Legalità, irretroattività, colpevolezza, materialità ed offensività dell’illecito penale

Legalità, irretroattività, colpevolezza, materialità ed offensività dell’illecito penale

Il principio di legalità o della riserva di legge in materia penale, sancito dall’art. 25, co. 2 Cost., é il fondamento del moderno Stato di diritto ed ha una pregnante funzione garantista della libertà individuale.

Difatti, la punibilità del soggetto agente presuppone che questi abbia commesso un fatto previsto come reato da una legge antecedente alla realizzazione del fatto stesso.

Vi é pertanto tra legalità e irretroattività un nesso stringente, ben riassunto nel brocardo latino : “nullum crimen, nulla poena, sine praevia lege poenali”, ovverosia non possono esservi un reato né una pena se non in virtù di una norma penale incriminatrice preesistente.

Se l’illecito civile ex art. 2043 c.c. é atipico, al contrario quello penale é tipico, giacché i suoi elementi costitutivi sono tutti predeterminati dalla legge statale.

Ai fini della tutela del singolo il monopolio della potestà punitiva é riservato al legislatore nazionale e non anche a quello regionale od europeo, ferma restando comunque l’influenza mediata del diritto eurounitario sulla normativa interna.

Si pensi all’introduzione nel 1990 dell’art. 640-bis c.p. sulla truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche anche a danno delle “Comunità europee” ovvero all’art. 325 TFUE contenente la c.d. clausola di “assimilazione” degli interessi finanziari nazionali a quelli europei, con la conseguenza che gli uni e gli altri devono essere tutelati con le medesime sanzioni, concretamente efficaci e dissuasive.

D’altra parte, come ha dimostrato il celebre affaire “Taricco”, l’esigenza di salvaguardare l’Unione europea contro frodi gravi, per esempio in materia di IVA, non può giustificare il sacrificio di principi costituzionali supremi né di diritti inalienabili della persona.

A questo proposito, la Corte Costituzionale ha attivato la teoria dei “controlimiti”, elaborata nel 1979 e combinata con il principio di primazia del diritto comunitario su quello interno di cui alla sentenza “Granital” n. 170/1984.

Ergo, a fronte di un’antinomia, non sanabile sul piano ermeneutico, tra una norma nazionale e un’altra europea “self executing” o immediatamente efficace, il giudice comune ha sempre il potere/dovere di disapplicare la prima e di applicare la seconda, salvo che quest’ultima sia in contrasto con i principi e i diritti suindicati.

Nel caso “Taricco” un’eventuale disapplicazione delle norme penali statali sulla prescrizione avrebbe da un lato garantito una maggiore tutela degli interessi finanziari UE ma, dall’altro, avrebbe comportato l’inaccettabile costo della violazione dei principi di legalità ed irretroattività.

Infatti, le regole sulla prescrizione sarebbe state fissate di volta in volta dal giudice a discrezione di quest’ultimo, ragion per cui sarebbero venuti meno anche quelli che, secondo la giurisprudenza della Corte di Strasburgo o Corte EDU, sono i due logici corollari della irretroattività : la sufficiente accessibilità o conoscibilità del precetto penale e la prevedibilità delle conseguenze della violazione del precetto stesso.

Quest’ultimo é conoscibile se formulato in ossequio al principio di legalità, declinato come precisione, determinatezza e tassatività o divieto di analogia in malam partem della fattispecie.

In primo luogo, il principio di precisione esige che la disposizione penale non sia costruita in modo generico, ammettendosi comunque che un precetto, in sé già perfetto, rinvii a concetti descrittivi ovvero normativi.

Nel primo caso, si tratta di concetti quali ad esempio “madre”, “uomo”, “minore” che chiunque é in grado di cogliere e di comprendere attraverso i sensi o l’esperienza; nel secondo, invece, vengo in rilievo norme extrapenali richiamate da concetti come l’altruità delle cose nel reato di appropriazione indebita ex art. 646 c.p. ovvero la fidefacenza nel reato di falso materiale aggravato commesso dal pubblico ufficiale in atti pubblici ex art. 476, co. 2 c.p.

Quanto alla determinatezza, il legislatore può incriminare i soli comportamenti suscettibili di essere dimostrati in giudizio tramite leggi scientifiche di copertura oppure massime di esperienza fondate sull’id quod plerumque accidit.                                                                                                                                                                                                       

Proprio per la violazione di tale principio e, segnatamente, vista l’impossibilità di provare scientificamente e razionalmente la stato di soggezione in cui una persona riduce un’altra, la Consulta con la sentenza n. 96/1981 dichiarò illegittimo l’art. 603 c.p. che puniva il reato di plagio.

Da ultimo, il divieto di analogia in malam partem di cui all’art. 14 delle Preleggi o Disposizioni preliminari al Codice civile del ’42 non preclude un’applicazione analogica con effetti favorevoli al reo, purché si tratti di norme espressione di principi di carattere generale come la scriminante sulla legittima difesa, fondata sul principio romanistico “vim vi repellere licet”.

Al contrario, va esclusa l’analogia, sia pure vantaggiosa per l’agente, per quanto riguarda le cause eccezionali di non punibilità come quella per particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p., nonché le lacune volontariamente lasciate dal legislatore come per la circostanza attenuante comune che richiede il risarcimento solo totale e non anche parziale del danno patrimoniale o non patrimoniale derivante dal reato commesso.

Un precetto conforme ai principi testé analizzati é conoscibile a sufficienza dai consociati ciascuno dei quali potrà, allora, prevedere le conseguenze di un comportamento difforme e, autodeterminandosi, scegliere se contravvenire o meno al precetto stesso.

Ciò vuol dire che un terzo principio si affianca alla legalità e alla irretroattività delle norme penali sfavorevoli all’agente : si tratta del principio di colpevolezza che ha fondamento nell’art. 27, co. 1 Cost.

La Corte Costituzionale con le sentenze n. 364 e 1085 del 1988 ha valorizzato al massimo i principi di personalità del reato e di colpevolezza dell’agente, così esautorando le fattispecie di responsabilità oggettiva ancora disseminate nel Codice Rocco del ’30 e fondate sull’ormai vetusto brocardo “Qui in re illicita versatur respondit etiam de casu”.

Non potendosi punire l’agente in virtù del solo nesso di causalità materiale tra la condotta e l’evento di danno o di pericolo, superato l’art. 42, co. 3 c.p., per infliggere una sanzione penale é richiesto un duplice nesso eziologico e psicologico tra il reo ed il fatto che dev’essergli imputabile a titolo di dolo, colpa o preterintenzione.

Nel caso dei delitti, il dolo costituisce la regola, mentre la colpa e la preterintenzione una deroga; quanto alle contravvenzioni, queste sono punibili indistintamente a titolo di dolo o colpa.

Pacifico allora é che il soggetto agente sia punibile, avendo posto in essere colpevolmente un fatto di reato tipico previsto da una norma antecedente della quale il reo era stato reso edotto dall’ordinamento.

Va detto che non può invocarsi l’errore di diritto inevitabile ex art. 5 c.p. per escludere la punibilità, per il solo fatto che risulti violata una “norma penale in bianco” atteso che, vista la natura “tendenzialmente assoluta” della riserva di legge penale, quest’ultima, di rango primario, ben può essere integrata da norme contenute in fonti secondarie, purché si tratti di un’integrazione meramente tecnico – scientifica, non invasiva della sfera di discrezionalità politica del potere legislativo.

Emblematico é il D.P.R. 309/1990 in materia di sostanze stupefacenti o psicotrope, elencate nelle tabelle del Ministero della Salute e periodicamente aggiornate.

Ne consegue che un’eventuale modifica di norme secondarie integrative costituirebbe un fenomeno di successione di leggi penali nel tempo ex art. 2 c.p. con esclusione, invece, dei concetti descrittivi e normativi ai quali rinviano precetti penali che sono già perfetti.

Ultimo aspetto da indagare é l’offensività dell’illecito penale dal momento che, qualora il fatto commesso non risultasse concretamente offensivo rispetto ai beni giuridici protetti dall’ordinamento, non avrebbe alcuna ragione punire il soggetto agente né potrebbe la pena inflitta espletare la sua tipica funziona rieducativa o di risocializzazione del reo ex art. 27, co. 3 Cost.

Occorre distinguere tra offensività in astratto e quella in concreto.

La prima si traduce in un vincolo rivolto al legislatore, chiamato ad incriminare i soli comportamenti che ledano o mettano in pericolo beni o interessi giuridici preesistenti, individuali e collettivi, nonché costituzionalmente protetti.

Essa si compenetra con il principio di materialità il cui fondamento risiede nell’art. 49, co. 1 c.p. sulla non perseguibilità del c.d. reato putativo : essenzialmente, l’agente non é punibile per ciò che é o per ciò che pensa, ma esclusivamente per ciò che fa, ragion per cui offensività astratta e materialità si compendiano nel brocardo cogitationis poenam nemo patitur”.

Questo spiega la non punibilità di colui che giustappunto commette un fatto, credendo che sia un reato quando non lo é e, non ravvisandosi alcuna pericolosità sociale in concreto, é altresì inapplicabile la misura di sicurezza ex art. 49, co. 4 c.p.

La predetta misura, volta a contenere tale pericolosità, é afferente al solo reato impossibile per inesistenza, originaria ed assoluta, dell’oggetto dell’azione ovvero per inidoneità di quest’ultima a causare l’evento dannoso o pericoloso cui per legge é subordinata l’esistenza del reato.

Secondo l’opinione ormai maggioritaria in dottrina e in giurisprudenza, l’art. 49, co. 2 c.p. assurge a fondamento della concezione “realistica” del reato e del principio di concreta o necessaria offensività dell’illecito penale.

Se il fatto commesso é pienamente e concretamente offensivo, nulla quaestio e il reo viene punito; questi, all’opposto, sarebbe ritenuto non meritevole di pena ex art. 131-bis c.p., se il fatto risultasse lievemente offensivo per esiguità del danno o del pericolo oppure per le particolari modalità della condotta tenuta.

Terza ed ultima ipotesi é quella della non punibilità dell’agente per avere questi commesso un fatto concretamente non lesivo o non pericoloso per il bene giuridico presidiato dalla norma violata e, quindi, atipico.

Basti pensare al falso grossolano, al falso innocuo e al falso inutile, inidonei ex art. 49, co. 2 c.p. a minare la fede pubblica, vale a dire la certezza e l’affidabilità dei traffici economico – giuridici : il primo perché talmente palese da essere immediatamente riconoscibile da chiunque, il secondo per via del contesto in cui é realizzato ed il terzo in quanto avente ad oggetto un documento irrilevante per l’adozione del provvedimento amministrativo finale.

In definitiva, la concreta offensività si annovera a pieno titolo tra gli elementi costitutivi del fatto di reato tipico e non potrebbe essere altrimenti, poiché la ratio essendi del sistema penale e delle sue sanzioni risiede proprio nella tutela di beni giuridici che possono essere pregiudicati o messi in serio pericolo dai consociati.


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Jacopo Bracciale

Dopo aver conseguito la maturità classica con una votazione finale di 100/100, mi sono laureato cum laude in Giurisprudenza presso l'Università degli studi di Teramo con una tesi in Teoria generale del diritto dal titolo "Il problema dei principi generali del diritto nella filosofia giuridica italiana". In seguito, ho svolto con esito positivo presso il Tribunale di Teramo il tirocinio formativo teorico - pratico di 18 mesi ex art. 73 D.L. 69/2013 : per un anno nella Sezione Penale e, nei restanti sei mesi, in quella Civile. Parallelamente ho frequentato e, ancora oggi, frequento il corso di Rocco Galli per la preparazione al concorso in magistratura. Dal mese di novembre del 2020 collaboro con la rivista scientifica Salvis Juribus come autore di articoli di diritto civile, penale ed amministrativo.

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