Le sopravvenienze atipiche tra presupposizione e causa in concreto

Le sopravvenienze atipiche tra presupposizione e causa in concreto

I contratti di durata sono accordi contrattuali destinati ad avere esecuzione per un determinato lasso di tempo. Nel corso dell’esecuzione di tali contratti possono intervenire le sopravvenienze, profondi mutamenti delle circostanze di fatto o di diritto sussistenti al momento della conclusione dei medesimi.

Tali cambiamenti implicano l’emersione di due esigenze contrapposte: da un lato, tutelare le parti liberandole, nel caso, da un impegno contrattuale divenuto inidoneo a soddisfare l’assetto di interessi da esse stesse delineato o consentire loro il ricorso a correttivi volti a ristabilire un equilibrio tra le prestazioni; dall’altro, garantire la certezza dei traffici giuridici.

In materia, si suole distinguere tra sopravvenienze tipiche ed atipiche. Le prime, codificate puntualmente dal legislatore, si configurano nell’impossibilità sopravvenuta ex art. 1463 cc e nell’eccessiva onerosità sopravvenuta ex art. 1467 cc. Le seconde, invece, sono quelle non disciplinate espressamente dal codice civile, per tali intendendosi i mutamenti non integranti i requisiti dell’impossibilità sopravvenuta né dell’eccessiva onerosità sopravvenuta e al contempo non gestiti dai contraenti in via convenzionale. Con riguardo a quest’ultima, è necessario evidenziare che dottrina e giurisprudenza hanno avvertito l’esigenza di implementare i rimedi azionabili dalle parti nel caso dell’alterazione dell’originario equilibrio contrattuale. Si è quindi voluto attribuire rilevanza a mutamenti delle circostanze che non fossero codificati e al contempo non gestiti dai contraenti in via convenzionale.

A tal proposito, è stata elaborata la teoria della presupposizione. Concepita dalla dottrina e accolta dalla giurisprudenza, essa ricorre ogni volta che una determinata situazione di fatto o di diritto di carattere obiettivo, il cui venire meno o il verificarsi sia indipendente dalla volontà dei contraenti e non sia oggetto di una loro obbligazione, possa ritenersi tenuta presente dai contraenti stessi nella formazione del consenso come presupposto comune, avente valore determinante ai fini del permanere del vincolo contrattuale. Sebbene tale concetto sia accolto univocamente, non vi è unanimità di vedute in relazione al fondamento giuridico dell’istituto.

In origine, la presupposizione è stata configurata come una sorta di condizione risolutiva implicita. A ben vedere, però, la principale differenza tra tali istituti è rappresentata dal profilo strutturale. La condizione, infatti, è un evento futuro ed incerto, dal cui avverarsi le parti fanno dipendere l’efficacia o la risoluzione del contratto. La presupposizione, invece, include situazioni presenti, passate o future, il cui permanere o verificarsi è dato come certo dalle parti alla conclusione del contratto.

Un altro importante orientamento ha proposto di giustificare la rilevanza della presupposizione sul piano oggettivo, affermando che la mancata verificazione o il venire meno di una circostanza cui le parti hanno implicitamente riconosciuto valore determinante, integra difetto causale del contratto.

In relazione al tema di cui si discute, è innanzitutto necessario definire la causa. Essa è un elemento costitutivo del contratto medesimo, prevista dall’art. 1325 cc, la cui mancanza determina la nullità dello stesso. Tale elemento ha subito una significativa evoluzione nel tempo. In un primo momento, infatti, la causa esprimeva la funzione economico- sociale e rispondeva alla necessità che il fine intrinseco del contratto fosse socialmente apprezzabile e come tale meritevole di tutela. Con l’entrata in vigore della Costituzione, tale concetto cambia e la causa diventa espressione della funzione economico- individuale del negozio. Oggi l’operazione economica è valutata nella sua specificità e con le caratteristiche che assume nella singola relazione sociale. In concreto, la causa è lo strumento di accertamento della conformità alla legge dell’attività negoziale, della quale va accettata la conformità ai parametri della liceità e della meritevolezza di tutela.

L’inquadramento proposto della presupposizione come difetto causale non risulta, però, concettualmente corretto. L’elemento differenziale consiste in ciò e cioè che la causa attiene alla genesi del contratto e l’indagine relativa alla sussistenza di tale elemento è volta ad accertare che il contratto sia ab origine sorretto da una causa lecita e non futile. Sotto il medesimo profilo causale, risulta invece irrilevante che gli interessi perseguiti tramite l’operazione negoziale siano diventati irrealizzabili solo in un secondo momento. L’esistenza della causa, dunque, deve essere accertata alla stipula del contratto, mentre la presupposizione afferisce a sopravvenienze che possono intervenire durante il rapporto negoziale. Entrambi gli istituti, in ogni caso, si riferiscono al concreto assetto di interessi programmato dalle parti.

In aggiunta a quanto esposto, occorre rilevare che talvolta sono gli stessi contraenti a predisporre strumenti di controllo delle sopravvenienze in via convenzionale. Ad esempio, le parti possono, in concerto, ricorrere alla stipula di negozi preparatori per rinviare ad un momento successivo l’assunzione del vincolo contrattuale. Altro rimedio esperibile è rappresentato dalle clausole di completamento, con le quali le parti stesse assumono da subito un impegno contrattuale definitivo, ma rinviano ad un momento successivo la determinazione di alcuni profili della contrattazione, in quanto si devono acquisire informazioni che ancora non si dispongono. Ancora, le parti possono avvalersi di clausole di adeguamento automatico, cioè strumenti con i quali decidono di non lasciare lacune nel contratto. E’ utile rilevare che nella prassi ciò si verifica, ad esempio, per le obbligazioni pecuniarie al fine di contenere le conseguenze di una rigida applicazione del principio nominalistico.

In relazione a tutto quanto fino a qui asserito, però, per completezza è necessario porre in risalto una particolare avversione da parte di dottrina e giurisprudenza relativamente alle sopravvenienze non codificate. Si è affermato che se le parti avessero voluto, avrebbero potuto in via convenzionale arginare i rischi correlati alla verifica di determinati avvenimenti. Costituiscono manifestazione dell’autonomia negoziale sia l’inserimento di apposite clausole di rinegoziazione o completamento nel contratto, sia la stipula dei già menzionati negozi preparatori prima di assumere un impegno definitivamente. Tale impostazione era inoltre suffragata dal dogma dell’intangibilità del contratto da parte del giudice, in virtù del quale quest’ultimo non può sostituirsi alle parti nelle valutazioni di convenienza ad esse riservate, né tantomeno apportare al contratto le modifiche necessarie per neutralizzare l’effetto negativo delle sopravvenienze. Negli ultimi anni si è però riconosciuto al giudice un generale potere di controllo sull’autonomia negoziale, laddove essa non sia esplicitata liberamente. Le ipotesi di riferimento sono quelle in cui il contratto risulta squilibrato per effetto della condotta di approfittano dell’altrui condizione di debolezza posta in essere da una parte verso l’altra. Di conseguenza, se si ammette il sindacato sul contratto iniquo ab origine, a maggior ragione il principio dell’intangibilità del giudice alle parti dovrebbe essere temperato se intervengono fattori sopravvenuti.

Il tema delle sopravvenienze risulta essere stato influenzato anche dalla progressiva valorizzazione del principio di buona fede. Tale principio rappresenta una fonte integrativa del contratto in virtù della quale, nella fase esecutiva del rapporto, le parti sono tenute a tollerare eventuali variazioni delle prestazioni altrui oppure a modificare le proprie nell’interesse della controparte, nei limiti di un sacrificio non apprezzabile. Ciò, in un’ottica di conservazione del contratto stipulato.

A riguardo, giova porre in evidenza che corollario del principio di buona fede citato è l’esigenza di un generale obbligo di rinegoziazione, valido anche in mancanza di una previsione normativa o senza clausola pattizia. Se, quindi, durante l’esecuzione di un contratto si verificano mutamenti di fatto o di diritto, le parti dovrebbero svolgere nuove trattative, volte a modificare il programma iniziale. L’eventuale rifiuto ingiustificato di rinegoziazione di un negozio inficiato da sopravvenienze integra inadempimento contrattuale e legittima la parte adempiente a chiedere la risoluzione del contratto, in quanto viola il dovere di eseguire il contratto secondo buona fede ex art. 1375 cc. Quest’ultima, quindi, viene utilizzata in materia come strumento per valutare se il predetto mutamento possa essere fronteggiato con una correzione del regolamento negoziale oppure sia tale da condurre alla caducazione del contratto.

Anche in tema di sopravvenienze emerge il ruolo della buona fede quale fonte di ulteriori obblighi per le parti rispetto a quelli assunti nel contratto. In concreto, essa impone a ciascuno dei contraenti il rispetto di determinati obblighi di collaborazione al fine di consentire all’altro la realizzazione del proprio interesse, sempre nei limiti del già menzionato sacrificio non apprezzabile. Ove, poi, una semplice modifica non fosse sufficiente a ripristinare l’equilibrio originario, il principio imporrebbe alle parti un’ulteriore soluzione, cioè quella di valutare la possibilità di una rinegoziazione. Il rimedio caducatorio, quindi, sarebbe l’ultima soluzione cui ricorrere.

In conclusione, anche in caso di mutamenti dell’assetto contrattuale intervenuti durante l’esecuzione del contratto, grazie al principio cardine della buona fede, le parti hanno la possibilità di poter utilizzare strumenti volti alla conservazione del negozio stesso, senza doverlo necessariamente caducare.


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Fabio Piedigrotta

Sono una persona dinamica, propositiva ed appassionata a tutto quello che faccio. Metto sempre il massimo impegno in ciò che devo fare. Sono altresì aperto al confronto e alla collaborazione.

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