Le Sezioni Unite sull’applicabilità dell’art. 131-bis c.p. al giudizio dinanzi al Giudice di Pace

Le Sezioni Unite sull’applicabilità dell’art. 131-bis c.p. al giudizio dinanzi al Giudice di Pace

Cassazione Penale, Sezioni Unite, 28 novembre 2017 (ud. 22 giugno 2017), n. 53683
Presidente Canzio, Relatore Vessichelli

La causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall’art. 131-bis cod. pen., non è applicabile nei procedimenti relativi a reati competenza del giudice di pace”.

Il fatto

La pronuncia in commento prende le mosse da una sentenza del Giudice di Pace di Verona con cui ha ritenuto applicabile l’art. 131 bis c.p. alla contravvenzione di cui all’art. 731 c.p. (inosservanza dell’obbligo dell’istruzione elementare del minore).

Specificamente, secondo il giudice onorario, tra l’art. 131 bis c.p. e l’art. 34 d.lgs. 274/2000 sorge un concorso apparente di norme risolto, ex art. 15 c.p., in favore della prima disposizione.

Difatti, la causa di non punibilità, introdotta nel 2015, è ritenuta lex specialis in ragione del numero di reati cui si applica, dell’estensione della stessa a coloro che non sono stati dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza, dell’assenza del consenso della persona offesa nonché dell’iscrizione nel casellario giudiziale del provvedimento di assoluzione per particolare tenuità del fatto.

Inoltre, si fa leva sulla diversa natura della fattispecie: causa di non procedibilità quella di cui all’art. 34 d.lgs. 274/2000 e causa di non punibilità quella di cui all’art. 131 bis c.p.

La pronuncia

Con la sentenza in epigrafe, il Supremo Collegio di Legittimità ha escluso che la causa di non punibilità – introdotta dalla L. 28/2015 e consacrata nell’art. 131 bis c.p. – non trova applicazione nei giudizi penali dinanzi ai giudici onorari.

Prima di analizzare la sentenza delle Sezioni Unite, occorre chiarire la ratio e le caratteristiche dell’istituto della “particolare tenuità del fatto”, ex art. 131 bis c.p.

Non si tratta di una disposizione innovativa in quanto l’istituto della particolare tenuità è stato delineato dal legislatore anche nel rito minorile, ai sensi dell’art. 27 d.P.R. 448/1988, e nel rito davanti al Giudice di Pace, ex art. 34 d.lgs. 274/2000.

La prima norma regola la sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto mentre la seconda ha ad oggetto l’esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto.

L’art. 131 bis c.p., introdotta con la L. 28/2015, risponde a diverse esigenze: in primis, la norma è stata introdotta con l’intento di deflazionare il contenzioso penale, caratterizzato da notevoli carichi pendenti.

In secundis, la riforma ha l’obiettivo di ricondurre il diritto penale alla sua caratteristica primaria: essere extrema ratio. Difatti, la sanzione penale si pone quale ultima risposta quando le altre sanzioni previste dall’ordinamento non siano sufficienti, in ossequio – altresì – al principio di offensività per cui le misure punitive dello Stato trovano applicazione solo a seguito di un’offesa di un bene giuridico.

Ancora, l’art. 131 bis c.p. consente al diritto penale di rispettare al meglio il principio di proporzionalità della pena, evitando pene eccessive per reati non particolarmente gravi.

La riforma del 2015, inoltre, rappresenta la reazione del legislatore alla sentenza Torreggiani della Corte EDU, pronunciata nel 2013. Con tale sentenza, i giudici di Strasburgo hanno condannato l’Italia per le condizioni disumane e per il sovraffollamento degli istituti di pena, incompatibile con i precetti della Convezione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali.

Sotto il profilo strutturale, l’art. 131 bis c.p. trova applicazione per i reati puniti con pena detentiva – sola o congiunta con pena pecuniaria – non superiore, nel massimo, a 5 anni.

Il comma 1 della disposizione codicistica delinea i parametri di valutazione della fattispecie facendo riferimento alla “particolare tenuità dell’offesa” e “la non abitualità del comportamento”.

Sotto il primo profilo, la tenuità dell’offesa si ricava dalle modalità della condotta e dell’esiguità del danno, valutate entrambe ai sensi dell’art. 133 c.p. mentre, secondo quanto statuisce il co. 2, l’offesa non può considerarsi di particolare tenuità “quando l’autore abbia agito per motivi abietti o futili, o con crudeltà, anche in danno degli animali, o ha adoperato sevizie o, ancora, ha profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in riferimento all’età della stessa ovvero quando la condotta ha cagionato o da essa sono derivate, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravissime di una persona”.

Per quanto concerne il secondo profilo, la condotta è abituale quando sia stata dichiarata l’ abitualità, professionalità o tendenza a delinquere, quando siano stati commessi reati della stessa indole, nonchè laddove siano stati commessi dei “reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate”.

L’ultimo comma chiude la disposizione affermando che la disposizione trova applicazione anche quando il legislatore abbia previsto la particolare tenuità del fatto o del pericolo come attenuante.

Tutto ciò premesso, la necessità di un intervento chiarificatore del massimo organo di nomofilachia, circa la possibilità – per i giudici onorari – di applicare l’art. 131 bis c.p., si deve al contrasto giurisprudenziale sorto in senso alla Corte di Cassazione.

Invero, secondo un primo orientamento, l’art. 131 bis c.p. non trova applicazione nel rito disciplinato dal d.lgs 274/2000 in quanto si considera l’art. 34 del medesimo decreto norma speciale rispetto alla su indicata disposizione codicistica.

In particolare, al fine di corroborare tale conclusione, sono stati richiamati alcuni elementi differenziali tra le due norme citate: nelle specie, l’art. 34 d.lgs 274/2000 richiede una valutazione di interessi individuali quali il grado di colpevolezza, l’occasionalità del fatto e l’incidenza del procedimento rispetto ad esigenze lavorative, familiari, di studio o di salute del soggetto indagato o imputato mentre l’art. 131 bis co. 2-3 c.p. richiede il vaglio della “particolare tenuità del fatto” e della “abitualità del comportamento”.

Ulteriore profilo discretivo si evince dal riconoscimento di un certo ruolo alla persona offesa dal reato solo da parte dell’art. 34 dlgs. 274/2000 in quanto il co. 2 prevede che il giudice di pace debba dichiarare – con decreto di archiviazione – il non doversi procedere solo laddove non vi sia u interesse alla prosecuzione del procedimento da parte della persona offesa. Inoltre, il co. 3 afferma che la particolare tenuità del fatto può essere pronunciata – con sentenza – solo in assenza di opposizione dell’imputato e dell’offeso.

Il ruolo riconosciuto alla persona offesa, secondo quanto statuito dalla sentenza n. 43264 del 2015 delle Sezioni Unite, pone l’accento sulla peculiare natura della giurisdizione onoraria: trattasi, infatti, di una giurisdizione conciliativa, come si ricava, altresì, dal potere della persona offesa di effettuare una vocatio in jus, ai sensi dell’art. 21 d.lgs. 274/2000.

Secondo tale orientamento, dunque, tra le norme in esame vi un rapporto di specialità, ex art. 15 c.p., che si risolve con l’applicazione dell’art. 34, quale norma speciale.

Altro orientamento, invece, sostiene l’applicabilità dell’art. 131 bis c.p. anche alla giurisdizione del giudice di pace richiamando la ratio della riforma del 2015: deflazionare i carichi pendenti e rispettare il principio di proporzionalità, escludendo la punibilità per i reati meno gravi.

Aggiungasi che, secondo tale prospettiva ermeneutica, occorre far leva sulla natura sostanziale dell’esaminando istituto, confermata anche dalle Sezioni Unite (sentenza n. 13681/2016).

In sostanza, si sostiene che gli artt. 131 bis c.p. e 34 d.lgs. 274/2000 presentano ambiti applicativi diversi e concorrenti e che, pertanto, la prima disposizione può trovare applicazione anche davanti al giudice di pace, in assenza dei requisiti – “specifici e più stringenti” – della seconda.

Ancora, ulteriore elemento richiamato a sostegno di tale orientamento è l’assenza di una diversa volontà del legislatore che non ha esplicitamente esteso l’art. 131 bis c.p. al giudizio penale celebrato dinanzi ai giudici onorari.

Tale contrasto interpretativo è stato ricomposto dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che hanno fatto propria la prima delle indicate elaborazioni pretorie.

Dopo aver evidenziato caratteristiche e fondamento della novella del 2015, il Collegio nomofilattico mette in luce le varie differenze tra l’art. 131 bis c.p. e l’art. 34 d.lgs. 274/2000, a partire dalla diversa rilevanza della persona offesa che, nella seconda ipotesi, ha un vero e proprio “potere di veto” alla dichiarazione di non punibilità, potere non previsto nella norma inserita nel codice penale, in quanto istituto di depenalizzazione sostanziale.

Ulteriore profilo differenziale riguarda la struttura delle disposizioni, con l’art. 34 d.lgs. 274/2000 che richiede anche l’occasionalità della condotta.

Ne discende, una sostanziale diversità tra le due fattispecie dalla quale deriva l’impossibilità di applicare l’art. 15 c.p. ovvero l’art. 2 c.p. per risolvere il contrasto applicativo.

Sotto il primo profilo, tra le due disposizioni non si può riscontrare – secondo il Supremo Collegio – un rapporto di specialità ma un semplice rapporto di interferenza, per il quale può farsi applicazione dell’art. 16 c.p., norma che estende le disposizioni del Codice Rocco anche alle leggi speciali, salvo diversa disposizione del legislatore.

In sostanza, le Sezioni Unite affermano che l’art. 16 c.p. impone all’interprete non solo il semplice semplice confronto tra la nuova fattispecie e la fattispecie preesistente ma induce, altresì, a ricercare – nella norma penale speciale – la eventuale sussistenza di una regolazione autonoma della materia.

L’osmosi tra norme speciali e codicistiche viene, inoltre, richiamata dall’art. 2 d.lgs. 274/2000 che dispone l’applicazione delle disposizioni del codice di procedura penale anche alla giurisdizione di pace, ove compatibili, con il limite della concreta applicabilità derivante dall’art. 63 d.lgs. 274/2000 il quale consente l’applicazione di alcune norme proprie del giudizio davanti al giudice di pace quando i reati di sua competenza sono giudicati da un giudice diverso.

Soprattutto, secondo la Corte di Cassazione, occorre richiamare quanto statuito dalla Corte Costituzionale con l’ordinanza n. 47/2014.

Infatti, la Consulta – con il citato provvedimento – ha ritenuto che l’art. 60 d.lgs. 274/2000 (che esclude la sospensione condizionale della pena nel rito dinanzi al giudice di pace) fosse compatibile con la Carta Costituzionale, a seguito di una valutazione dell’intero “microcosmo punitivo” in cui essa si innesta.

La Corte di legittimità costituzionale ha, pertanto, messo in evidenza la necessità di interpretare una qualsiasi disposizione normativa facendo leva non solo sul rapporto con la Costituzione del suo semplice dato letterale ma, anche, prendendo in considerazione anche l’intero contesto in cui la disposizione si inserisce.

L’obiettivo, dunque, è tutelare i connotati specifici del procedimento disciplinato dal d.lgs. 274/2000.

Per quanto concerne l’applicazione dell’art. 2 c.p., fondato sulla natura sostanziale dell’art. 131 bis c.p. che vuole l’operatività della lex mitior, non rappresenta – secondo i giudici di legittimità – argomento in grado di vincere le statuizioni prima evidenziate.

Difatti, tra le due disposizioni esaminate non sussiste alcun rapporto di specialità ma, al contrario, sorge una incompatibilità tra esse che, tuttavia, non ne impedisce la convivenza nell’ordinamento.

Le Sezioni Unite evidenziano, infatti, che con il d.lgs. 274/2000 si è dato seguito ad un rito speciale con specifiche disposizioni volte a rendere possibile la conciliazione tra le parti, nell’ottica di un “diritto penale mite“.

La disciplina delineata dall’art. 34 d.lgs. 274/2000 è, dunque, una disciplina speciale la cui integrità è tutelata dall’art. 16 c.p. che protegge la materia, già regolata dal novum normativo.


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