

Winfried Hassemer afferma che il negare agli esseri umani di esser responsabili di ciò che fanno, equivarrebbe non soltanto a far venir meno un elemento chiave del nostro sistema giuridico, ma porrebbe una lesione irreparabile al “fondamento normativo del nostro patto sociale, ossia il mutuo riconoscimento come persone: in assenza di prova contraria, infatti, allo stato attuale attribuiamo al prossimo la medesima responsabilità che sperimentiamo e rivendichiamo per noi stessi, e questo non perché questo dato sia stato confermato o smentito dalla scienza, ma perché non potremmo coesistere senza il riconoscimento di questo credito reciproco.”[12]

La colpevolezza e la libertà risultano il prodotto di un interazione sociale, questa ratio sociale l’unica a poter definire quella relazione reciproca capace ad attribuire agli individui la loro responsabilità.

Il diritto penale quindi non si cristallizza di fronte all’apporto scientifico in riferimento al tema della colpevolezza, anzi ne reclama tale apporto. Perché solo con il contributo della scienza, la dogmatica della colpevolezza può risultare costantemente aggiornata. Quindi a nulla serve un rifiuto radicale della responsabilità personale, come invece sostenuto dai fautori del determinismo in campo neuroscientifico, mentre maggiore attenzione dovrebbero avere le evoluzioni delle scienze empiriche che possono condurre ad una sua esclusione in casi determinati. Secondo Manna:

le critiche operate sul versante dell’imputabilità in rapporto alle neuroscienze, possono più in generale estendersi anche al rapporto tra queste ultime e il diritto penale, nel senso che è inevitabile un contrasto tra scienze empiriche e scienze valutative, laddove non vi sia, al contrario, un equilibrato rapporto e correlazione tra le stesse, ma l’una cerchi di dominare l’altra. “E ancora: “bisogna guardarsi da una sorta di “neopositivismo penale”, che potrebbe irrompere negli studi penalistici, laddove l’empiria arrivasse a sostituire integralmente i giudizi di valore”595

Superati i problemi a livello dogmatico, restano però le difficoltò per i giudici penali di acquisire adeguate conoscenze, soprattutto riguardanti il metodo delle neuroscienze, al fine di evitare una loro marginalizzazione rispetto all’opera del perito, ricordando come il giudizio di imputabilità debba esser sempre fedele a livello empirico-normativo.

1.3 Le neuroscienze e la valutazione della pericolosità sociale.

Negli ultimi anni attraverso la neuroanatomia, è possibile ,misurare la struttura del cervello e la sua funzionalità, potendo osservare le alterazioni cerebrali e i problemi strutturali nelle aree temporale e libica, come l’ippocampo,  l’amigdala  e  il  lobo  frontale.

Lo studio dell’attività cerebrale, attraverso l’esposizione ad una stimolazione emotiva, durante la risposta comportamentale in condizioni fisiologiche, riuscirebbe ad individuare quelle componenti neurobiologiche tipiche delle nostro comportamento decisionale di tipo automatico ed involontario, e nei nostri giudizi morali.

“Le  neuroscienze possono  infatti  essere  utilmente  interrogate  in  relazione  a  un  ambito  determinato  e  sicuramente  non esaustivo della complessità dell’esperienza morale, quello delle precondizioni o condizioni di possibilità della  capacità  morale.  Quello  biologico  o,  più precisamente,  neurobiologico  è  quindi  un  livello dell’esperienza morale corrispondente all’esistenza di reazioni automatiche anche complesse governate da meccanismi cerebrali”.[13]

Analisi di questo genere porterebbero a riscontrare una sostanziale differenza tra il cervello del soggetto sano e quello del soggetto disturbato, che opererebbe in maniera diversa, non riuscendo a bloccare le risposte automatiche.

Attraverso  c.d. Voxel-Based Morphometry (VBM) tecnica  di  analisi  in  neuroimaging  che  consiste nell’investigazione di differenze focali nell’anatomia del cervello, usando l’approccio statistico noto come  mappatura statistica parametrica, è possibile distinguere stabilmente fra un soggetto infermo ed uno normale, operando all’interno dello stesso una differenziazione riguardante il disturbo, ad es. tra schizofrenici violenti e schizofrenici non violenti, tra disturbi della personalità gravi e lievi. “Nella morfometria tradizionale, il volume dell’intero cervello oppure di alcune aree cerebrali viene misurata evidenziando regioni d’interesse (ROI) sulle immagini fornite dalla scansione cerebrale e calcolando il volume residuo. Comunque questa procedura, che prima del 2000 veniva eseguita manualmente al computer (ancora oggi con programmi come MRIcro e ImageJ) necessita di molto tempo e può fornire misure di aree piuttosto grossolane, ma ha problemi con aree ramificate o variamente distribuite. Le piccole differenze di volume possono non essere apprezzate e certe lesioni non rilevate. La VBM (registratura delle immagini) riconduce ogni cervello a un atlante anatomico elettronico come quello del Montreal Neurological Institute, trascurando la maggior parte delle grosse differenze nell’anatomia del cervello tra le persone. In seguito le immagini del cervello vengono sottoposte a una procedura matematica nota come “smoothing” (ammorbidimento) in maniera che ogni voxel rappresenti la media di sé stesso e dei 26 voxel vicini (in un cubo con 3 x 3 x 3 voxel). Finalmente, il volume dell’immagine viene confrontato tra i vari cervelli in esame per ogni singolo voxel.”[14]

Altrettanta attenzione deve esser rintracciata sugli studi di biologia molecolare e di genetica comportamentale, volti ad individuare rispettivamente il genoma umano e l’influenza del patrimonio genetico sul comportamento e sulla personalità dell’uomo.

Ad esempio, i geni c.d. di suscettibilità come il MAOA, si ritiene possano avere un’influenza sul comportamento criminale.

A sostenerlo è stato un gruppo di ricercatori dell’Institute of Psychiatry di Londra in uno studio pubblicato sulla rivista New Scientist. Il gene in questione si chiama MAO-A ed è responsabile della produzione di un enzima che danneggia le sostanze chimiche nel cervello e che è legato all’aggressività. Dalle analisi dei ricercatori è emerso che quando il gene risulta meno attivo, le persone che hanno comunque avuta un’infanzia difficile hanno dieci volte più probabilità di esser condannati per violenza o per comportamenti aggressivi.

Scenari di questo tipo risultato particolarmente interessanti per il giurista, non soltanto riguardo l’indagine del disturbo, ma anche soprattutto nei confronti del secondo piano del giudizio sull’imputabilità, rispetto al quale, la diagnosi descrittiva è destinata ad esaurire la sua efficacia.

Ma la suggestione deve esser accompagnata dalla ben consapevole necessità che l’apporto alle neuroscienze venga valutato dal giudice con senso critico ed estrema prudenza, tenendo sempre presente la trasformazione subita dalla nozione di scienza. Il positivismo ormai venuto meno con la sua idea di conoscenza certa ed immutabile, è stato superato da un’idea di scienze fonte di verità valida nel momento in cui è formulata, fallibile e superabile nel futuro.

Le neuroscienze proprio perché basate su un metodo sperimentale, devono esser soggette ad un controllo di affidabilità dall’esterno, garantendo importanti procedure di ripetizione della prova e di raccolta e  analisi statistica dei dati.

Gli stessi specialisti del settore devono continuamente procedere alla valutazione della scientificità della disciplina che produce la prova, secondo Fornari: “l’evidenza  neuropsicologica  non  ha  caratteristiche  di  oggettività,  come  può  averlo  un esame  strumentale  o  di  laboratorio;  l’indagine  neuropsicologica  avviene  in  condizioni  che  poco  o  nulla  hanno  a  che  fare  con  quelle  “naturali”  in  cui  è  accaduto  l’evento  penalmente  o  civilmente  rilevante;  la prestazione  a  un  test  neuropsicologico  è  influenzata  da  sorgenti  multiple  di  variabilità  (il  test  stesso, l’esaminatore,  il  contesto  in  esame,  le  caratteristiche  del  soggetto  esaminato);  in  punto  imputabilità, pericolosità  sociale,  capacità  di  cosciente  partecipazione  al  processo,  capacità  (incapacità)  decisionale, deficienza  e  inferiorità  psichica,  controllo  della  condotte  emotive  e  degli  automatismi  e  via  dicendo  le valutazioni  neuropsicologiche  non  sono  in  grado  di  pervenire,  di  per  sé  sole,  ad  una  verifica  oggettiva dell’esistenza o meno della libertà umana.”[15]

In Italia indagini di questo genere sono molto rare e lo sono ancora di più i giudici che vi ricorrono nel giudizio di imputabilità, ad esempio questo  tipo  di  studi  condotto  su  alcuni  internati  dell’OPG  di  Castiglione  delle  Stiviere .“Nelle  indagine  viene  evidenziata  l’esistenza  di  una  migliore  corrispondenza  tra  le conclusioni dei periti e il rischio di recidiva, specie nella fase di riesame della pericolosità da parte del Tribunale  di  Sorveglianza.  Inoltre  si  nota  una  correlazione  stretta  della  pericolosità  intesa  non  come probabilità di commettere un qualunque reato, quanto semmai della probabilità che vengano commessi  atti lesivi dell’incolumità personale.”[16]; o nella  nota sentenza Albertani del 2009 , dove i periti hanno proceduto con l’analisi della struttura, della funzionalità celebrale e del patrimonio genetico dell’indagata.

Nel  2009,  a  Cirimido  (Como),  Stefania  Albertani  uccise  sua  sorella  maggiore, segregandola  in  casa  e  costringendola  ad  assumere  psicofarmaci  in  dosi  tali  da causarne  il  decesso.  Successivamente  diede  fuoco  al  cadavere.  Indiziata  per  la scomparsa della sorella e tenuta sotto controllo dalla polizia, durante un diverbio con la madre, tentò di strangolarla con una cintura. L’arrivo della polizia salvò la madre e portò all’arresto di Stefania. In seguito emerse un complesso disegno criminoso, per cui l’imputata è stata chiamata a rispondere del sequestro di persona e poi dell’omicidio della sorella, omicidio preceduto dalla somministrazione di benzodiazepine, che aveva indotto la vittima in uno stato di confusione mentale e di incapacità reattiva, nonché  dei reati di soppressione e distruzione di cadavere, di quello di utilizzo indebito delle carte di credito, appartenenti alla sorella, e ancora di procurata incapacità di intendere e di volere del padre attraverso la somministrazione di medicinali che ne procurarono  il  ricovero in  ospedale,  di  tentato  omicidio  di  entrambi  i  genitori,  avendo  cercato  di farne  esplodere  l’autovettura,  e  del  tentato  omicidio  della  madre  attraverso strangolamento.

Il gip di Como, Luisa Lo Gatto ha quindi utilizzato la consulenza neuroscientifica per trarre “spunti ulteriori verso la conferma o la falsificazione di ciò che deve costituire oggetto di prova nel processo penale”[17]

La sentenza apre così le porte della prova neuroscientifica al processo penale “alle indagini neuro scientifiche disposte con estremo  rigore  dai  consulenti  tecnici  […]  a  completamento  delle  indagini  psichiatriche  e neuropsicologiche tradizionali”601

Le indagini di imaging celebrale e di genetica molecolare, sono state fondamentali nella sentenza Albertani, soprattutto le anomalie riscontrate con la VBM hanno  evidenziato  nell’imputata  un  aumento  del  rischio  di  sviluppare  certi comportamenti, dato che è pure stato confermato dagli accertamenti genetici. I periti della difesa sono giunti così alle conclusioni dell’assenza di una piena capacità di controllo dei propri atti, o  della  capacità  di  indirizzarli,  di  percepirne  il  disvalore  e  di autodeterminarsi liberamente.

Tali esisti confrontati con le risultanze processuali, con i comportamenti mantenuti dall’imputata dopo la commissione dei crimini, durante e dopo l’arresto, delle sue difficoltà anamnestiche, hanno indotto al giudice nel ritenere che i problemi psichici avessero avuto un’incidenza causale, sui crimini commessi, risultando scemata la sua capacità critica e di controllo al momento del fatto.

Nonostante il contributo delle neuroscienze alla materia penalistica, pare opportuno ricordare l’indispensabilità dell’esame clinico del soggetto, che può solo esser arricchito da tali conoscenze ,ma mai sostituito.

Citando Fornari in conclusione : “  occorre sempre  distinguere  la  pericolosità sociale psichiatrica, relativa alla esigenza attuale di cura del soggetto e  pericolosità sociale giuridica, di impronta criminologica che dovrebbe rimanere di esclusiva competenza del giudice.”[18]

1.4 Una maggiore ridefinizione dei rapporti tra perito e giudice nel secondo piano di giudizio di imputabilità

Problematica risulta la valutazione dei ruoli che giudice ed esperti devono assumere nel secondo piano di giudizio dell’imputabilità,  relativo alla determinazione del grado di incidenza dell’infermità sulle capacità cognitive e volitive del soggetto agente.

Solitamente un giudice nel conferire l’incarico ad uno psichiatra richiede che l’esperto, “valutato l’imputato e presa conoscenza degli atti e fatte tutte le sue acquisizioni e gli accertamenti che riterrà opportuni” stabilisca “se al momento dei fatti per cui si procede. Egli era capace di intendere e di volere, oppure se le capacità erano totalmente o grandemente scemate.” Esprimendosi successivamente  sull’eventuale pericolosità sociale dell’imputato.

Questa formula risale però agli anni 30’ e risulta molto lontana soprattutto ai giorni nostri dove vi è una pluralità di opinioni in campo penalistico, dove secondo una tesi diffusa, il perito, psichiatra o psicologo, dovrebbe limitare l’accertamento al solo disturbo mentale, astenendosi completamente dal valutare l’eventuale sussistenza dell’ imputabilità.

Secondo Ponti, il compito del perito sarebbe quello di “comunicare e far capire al giudice ciò che la sensibilità professionale gli ha fatto intendere della realtà di quell’uomo, ma lascerà al giudice il compito di utilizzare quelle conoscenze nel modo che meglio di lui saprà fare.” 603

Infatti solo il giudice può disporre di quella visione completa della fattispecie, conoscendo più elementi della realtà in cui è chiamato a giudicare.

Al perito si richiede quindi un apprezzamento di elementi tecnici ed oggettivi, separati dalla valutazione cognitiva-valutativa, devoluta al giudice nell’indagine sulla capacità di autodeterminazione.

Il rapporto tra perito e giudice dovrà però basarsi su un continuo dialogo, volto ad illuminare il dubbio del magistrato sulle problematiche tecniche,ove il perito “mai si farà tentare ad addentrarsi in questioni che riguardano l’innocenza o la colpevolezza o il merito di una controversia”.[19]

Come enunciato precedentemente le resistenze che molti esperti manifestano circa un coinvolgimento in questo ambito sono dovute proprio alla tipologia di domande poste dal giudice.

La discussione messa in atto dai periti, si basa non tanto sul garantire o meno una diagnosi clinica del processo, quanto quello di circoscrivere il contenuto, al fine di evitare un possibile pericolo di allontanamento tra psichiatria e diritto.

L’apporto psicopatologico in ambito forense deve riguardare nozioni e conoscenze che i periti professano abitualmente e con una certa dimestichezza.

Quindi risulta superflua se non addirittura inutile un’interrogazione circa l’eventuale capacità di intendere e di volere del soggetto agente al momento del fatto, evitando un possibile sconfinamento in questioni metafisiche.

Secondo Andreoli “  non c’è psichiatra al mondo che distingua nel paziente, da una parte, l’intendere e, dall’altra, il volere, per cui quando è chiamato per una perizia chiede sempre la riformulazione del quesito con un ampliamento della premessa che lo investa anche della valutazione della personalità del soggetto, tenuto conto delle condizioni ambientali in cui vive ed ha agito.”[20]

Quindi una valutazione fatta sui processi volitivi e decisionali del soggetto infermo autore di reato, fatta  dagli esperti, sarebbe indimostrabile e come tale ascientifica.

Ancora valida potrebbe essere una perizia psichiatrica riguardante il grado di consapevolezza del soggetto agente e sulla sua percezione del significato dell’atto commesso e del disvalore, mentre in quanto alla capacità di volere, ci si limiterebbe alla capacità di autocontrollo dove le neuroscienze hanno aperti scenari interessanti.

La perizia dovrà attenersi ad un profilo personologico, ad una valutazione globale della personalità del soggetto, “emergente dall’anamnesi e dallo studio psicologico retrospettivo dell’imputato, senza che ciò inclini il divieto di perizia psicologica, dato pacificamente per acquisito”[21] In sostanza, la perizia deve rimanere psichiatrica nel vero senso della parola,  “pur andando oltre la diagnosi del disturbo mentale, per passare dal momento del classificare (momento statico della perizia) a quello, più impegnativo, del comprendere (momento dinamico della perizia).”607 Effettuata la diagnosi del disturbo psichico, nella fase del classificare, tracciato il profilo personologico dell’imputato dove la malattia si inserisce diventa necessario valutare sui motivi che hanno spinto il soggetto a delinquere, ricostruendo con una valutazione retrospettiva la dinamica del reato e quindi analizzando il rapporto tra vittima ed autore, grado di colpevolezza dell’imputato, il suo comportamento prima e dopo del fatto, la percezione del significato degli atti commessi e sua prevedibilità; (dimensione criminogenetica e criminodinamica del reato).

Pertanto il reato e le sue peculiarità sono gli unici dati concreti e inequivocabili che: “soltanto in funzione di questi che vanno esaminati e valutati, anche pragmaticamente, i processi neuropsichici dell’imputato, poiché per ciascun criminale l’oggetto della capacità di intendere e di volere, il reato e le sue conseguenze, può essere dunque diverso, discernimento e possibilità di autocontrollo possono esserlo altrettanto e diversamente vanno valutati.”[22]

In questa valutazione un ruolo determinante dovrebbe avere l’orientamento psichiatrico di tipo psicoanalitico-antropofemenologico, oltre che la criminologia e la medicina legale “aspetto che nell’economia complessiva di un elaborato peritale è attualmente, operazione che supera di gran lunga la dimensione puramente psichiatrica dell’indagine.”[23]

Secondo Fornari: “non è la dimensione categoriale, la diagnosi, bensì quella funzionale, la criminogenesi e la criminodinamica, quella che aiuta a ricostruire e comprendere lo stato di mente di un autore o di una vittima di reato”[24]

Ciò presuppone quindi un riscontro fra i condizionamenti patologici dell’agire e l’eventuale esistenza di un nesso eziologico tra il tipo di malessere riscontrato ed il reato commesso.

Molti autori tra cui Collica e Coda auspicano un richiamo al nesso causale tra la tipologia del disturbo diagnosticato e il fatto illecito, presente anche nella normativa riguardante il vizio di mente, il quale porrebbe diritto e psichiatria moderna in totale sintonia “ riconoscendo al malato di mente la capacità di autodeterminarsi e, quindi, di poter agire responsabilmente, donde l’esclusione dell’imputabilità solo se l’infermità presenti caratteristiche tali da aver partecipato alla genesi ed alla dinamica del reato commesso.”[25], riscontrabile anche nella sentenza delle Sezioni Unite dell’8 marzo 2005, n.9163 dove al punto 16 precisa come sia “necessario che tra il disturbo mentale ed il fatto di reato sussista un nesso eziologico, che consenta di ritenere il secondo casualmente determinato dal primo.”612

Il vantaggio sarà quello di fungere da valido strumento funzionale di delimitazione alla rilevanza dei disturbi atipici tra le cause di esclusione e di limitazione dell’imputabilità.

De iure condendo ai periti psichiatrici non deve esser chiesta la valutazione su un concetto meramente intuitivo come la pericolosità sociale.

Le teorie ottocentesche che interpretavano il crimine come una sorta di degenerazione , come sintomo di una vera patologia mentale, concludevano come chi fosse affetto da disturbi mentali avrebbe successivamente riprodotto il delitto (Lombroso).

Questo assunto superato da tempo,  dalla critica all’infondatezza scientifica della categoria giuridico penale in sé, ha alimentato poi attorno agli anni 60’-70’ uno studio, condotto soprattutto da americani, sulla probabilità di recidiva dell’infermo, autore di reato. Le indagini statistiche hanno però smitizzato la convinzione della superiore tendenza a delinquere del malato di mente rispetto ad un uomo normale.

Da questi studi emerge il carattere meramente intuitivo della valutazione attinente la pericolosità sociale, dove vi è “un’ampia convergenza di vedute nel panorama internazionale, circa la sua radicale estraneità ad ogni pretesa di scientificità.”[26]

Questo tipo di accertamento però è costituito da valutazioni difficilmente predeterminabili e falsificabili nella loro funzione predittiva, a causa dell’estrema indeterminatezza dei criteri ex artt. 133 c.p. e 236 c.p.p. su cui si deve fondare.

“Diventa legittimo così affermare che la probabilità di successo, nella formazione del giudizio di pericolosità, sia pari a quella ottenibile affidandosi al lancio di una moneta per prendere una decisione.”[27]

La pericolosità sociale, poco adatta alla mutata natura delle misure di sicurezza, di cui è posta a fondamento, risulta non controllabile sia sul piano giuridico, che su quello criminologico e psichiatrico.

La psichiatria forense tende sempre più ad astenersi dal fornire al giudici pareri, “ al fine di prevenire acritici coinvolgimenti in un improprio ruolo di legittimazione delle esigenze di controllo e di difesa sociale espresse dal sistema penale, nonché, come detto, le prese di posizione degli esperti in cui si confessa chiaramente di mentire in un simile giudizio.”[28]

Come ribadito precedentemente, l’operazione di prognosi già complessa di per sé ex post gli eventi storici, risulta ancora di più difficile ex ante, dove la pericolosità sociale prende le sembianze di una “pura finzione giuridica”.616 La perizia psichiatrica ormai lontana dall’attuale sapere psichiatrico va dunque riformata, poiché la pericolosità sociale e la violenza non sono più ritenute dagli esperti , caratteristiche peculiari dei malati di mente, ma dell’intera popolazione, quindi o il loro accertamento deve esser preso in considerazione anche per le persone c.d. normali, o non ha più senso una diagnosi circa di quest’ultime. La riforma deve basarsi su due strade: 1) nel riformulare la valutazione della pericolosità sociale restringendone l’applicazione ai soli reati contro l’incolumità sociale, utilizzando “ non solo dati oggettivi basati sulla tipologia dei reati commessi o sull’entità della pena per gli stessi prevista, ma anche avvalendosi di elementi sintomatici, ossia supportando la diagnosi con una base empirica di riferimento.”[29] Il perito quindi dovrà emettere un giudizio prognostico tenendo in considerazione un  tout court di situazioni: dalla sua situazione familiare, esistenziale e lavorativa, all’abuso di sostanze, ecc. ovvero di tutti quei fattori che incidono sulla malattia mentale; 2) nell’abbandonare definitivamente il riferimento alla pericolosità sociale, nell’applicazione delle misure di sicurezza, sostituendolo ad esempio con il presupposto del “bisogno di trattamento o di cura”, il quale “va correlato al rispetto del principio di proporzione”[30]

1.5  La decisione finale del giudice

Ridefiniti i margini di intervento dell’esperto nel giudizio di imputabilità, estendendoli fino a contenere considerazioni che vanno ben oltre la diagnosi del disturbo, collegando problemi legati al secondo piano del giudizio medesimo, il compito del giudice dovrebbe ora limitarsi al controllo della correttezza del metodo, rimanendo sempre subordinato al parere del perito e alla sua piena collaborazione.

Riprendendo la sentenza n.9163/2015 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione: “Una necessaria collaborazione tra giustizia penale e scienza, a quest’ultima il giudice non può in ogni caso rinunciare, pena la impossibilità stessa di esprimere un qualsiasi giudizio, e, pur in presenza di una varietà di paradigmi interpretativi, non può che fare riferimento alle acquisizioni scientifiche che, per un verso, siano quelle più aggiornate e, per altro verso, siano quelle più generalmente accolte, più condivise, finendo col costituire generalizzata prassi applicativa dei relativi protocolli scientifici.”[31] Il problema del giudice non sarà quello di cercare una certezza impossibile, ma di aumentare il grado di probabilità e ridurre il margine di errore ad una soglia razionalmente e socialmente accettabile.

Krafft Ebing a questo proposito scriveva: “è sommamente da deplorarsi il fatto di quel giudice il quale in luogo di sollecitare il parere di tutti quei gradi di giurisdizione medico legale che la legge pone a sua disposizione, giudica secondo il suo modo di vedere personale di uno stato di mente sulla cui integrità esistono dei dubbi e delle controversie.”620.

Il giudice deve evitare che l’esito del processo sia rimesso soltanto al suo apprezzamento discrezionale e soggettivo, principio che trova saliente espressione negli artt. 111 c.6 Cost e 192 c.1 c.p.p. , ovvero nelle garanzie fondamentali del processo penale, quali la presunzione di innocenza dell’imputato, l’onere della prova a carico dell’accusa, l’enunciazione del principio in dubbio pro reo e l’obbligo di motivazione e giustificazione razionale della decisione.

L’attuale articolo 533 c.p.p. recita: “Il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato, contestandogli al di là di ogni ragionevole dubbio, l’ipotesi probabile.”

L’ipotesi antagonista assumerebbe, così, solamente un carattere di probabilità remota e, per logica conseguenza del dettato normativo, bisogna individuare un’ulteriore richiesta di rigore scientifico anche al parere tecnico rilasciato al giudice o alle parti. “E’ la morte del libero convincimento dei periti e dei consulenti che pertanto dev’essere pronunciata, specie in punto nesso causale e ragionamento controfattuale che invece devono essere sottoposti a rigorosa e impietosa verifica da parte dei periti stessa. In tutti i casi il peritus peritorum non è tenuto a sottoscrivere le conclusioni cui è pervenuto il suo consulente o il collegio peritale.”[32]

Risulta espressione del potere discrezionale del giudice di merito la necessità o meno di disporre di un accertamento peritale, incensurabile in Cassazione soprattutto se sorretto da motivazione immune da vizi logicogiuridici.

Il giudice può revocare l’ordinanza ammissiva di perizia psichiatrica se tale prova risulta superflua e la revoca sia sorretta da adeguata motivazione a norma degli articoli 125 e 495 c.p.p.

È nel suo potere e dovere dissentire dalle conclusioni del perito, disporre altri accertamenti peritali, dopo aver verificato la validità scientifica dei criteri e metodi di indagine utilizzati dagli esperti, pronunciando la sentenza oltre o entro il ragionevole dubbio.

Ciò vale soprattutto per la ricostruzione criminodinamica del delitto, per l’esame del ruolo che il disturbo mentale diagnosticato ha avuto nella genesi del delitto, c.d. studio criminogenetico, fasi che costituiscono l’anello di congiunzione tra l’aspetto psicopatologico e quello normativo nel giudizio di imputabilità.

Viene meno così la tesi che vede separati il ruolo del perito e del giudice, diagnostico-cognitivo il primo e normo-valutativo il secondo, essendosi creato un collegamento tra i due momenti del giudizio medesimo.

Infatti risulta indispensabile il confronto fra i dati  clinici ricavati dall’esperto e gli elementi contenuti negli atti processuali, quali acquisizioni documentali e testimoniali, “alla ricerca di punti di coerenza che consentono di  validare le ipotesi diagnostiche effettuate”[33] per cui la perizia assume un significato criminologico.

Fornari distingue nel suo Trattato di psichiatria forense, “il classificare, cioè il giungere ad una diagnosi(momento statico della perizia) dal comprendere(parte dinamica), che privilegia l’ascolto del paziente alla classificazioni e categorizzazioni. L’una e l’altra poi si integrano nel momento dell’accertamento della criminogenesi e criminodinamica.”623 La ricostruzione del perito riassume quella validità, indispensabile per l’assimilabilità delle prove scientifiche in ambito forense, attraverso il processo di verificazione-falsificazione.

Il giudice possedendo una base empirica per la decisione finale, dovrà guidare l’operato dello psichiatra, fornendogli le nozioni giuridiche necessarie per l’individualizzazione dell’oggetto dell’indagine, riconducendo l’incapacità accertata all’istituto penalistico che viene di volta in volta riscontrato, tutto sempre guidato da quel rigore metodologico e argomentativo che deve esser la base di ogni procedimento.

Di conseguenza il secondo piano di giudizio di imputabilità, di norma connotato da una componente normo-valutativa, si arricchisce di elementi empirico-psicologici che caratterizzavano il primo grado del giudizio stesso.

La necessità di un accertamento fattuale nell’indagine dell’imputabilità degli infermi di reato vale, esclusivamente per la diagnosi del disturbo psichico, ma essa sottende anche alla valutazione normativa compiuta dal giudice, sull’incidenza della malattia mentale sulla capacità di intendere e di volere al momento del fatto. Solo grazie a questa base empirica di riferimento è possibile recuperare la scientificità del giudizio di imputabilità.

Non meno importante sarà secondo Collica l’orientare l’operato dello psichiatra forense anche verso una prospettiva di cura, suggerendo al giudice le strategie terapeutiche da seguire.

La perizia seguendo un preciso percorso metodologico, che consente una raccolta di dati capace a tracciare un quadro complessivo dell’imputato, dovrà rispondere a problemi diagnostici e prognostici, fornendo indicazioni circa il trattamento criminologico più utile ai fini della cura e della risocializzazione del soggetto.

Se il dubbio circa l’incidenza del disturbo dovesse permanere nel caso concreto, ovvero il grado di affidabilità scientifica della spiegazione psicopatologica dell’esperto spinga ad una conclusione che non raggiunga l’elevata credibilità, il giudice dovrà procedere con l’assoluzione ex art. 530 c.p.p.

In Italia, invece, ciò non accade, non risultando pronunce di assoluzione per mancanza, insufficienza, o contraddittorietà della prova sull’imputabilità, citando Bertolini: “nella realtà italiana sembra che i dubbi irrisori sulla capacità di intendere e di volere dell’imputato siano invece rimossi affermando la piena imputabilità del soggetto o ricorrendo alla via di fuga della semi-imputabilità a seconda delle diverse esigenze politico-criminali del caso concreto.”[34]


[1] A. Oliverio, Neuroscienze. Basi biologiche dei processi mentali, in Enciclopedia del NovecentoTerzo supplemento, Istituto della Enciclopedia Italiana, vol. II, Roma, 2004,  pp.230 e ss.

[2] C. Conti, La prova scientifica, in La prova penale, a cura di P. Ferrua, Torino, Giappichelli, 2013, p.100.

[3] G. Gulotta, Compendio di psicologia giuridico–forense, criminale e investigativa, Milano, Giuffrè, 2011,  pp. 77 e ss.

[4] A, Bianchi, G. Gullotta, G. Sartori, Manuale di neuroscienze forensi, Milano,Giuffrè,2014, p.219.

[5] C.  Zogmaister, L. Castelli, La misurazione di costrutti impliciti attraverso l’Implicit Association Test, in Psic. soc., 2006, 65 e ss.

[6] P. Tonini, Manuale di procedura penale , Milano, Giuffrè, 2012, pp.1038–1039.

[7] Ivi, p.1040.

[8] L. Arnaudo, Diritto cognitivo. Prolegomeni a una ricerca, in Pol. dir., 2010,p. 127

[9] G. Becker, Delitto  e  castigo:  un’analisi  economica, (1968),  trad.  it.  in  ID., L’approccio  economico  al comportamento umano, Bologna, 1998, p.142.

[10] M. De Caro, La beffa del libero arbitrio, in Il Sole 24 Ore, 6 Maggio 2012, 29 592 S.J. Morse, Compatibilist Criminal Law, in Nadelhoffer ed., The Future of Punishment, New York,  2013,  108  e  ss.

[11] S. J. Morse, Lost in Translation? An Essay on Law and Neuroscience, in M. Freeman (ed.) Law and Neu-roscience, Oxford–New York, 2010, p.530.

[12] W. Hassemer,  Neurociencias y culpabilidad en Derecho penal, in InDret, n. 2, 2011, 9.  V. anche ID., Perché punire è necessario(2009), trad. it., Bologna, 2012, p. 195 e ss. 595 A. Manna, Tutela penale del sofferente psichico, in Rodotà, Zatti (dir.), Trattato di biodiritto, Le responsabilità in medicina, a cura di Belvedere, Riondato, Giuffrè, Milano, 2011, p.1115

[13] L. Boella,  Neuroetica-La  morale  prima  della  morale, Cortina editore, Milano,  2008,  p.  43.

[14] https://it.wikipedia.org/wiki/Morfometria_basata_sui_voxel

[15] U. Fornari., Il metodo scientifico in psichiatria e in psicologia forensi, http://www.brainfactor.it/?p=1588

[16] http://www.issuu.com.

[17] V. motivazione della sentenza del Gip di Como, 20.5.2011, p. 43.   601 Ibidem.

[18] U. Fornari, Attualità in presenza di pericolosità sociale psichiatrica, Relazione tenuta al  Congresso  su  “Pericolosità  sociale  e  società  pericolosa”. 603 G. Ponti, La perizia, p.602.

[19] Ivi, p.603.

[20] V. Andreoli, La perizia psichiatrica, op.cit.

[21] S. Coda, Dinamica di un omicidio, p.883. 607 U. Fornari, Trattato, op.cit., p. 114.

[22] G. Galuppi, L’Imputabilità, in Diritto di famiglia e di persone, 2003, p.446.

[23] R. Catanesi, Verso una psichiatria, op.cit., p.171.

[24] U. Fornari, I disturbi gravi di personalità rientrano nel concetto di infermità, in Cass.pen., 2006, p.274.

[25] I. Merzagora Betsos, L’imputabilità, op.cit., p.575. 612Cass ,S.U. pen., sent. N.9163, 8 marzo 2005.

[26] A. Mangione, La misura di prevenzione, op.cit., p.135.

[27] Ennis- Litwack, Psichiatria e presunzione degli esperti, in Claifornia Law Rewiw 62, 1974, p.673.

[28] A. Mangione, op.cit, p. 24. 616 Ivi, p.204.

[29] G Marinucci, E. Dolcini, Corso di diritto penale vol.1 ,Milano, Giuffrè, 2001, p.242.

[30] M. Bertolino, L’imputabilità, op.cit., p. 668.

[31] U. Fornari, Al di là di ogni ragionevole dubbio, op.cit.,  p.30. 620 Ivi, p.32.

[32] Ivi, p.32-33.

[33] R. Catanesi, Verso una psichiatria,op.cit., p.171. 623 U. Fornari, Trattato, op.cit, p.112.

[34] M. Bertolino, Normalità ,op.cit., p.289.


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Mario Mollo

Laureato a pieni voti presso L'Università degli studi di Torino, con tesi in Filosofia del Diritto: "Diritto e psichiatria. Un’analisi critico- storica" relatore Prof. Paolo Heritier, con l’aiuto del Prof. Ugo Fornari e il Prof. Saverio Fortunato. Attualmente Specializzato presso la SSPL di Torino e praticante avvocato. Tra le recenti collaborazioni vi è la stesura di una nota a sentenza del Consiglio di Stato con il Prof . C.E. Gallo riguardante l'annullamento in autotutela del provvedimento amministrativo e sorte del contratto. Ulteriori studi vertono sul tema delle Neuroscienze e il giudizio di imputabilità.

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