Legislazione emergenziale, le criticità applicative da cui ripartire

Legislazione emergenziale, le criticità applicative da cui ripartire

La diffusione dell’epidemia nel Paese è stata fronteggiata a livello normativo, ove presenti carenze, da numerosi DPCM e Decreti Legge. Tali strumenti hanno intaccato le libertà fondamentali e i poteri sindacali di cui al Testo Unico degli Enti Locali (da ora TUEL), prestando il fianco a molte critiche e conseguenti revisioni.

In questo articolo si procederà ad un’analisi sintetica (per quanto possibile) del cursus normativo con cui è stata fronteggiata l’emergenza Covid, cercando di fornire uno spunto di riflessione sulle criticità applicative di una legislazione frettolosa, spunto che auspicabilmente potrà essere colto come punto di partenza per pianificare nuove strategie da utilizzare in futuro in contesti critici microscopici e macroscopici, con l’augurio, ovviamente, che non ce ne siano più.

Appena scattata l’emergenza, con la necessità di agire al più presto e non potendo aspettare i tempi parlamentari, il Consiglio dei Ministri, in virtù di quanto stabilito dal D.Lgs. n. 1 del 2018 (Codice della Protezione Civile) dichiarò lo stato di emergenza, conferendo al Presidente del Consiglio dei Ministri, al tempo Giuseppe Conte, delega “ad adottare ordinanze in deroga a ogni disposizione vigente, purché sia dichiarato quali sono le disposizioni di legge che s’intende derogare e siano rispettati i principi generali dell’ordinamento e il diritto europeo”. Per aver maggiore margine di manovra, in considerazione della terribile e velocissima avanzata della pandemia, il Governo, al comparire dei primi focolai e quindi delle prime zone ad alto contenimento (c.d. zone rosse) decise di adottare il D.L. n. 6/2020 (poi convertito nella legge n. 13/2020), con cui si stabilì che il Presidente del Consiglio, di concerto con il Ministro della Salute, avrebbe dovuto adottare “ogni misura di contenimento e di gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica”. Da questo Decreto Legge trassero la loro forza i successivi DPCM.[1]

Orbene, in osservanza del predetto D.L., il Consiglio procedette ad adottare misure sempre più restrittive per fermare la diffusione del virus, ma il tempo, come si vedrà più avanti, avrebbe confermato che quella era la strada normativa sbagliata. I DPCM infatti non sono altro che atti di alta amministrazione di competenza del presidente del Consiglio (che in questo caso li avrebbe adottati sentiti i Ministri e le Regioni con parere obbligatorio ma non vincolante), possono avere contenuto regolamentare, certo, ma laddove ne avessero sarebbero comunque fonti del diritto di rango secondario, subordinato quindi alla legge ordinaria. Per tale motivo venne ad esistere il D.L. n. 6/2020: il fine era quello di effettuare un rinvio “in bianco” ad un atto avente forza di legge per giustificarne uno avente forza normativa di carattere secondario. In ogni caso i DPCM vennero concepiti in modo errato.

In primo luogo venne stabilita una sanzione penale per la violazione del DPCM, facendo riferimento all’art. 650 c.p., in aperto contrasto con l’art. 25 della Costituzione, che, sancendo il principio di riserva di legge in ambito penale, attribuisce alla legge ordinaria e agli atti aventi forza di legge (di rango primario) il potere di intervenire in materia penale, non giustificandosi quindi la previsione di un rinvio all’art. 650 c.p. in un atto amministrativo avente contenuto regolamentare. Di qui una duplice conseguenza: innanzitutto le sanzioni in questione vennero puntualmente annullate dai giudici di merito, sia per questione di illegittimità (come sopra evidenziato) sia per questione di intasamento degli uffici giudiziari, infatti le violazioni furono talmente tante che sarebbe stato folle avviare un numero equivalente di procedimenti di base illegittima e comunque di entità punitiva manifestamente sproporzionata; in secondo luogo vennero impiegate le Forze Armate e le Forze dell’Ordine per la repressione di quello che era stato qualificato come un reato senza che si tenesse minimamente conto del principio di tassatività della legge penale. Infatti, nel prevedere la sanzione per violazione del DPCM, non si tenne conto della fattispecie con precisione, per farla breve, ai cittadini, giustamente, non era chiaro cosa costituisse reato e cosa no, quali comportamenti fossero concessi e quali no, moltissimi furono i casi di persone spostatesi per necessità e sottoposte per tale motivo ad un procedimento penale. Per far fronte all’indeterminatezza del dato normativo venne fatto abuso dello strumento delle F.A.Q. sul sito del Governo, intese qui come clausole di interpretazione autentica.[2]

Ancora, i DPCM conferirono alle Autorità Locali il potere di emanare in autonomia ordinanze volte al contenimento della situazione epidemiologica, ordinanze anche maggiormente restrittive del decreto stesso.

Qui si aprì un altro Vaso di Pandora. Molti presidenti di regione e molti sindaci iniziarono ad adottare ordinanze manifestamente illegittime e in aperto contrasto con la legge ordinaria, tanto che i TAR le annullarono puntualmente.[3]

In particolare, molto fecero parlare di sé i sindaci. Il sindaco, come è noto, è autorità locale di pubblica sicurezza dove manchi il funzionario della Polizia di Stato o il Prefetto, ed in forza degli artt. 50 e 54 del TUEL egli può emanare ordinanze c.d. extra ordinem con vera e propria forza derogatrice alla legge, al fine di fronteggiare situazioni di grave rischio per la salute e per l’incolumità pubblica. Nelle ordinanze ex art. 50 può farlo come rappresentante della comunità locale, in quelle ex art. 54 come Ufficiale di Governo. A ciò aggiungasi che il sindaco è autorità sanitaria locale, secondo quanto stabilito dalla legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, in combinato disposto con la L. n. 142/90 e n. 833/78. Anche in questo caso ha la possibilità di emanare ordinanze extra ordinem a fronte di emergenze sanitarie locali. Tutte queste norme conferiscono ai sindaci quindi la possibilità, in determinati casi di eccezionale gravità, di emanare ordinanze c.d. “contingibili ed urgenti”.[4]

In periodo Covid, in forza dell’autorizzazione concessa ai sindaci dai DPCM, rivelatisi poi, si passi il termine, patologici, e delle leggi sopra richiamate, i sindaci iniziarono a emanare ordinanze, in continua deroga delle norme statali, fino all’abuso.

I Tar, di contro, iniziarono sistematicamente ad annullare ordinanze sindacali, ad esempio, il TAR di Bari stabilì che “il Sindaco […] non è privato del potere di ordinanza extra ordinem ma – diversamente da quanto avviene in periodi non qualificabili come emergenze nazionali, in cui l’ordinanza contingibile e urgente vale a fronteggiare un’emergenza locale e può avere finanche attitudine derogatoria dell’ordinamento giuridico – neppure può esercitare il potere di ordinanza travalicando i limiti dettati dalla normativa statale, non solo per quel che concerne i presupposti ma anche quanto all’oggetto della misura limitativa”.[5]

Il TAR di Napoli, sull’ordinanza del sindaco De Magistris n. 249/2020, in sede di sospensione cautelare della stessa stabiliva che “non ricorresse il presupposto dell’urgenza richiesto per l’adozione delle ordinanze contingibili e urgenti e, comunque, che l’oggetto dell’ordinanza non rientrasse correttamente né nelle competenze conferite dall’articolo 50 del T.U.E.L., né dell’articolo 54 del T.U.E.L., ma piuttosto nella potestà regolamentare del Comune. Per tutti questi motivi, accoglieva l’istanza di sospensione cautelare monocratica dell’ordinanza del Sindaco di Napoli”. [6]

Di fronte all’incessante opera di annullamento da parte dei tribunali amministrativi delle ordinanze sindacali e all’incertezza del dato normativo emergenziale contenuto nel DPCM e nel D.L. n. 6/2020, il Governo decise di dare un coordinamento ed un’omogeneità alla legislazione anti-Covid. Venne emanato il D.L. n. 19/2020.

Con tale decreto si cercò di integrare le lacune della precedente normativa[7]

e soprattutto si tentò una limitazione del potere di ordinanza del sindaco. Specificamente, all’art. 3 del predetto decreto del 25 marzo 2020, era previsto “I Sindaci non possono adottare, a pena di inefficacia, ordinanze contingibili e urgenti dirette a fronteggiare l’emergenza   in contrasto con le misure statali, né eccedendo i limiti di oggetto cui al comma 1”.

Contestualmente, venne eliminato il riferimento al codice penale per le sanzioni riguardanti le violazioni dei DPCM, venne infatti all’uopo irrogata una sanzione amministrativa ai trasgressori, pari a 400,00 euro (fino ad un massimo di 3000,00 euro, con aumenti in funzione delle modalità di trasgressione), ed un’altra sanzione penale pari ad euro 500,00 (fino a 5000,00) per la sola violazione dell’obbligo di quarantena, questa sì giustificata nel suo carattere penale in funzione del bene giuridico tutelato. Non è tutto, per la violazione della quarantena poteva anche essere disposto l’arresto da 3 a 18 mesi.

Così facendo, il Governo si assicurò di dare un carattere maggiormente uniforme alla normativa di emergenza, evitando di porsi in contrasto con il dettato costituzionale o con la legge ordinaria.

Come visto successivamente però, lo strumento servì solo ad alleviare le sofferenze di un sistema malato che, pochi mesi dopo, cessò di esistere con la fine dello stato di emergenza.

Naturalmente la ricognizione fatta con il presente articolo è “a freddo”, a mente lucida, condotta sommariamente e senza alcuna fretta. È chiaro che in un contesto emergenziale come è stato quello del 2020 molte considerazioni sono state liquidate rimandando il problema applicativo al futuro, in considerazione dell’urgenza data dalla terribile pandemia, ricordiamo infatti che l’intero Paese viveva in quarantena subendo il trauma delle comunicazioni giornaliere sulle migliaia di morti. Non c’è perciò, a modesto avviso dello scrivente, da criticare il comportamento delle Istituzioni, piuttosto c’è da analizzare il corso degli eventi, quella che è stata la base giuridica con cui si è fatto fronte ad un’improvvisa e devastante emergenza sia a livello centrale che locale.

A ben vedere, la pandemia, dal punto di vista giuridico, non è stata affrontata male, la domanda è: si poteva fare di meglio ? Sì, certamente, ma con il senno di poi è facile giungere a questa risposta. Certo è che se malauguratamente ci si dovesse trovare nuovamente di fronte ad un’emergenza sanitaria il precedente ci sarebbe, ci sarebbe un dato empirico su cui basarsi per fare meglio. È questo quindi il punto, le criticità emerse nell’applicazione di una normativa frettolosa (e non avrebbe potuto essere diversamente) possono considerarsi il trampolino di lancio per un’evoluzione della base giuridica di cui si parlava sopra, possono essere lo spunto per perfezionare il sistema legislativo e amministrativo italiano, sì da affrontare situazioni critiche in modo più efficiente.

Naturalmente il rischio onnipresente è che non si impari dalla storia, che nulla cambi e che si ripropongano ciclicamente gli stessi problemi, ma ci si augura che questo non succeda, dopotutto sarebbe sufficiente uniformare e aggiornare una legislazione abbastanza scarna e dispersiva, come è stato fatto in altri ambiti, come per esempio nella crisi di impresa.

 

 

 

 

 


[1]Lorenzo, L., DPCM e Costituzione, Altalex, https://www.altalex.com/documents/news/2020/05/11/dpcm-e-costituzione, 2020.
[2]Sul punto, Lorenzo, L., op. cit., Altalex, 2020.
[3]Fino all’emanazione del D.L. n. 19/2020, di cui si parlerà nel prosieguo.
[4]Cfr. Galliani, M., I poteri sindacali durante l’emergenza Covid-19, IL DIRITTO AMMINISTRATIVO Rivista Giuridica, https://www.ildirittoamministrativo.it/I-poteri-sindacali-durante-emergenza-Covid-19-Marcello-Galliani/ted719, 2021.
[5]Tar Bari, sez. III, 22 maggio 2020, n. 733.
[6]Cfr. Tar Napoli, sez. V, n. 1153 del 2020.
[7]Con scarsi risultati, in effetti anche le sanzioni amministrative inflitte in forza di tale decreto furono progressivamente annullate. Inoltre, il largo uso delle F.A.Q. non cessò, le lacune restarono e si procedette fondamentalmente studiando le diverse situazioni caso per caso fino alle aperture.

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Antonio Sticchi

Sono l'Avv. Antonio Sticchi, attualmente Ufficiale di Stato Civile, Anagrafe, Ufficio Elettorale e Leva in un piccolo comune del Salento. All'età di 24 anni, nel 2017, mi sono laureato in Giurisprudenza presso l'Università del Salento ed ho subito intrapreso il percorso di praticantato forense e notarile, coltivando al contempo la mia passione per la materia economica. Nel 2020, all'età di 27 anni ed in piena pandemia, ho superato l'esame di stato per l'esercizio della professione forense. Dopo un breve periodo nella Polizia di Stato, ho deciso di aprire un mio studio legale, per poi vincere di lì a poco un altro concorso pubblico per la posizione che attualmente ricopro. Per il futuro ho in programma di non fermarmi mai, di arrivare sempre più in alto. Qualcuno vuole venire con me ? La compagnia è ben accetta. Stay hungry ! Stay foolish !

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