Lettere dal carcere: le testimonianze dei detenuti reclusi nelle carceri italiane

Lettere dal carcere: le testimonianze dei detenuti reclusi nelle carceri italiane

Sommario: 1. “I nostri diritti sono anche i diritti dei detenuti” – 2. Salvatore Sasà Piscitelli – 3. Antonino Cupri – 4. Detenuto del carcere di Massara, a Oristano – 5. Valerio Mazzarella – 6. Gaetano Santangelo – 7. Davide Emmanuello – 8. Maurizio Riunno – 9. Lettera di un giovane detenuto – 10. Ismail Ltaief – 11. Gerardo De Piano – 12. Angelo Massaro

 

1. “I nostri diritti sono anche i diritti dei detenuti”

L’intero sistema penale, di cui fa evidentemente parte quel segmento finale qual è l’esecuzione e l’espiazione della pena, deve essere considerato alla luce del dettato normativo, primo fra tutti quello costituzionale. E, d’altronde, non può essere diversamente: la libertà personale è un diritto fondamentale ma soprattutto inviolabile.

Questa è la premessa necessaria, dalla quale si deve partire per la costruzione di un sistema che tenga conto di diritti e di doveri, di facoltà e di responsabilità, di azioni e di conseguenze, nell’ottica dell’instaurazione di un dialogo tra di essi, finalizzato a ottenere un compromesso, e reciproche concessioni.

All’interno di queste coordinate si colloca il quadro normativo, nazionale e sovranazionale, che positivizza l’esecuzione della pena, intesa nel senso più ampio: è questo il parametro di verificabilità della Giustizia.

Essere stati condannati all’esito di un processo penale non significa, per ciò solo, dover passare il resto dei giorni in una cella.

Da qui, la previsione di misure eterogenee, da una parte accomunate dal perseguimento di un obiettivo comune, qual è il reinserimento sociale del condannato, dall’altra contraddistinte dal soddisfacimento di un determinato tipo di esigenza. Da questa prospettiva devono essere considerati, ad esempio, gli strumenti premiali e le misure alternative alla detenzione.

La loro previsione, infatti, non si ispira a ragioni di “clemenza” quanto, piuttosto, alla necessità di assicurare una certa proporzionalità, anche nelle modalità di espiazione della propria condanna. Il principio di proporzionalità – che trova terreno fertile nel sistema penale proprio in ragione della libertà personale – non è soddisfatto solo dall’irrogazione di una pena che sia congrua rispetto al fatto commesso. Esso trova campo di applicazione anche nel momento immediatamente successivo, e cioè quando quella pena deve essere in concreto eseguita: tra le diverse modalità di espiazione, predeterminate dal legislatore, deve essere scelta quella che garantisce il reinserimento sociale del detenuto alla luce di un trattamento penitenziario individualizzato. Se così non fosse, infatti, il condannato non percepirebbe la “giustizia” insita in quella risposta sanzionatoria, rispetto al comportamento dallo stesso tenuto.

Non si possono dimenticare le condanne ricevute dal nostro Paese da parte del sistema sovranazionale in merito alla questione del sovraffollamento, della carenza di risorse, sia personali, sia strutturali, che, è evidente, rende più difficile quel percorso di reinserimento nella società.

La situazione di emergenza sanitaria ha ben mostrato, e dimostrato, l’insufficienza (sostanziale) e l’impotenza di un sistema penitenziario che, con grande fatica, ha cercato di rimanere indenne e di sopravvivere davanti l’imprevisto e l’imprevedibile.

I dati sono chiari: il virus si è diffuso negli Istituti penitenziari, sia tra chi vi è ristretto, sia tra chi presta in quei luoghi la propria attività lavorativa. E, certo, non potevamo immaginare un finale diverso se consideriamo i numeri di affollamento o, per meglio dire, di sovraffollamento delle strutture. La reazione a catena, che si è innescata davanti l’imprevisto, era prevedibile e paventata dai più già mesi fa, attraverso i continui dibattiti sulla questione del sovraffollamento.

La Corte europea dei diritti dell’uomo e la Costituzione sono chiare a tal proposito: “i nostri diritti sono anche i diritti dei detenuti”.

2. Salvatore Sasà Piscitelli

L’8 e il 9 marzo 2020, mentre aveva inizio la fase più dura della pandemia, il divieto di colloqui tra famigliari e detenuti per contenere il contagio innescava una sequenza di proteste in circa settanta carceri in tutto il Paese.

Durante le rivolte perdevano la vita 13 persone: il decesso sarebbe dovuto all’ingestione di metadone e psicofarmaci saccheggiati dalle infermerie.

Ma nel carcere di Modena due detenuti denunciavano di aver subito abusi e che le persone decedute nel trasporto verso altri penitenziari, subito dopo la rivolta, non sarebbero state visitate dai medici prima del trasferimento, nonostante il loro cattivo stato di salute.

«A me dispiace molto per quello che è successo. Io non c’entravo niente. Ho avuto paura. Ci hanno messo in una saletta dove non c’erano le telecamere. Ammazzavano la gente con botte, manganelli, calci e pugni. A me e a un’altra persona ci hanno spogliati del tutto. Ci hanno colpito alle costole. Un rappresentante delle forze dell’ordine, quando ci siamo consegnati, ha dato la sua parola che non picchiava nessuno. Poi non l’ha mantenuta».

Salvatore Sasà Piscitelli moriva durante la protesta dell’8 marzo, dopo essere stato trasferito dal carcere di Modena verso Ascoli.

«Sasà è stato trascinato fino alla sua cella e buttato dentro come un sacco di patate. Era debole, forse aveva preso qualcosa». «Come aprivi bocca per chiedere qualcosa prendevi delle botte. Ci mettevano con la faccia al muro. Venivano a picchiare col passamontagna, per non far riconoscere le facce». Uno dei detenuti conferma che «Sasà stava malissimo e sul bus lo hanno picchiato, quando è arrivato non riusciva a camminare. Era nella cella 52, ho visto che nessuno lo ha aiutato».

L’art. 11 del d.lgs. n° 123/2018 e l’art. 1 del d.lgs. n° 124/2018 introducono importanti modifiche alla legge di ordinamento penitenziario, presentando la nuova disciplina in materia di vita e trattamento penitenziario.

Il comma 3, art. 1, ord. penit. sancisce il divieto di ogni violenza fisica o morale sulle persone ristrette, imperativo che ripete il principio consacrato nell’art. 13, comma 4, Cost.

3. Antonino Cupri

Il 3 ottobre 2018 veniva diagnosticata ad Antonino Cupri, detenuto nel carcere di Secondigliano, una fistola perianale e la conseguente necessità di procedere a un intervento chirurgico.

Nonostante la denuncia presentata presso la Procura di Napoli, ad oggi l’intervento non ha avuto luogo.

La denuncia riportava «la deliberata e protratta indifferenza serbata nei confronti delle necessità psico- fisiche del querelante, dunque e in sintesi, palesa l’integrazione del delitto p. e p. dall’art. 572 c. p.: in ogni istituto penitenziario, infatti ed a mente dell’art. 17 d. p. r. 230/ 2000, deve essere garantita l’assistenza sanitaria e devono essere svolte con continuità attività di medicina preventiva che rilevino ed intervengano in merito alle situazioni che possano favorire lo sviluppo di forme patologiche».

La moglie di Cupri commenta: «»a prescindere dal reato, la colpevolezza o meno, la dignità e il diritto alla salute non dovrebbero venire meno, non solo per mio marito, ma per tutti quelli come lui che a livello di salute hanno anche patologie peggiori».

4. Detenuto del carcere di Massara, a Oristano

Molte carceri sono illegali, nel senso che non rispettano la cosiddetta legalità costituzionale. Questo perché, il più delle volte, violano l’articolo 32 della Costituzione che tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività, e l’articolo 27 per il quale in nessun caso la legge può determinare come pene “trattamenti contrari al senso di umanità”

Un detenuto del carcere sardo di Massara, a Oristano, in una lettera scrive «chiusi 20 ore al giorno, non esiste vigilanza dinamica, videoskype, che per noi che siamo “deportati” sull’isola diventa vitale fare la videoconferenza con i familiari, considerate le spese eccessive che le famiglie si devono sobbarcare per fare i colloqui visivi ogni mese. Facendoci mancare il supporto familiare ci dobbiamo accontentare di telefonate ordinarie più due straordinarie se ti comporti bene».

«Le celle detentive sono dimensionate per due persone ma oggi risultano occupate tutte da tre persone».

Con la sentenza pilota Torreggiani, La Corte Europea dei Diritti Umani nel 2013 condannava l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani. Il caso riguardava trattamenti inumani e denigranti subiti dai ricorrenti, sette persone detenute nelle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza, in celle triple e con meno di quattro metri quadrati a testa a disposizione.

«L’unico lavoro che ci è consentito è di due mesi all’anno se si è fortunati. Lo spesino, il portavitto, lo scopino, lavoro che si svolge in sezione di una ora al giorno, con una paga di 40/50 euro mensili».

«La sera verso le 22.15 ci viene chiusa l’acqua fino al mattino e viene aperta elle 6.30 violando le più elementari leggi sanitarie, ci organizziamo la sera riempiendo secchi e bottiglie».

«Ci hanno sequestrato computer, macchinette, taglia capelli, pennarelli, pastelli, evidenziatori, materiale che utilizziamo per la scuola e la pulizia personale togliendoci il piacere di fare qualche disegno per i nostri figli», denuncia il recluso, aggiungendo che «è tutto materiale comprato regolarmente e a caro prezzo presso l’istituto, con l’aggravante della ulteriore spesa per il computer di 150 euro per renderlo “consentito”».

«Le nostre dimostranze non sono richieste di non pagare il nostro debito con lo Stato, ma sono volte a migliorare la nostra detenzione e renderla più umana».

5. Valerio Mazzarella

«Durante le videochiamate ho visto il mio compagno recluso nel carcere di Viterbo con le cicatrici che prima non aveva e una volta ancora l’ho visto con le vesciche alle mani che a detta sua sono ustioni provocate dagli agenti tramite piccoli pezzi di plastica incandescente».

Queste le parole di Alessia, compagna del detenuto Valerio Mazzarella, 41enne, recluso nel carcere di Viterbo Mammagialla.

Il carcere di Viterbo è conosciuto per essere un carcere “punitivo”, finito al centro della cronaca per casi di strani suicidi e presunti pestaggi da parte dell’autorità giudiziaria a danno dei detenuti.

Alessia, non senza difficoltà, ha presentato denuncia presso la caserma di Ardea, poiché nel paese di Latina, dove risiede, ha ricevuto un rifiuto da parte dei carabinieri.

«I primi episodi mi vengono comunicati a partire dal 25 marzo: quel giorno, poco prima del cambio di guardia, quattro agenti prelevavano Mazzarella Valerio dalla propria cella per portarlo in una stanza dove iniziavano a picchiarlo».

«In quella occasione, due agenti lo tenevano e due lo picchiavano lasciando segni evidenti sulla testa, in particolare, un taglio profondo ad oggi tramutatosi in evidente cicatrice».

«Il 12 agosto 2020 lo hanno messo in isolamento in una cella vicina all’infermeria, una stanza piccola e sporca, maleodorante con escrementi sulle mura. Lì gli avrebbero consentito di fare solo mezz’ora d’aria al giorno. Lui chiede di poter parlare con gli psicologi e di essere sottoposto a visita medica, ma gli viene negato. Mi fa sapere di sentirsi sepolto vivo e che ogni giorno gli fanno rapporti disciplinari per fatti non accaduti per provocare la sua reazione».

Quando Mazzarella ha cercato di denunciare questi comportamenti, i maltrattamenti sono aumentati.

Gli vennero ustionate le mani con piccoli pezzi di plastica incandescente.

Qualche giorno dopo venne colpito alla testa da quattro agenti.

«Chiedo di poter essere ascoltata e che quanto prima si possa intervenire per mettere fine agli abusi che sta subendo la persona che amo, che è soprattutto un uomo che se pure può aver commesso degli errori non può certo pagarli con la vita, prevedendo la legge come pena solo la privazione della libertà che non può, secondo Costituzione, essere contraria al senso di umanità».

6. Gaetano Santangelo

Alcamo Marina – 1976 – uccisi due carabinieri crivellati da colpi di arma da fuoco all’interno della casermetta della provincia di Trapani.

Gaetano Santangelo, vittima di un errore giudiziario, viene assolto con formula piena in sede di revisione del processo dopo trent’anni dall’arresto.

Il 12 febbraio 1976 Santangelo, all’epoca sedicenne, veniva portato in caserma nel cuore della notte dai carabinieri di Alcamo senza alcuna spiegazione, nessuna formale accusa.

Il ragazzo venne chiuso in una stanza, immobilizzato e picchiato violentemente.

Gli veniva puntata una pistola alla testa e dopo ore di interrogatorio affermava «si, ho partecipato alla strage della casermetta».

«Gaetano Santangelo riporta delle ferite sul corpo perché è scivolato su una buccia di banana».

Seguono 58 giorni di isolamento e 27 mesi di reclusione fino alla data del primo processo.

Per stabilire la sua colpevolezza bastarono le parole di Giuseppe Vesco, suo vicino di casa: arrestato per furto d’auto, l’altro giovane alcamese venne trovato in possesso della stessa arma utilizzata nell’agguato alla casermetta.

Fu lui a confessare per primo facendo i nomi degli altri quattro indagati: passarono anni prima di scoprire che anche quella dichiarazione era stata estorta sotto tortura.

«Fui spogliato fino a raggiungere il costume adamitico. Non opposi alcuna resistenza, non sarebbe servito a niente.  Appena denudato vengo sollevato di peso e portato come un oggetto sui bauli alti da terra tra gli 80 e i 90 cm. Per la prima volta nella mia vita mi sento come un animale da squartare. Un agente avvolge uno straccio alle mie caviglie. Qualcuno tiene i miei piedi uniti…poi è la volta delle braccia. Il mio corpo si piega come un arco e un dolore acutissimo ma sopportabile si avverte alle gambe all’altezza dei polpacci, alle braccia, alle scapole e agli anelli della colonna vertebrale all’altezza dei fianchi. Uno mi tira i piedi, l’altro le braccia, un terzo è a cavalcioni, un quarto mi tiene la testa per í capelli con una mano mentre con l’altra tappa il naso in modo da non farmi prendere aria».

1981, sentenza di assoluzione in primo grado per insufficienza di prove. Non hanno mai trovato nulla che lo collegasse al delitto. 1982, sentenza di condanna in appello a 22 anni di carcere. Il processo si era spostato intanto da Trapani a Palermo: le pressioni sulla Corte sono enormi, ma nel 1984 la Cassazione annulla la condanna e rinvia il giudizio presso la corte d’appello dei minori: il processo si scinde in due tronconi, Ferrantelli e Santangelo vengono giudicati separatamente dagli altri due imputati. A volersi districare nella vicenda giudiziaria durata oltre trent’anni si prova un senso di vertigine. Di tribunale in tribunale, dalla Sicilia a Roma, il destino di quattro uomini resta in attesa di giudizio. Intanto la vita di Santangelo corre parallelamente: l’incontro con sua moglie, il primo figlio, fino al giorno maledetto del 1992.

La Corte di Cassazione conferma la sentenza di condanna emessa un anno prima, che a sua volta riprendeva quella dell’82. Santangelo ormai ha 30 anni, la notizia arriva come una doccia fredda: «Non potevo aspettare che mi venissero a prendere, costringendo la mia famiglia a fare avanti e dietro dal carcere», racconta spiegando la scelta dell’esilio in Brasile. Comincia la sua vita da latitante. Trovato dall’Interpol, il paese Sudamericano nega l’estradizione in Italia perché in base alla normativa brasiliana il reato è caduto in prescrizione. Passano altri 27 anni: la sentenza di assoluzione definitiva arriva nel 2012 con il processo di revisione, ma Santangelo torna in Italia solo lo scorso anno. Nessuno gli ha mai domandato scusa, ha dovuto affrontare una battaglia legale anche per ottenere il risarcimento dello Stato: ingiusta detenzione, danni psicologici, danni patrimoniali. Non un solo centesimo che possa riparare al dolore: «Quando pronuncia il mio nome, lo Stato italiano deve vergognarsi. Mi hanno perseguitato per 36 anni, e una volta riconosciuto l’errore, non si sono neanche interessati a come stessi, come vivessi in un paese straniero».

7. Davide Emmanuello

«Caro fratello noi prigionieri in fondo possiamo definirci “diversamente in vita” o “diversamente liberi”, e snaturati dal vivere e privati della libertà siamo stati dai giusti giustiziati nell’essenza di esistere. In noi ormai l’esserci non ha più dimora nella parola; esistiamo perché presenti in quanto corpi, e proprio perché ridotti a sola materia, non comunichiamo più attraverso la parola quell’esserci nel mondo in quanto presenza pensante».

Questa lettera venne scritta da Davide Emmanuello, nato nel 1964 a Gela; in carcere dal 1993, ha a suo carico tre condanne all’ergastolo per omicidio.

Finora ha trascorso 24 anni in carcere in 41 bis: tema impopolare ma, ultimamente, grazie alle recenti sentenze della Corte Europea dei diritti umani e della Cassazione, si sta aprendo uno squarcio di luce.

La vicenda bizzarra che lo coinvolge riguarda la richiesta del detenuto circa la possibilità di leggere il romanzo di Umberto Eco, Il nome della rosa.

Il carcere di Ascoli Piceno, in cui si trovava, ha negato la richiesta motivata dalla pericolosità “materiale” del libro (nei regimi differenziati non sono permessi libri con copertina rigida) nonché per la pericolosità dei contenuti.

23 ore di isolamento al giorno, la sola ora d’aria (e le tre persone al massimo con cui è possibile parlare in quell’ora), le finestre delle celle schermate, la sola ora al mese di colloquio con familiari (e con vetro divisorio) alternativa a dieci minuti di telefonata, il divieto di cucinare cibi, la censura di posta e libri.

«Continua il mio viaggio nelle viscere degli inferi. Sono rassegnato e consapevole che questo luogo voluto per l’annientamento non sopprimerà il mio corpo, ma agirà sulla psiche e attraverso la coscienza farà dell’anima l’inferno del corpo. L’istituto è moderno, non in senso illuminato, ma di nuova riproposizione oscurantista del supplizio come pena. In pratica un “ecomostro” per soggetti trattati al di fuori dei canoni dell’esperienza etica della libertà e dei diritti umani».

8. Maurizio Riunno

Il 31 ottobre del 2014, verso le 16 del pomeriggio, il 28enne Maurizio Riunno veniva ritrovato impiccato con un lenzuolo alla finestra della sua cella presso il carcere del Bassone.

Riunno era stato arrestato dieci giorni prima con l’accusa di aver partecipato al pestaggio punitivo di Carlo Longo, 35 anni.

Si trovava in carcere in custodia cautelare, in isolamento a causa di problemi di convivenza con altri detenuti.

L’autopsia confermava la morte per asfissia.

«Maurizio non si sarebbe mai ucciso. Il nostro futuro era fatto di progetti e di una vita insieme», affermava la fidanzata.

La donna aveva anche raccontato di aver guardato il corpo di Riunno prima dell’autopsia e di aver fotografato «un occhio nero, una spalla violacea, graffi sulle mani, graffi sul collo». Ha anche scoperto che la procura aveva sequestrato quattro lettere che aveva inviato a Riunno e una scritta da lui.

Il giudice delle indagini preliminari, nel marzo 2015, rigettando la richiesta di archiviazione del PM, accolse il ricorso presentato dal legale di Riunno e dei suoi famigliari.

“Istigazione al suicidio”: questo il reato sul quale il magistrato ordinò di investigare, salvo successivamente chiederne l’archiviazione per mancanza di elementi a carico di possibili sospettati.

9. Lettera di un giovane detenuto

«Alcuni giorni fa, è passata la sorprendente notizia – anche per me che sono “ospite” dello Stato e conosco dal di dentro certe ‘dinamiche’ mentali – della nomina a garante locale dei diritti dei detenuti di una persona anch’essa passata per le patrie galere, un ex detenuto, il Sig. Pietro Ioia, conferitagli nientemeno che dal sindaco napoletano De Magistris, ex magistrato. La cosa mi ha ridato subito di che sperare per il mio futuro, suscitandomi – lo ammetto non poca commozione, poiché 29enne e detenuto da 10 anni e con in vista un rilascio per quando ne avrò circa 45 – con buona pace dei proclamanti “pene certe’ perché in Italia ‘nessuno ci va in galera’ oppure s’immagina “porte girevoli’ Ho pensato: «Ma allora mi sono sbagliato, la società in cui vivo è matura per scelte del genere, posso ancora rientrarvi e svolgere, ad esempio, la professione d’avvocato oppure di docente universitario, il mio sogno nel cassetto». A distanza di pochi giorni invece si legge che a seguito di tale nomina «immediatamente sono insorti i sindacati della Polizia Penitenziaria», il che potrà far pensare a qualcuno in buona fede che si tratti solo di una “categoria” in un certo senso “di parte”, giustamente, ma così non è, infatti sulla loro scia molti altri hanno ritenuto inopportuna tale scelta.

E allora non era peregrino il mio stupore, mi son detto, non era e non è sbagliato pensare che sarò un “appestato” per sempre, degno solo del biasimo e della censura, da tenere alla larga, lontano dal consorzio umano perché è già tanto che mi si è lasciato sopravvivere e non, invece, “marcire in galera buttando via la chiave”. Fatto sta che io in galera sto marcendoci già, e da quando non avevo manco la barba.

Certo, me la sono cercata e merito la pena che pertanto sconto, com’è giusto che sia, e lo faccio con piene consapevolezza e responsabilità, eppure, contro ogni logica visione di recupero sociale del condannato, contro ogni ragionevole e doveroso interesse a ciò nell’interesse di tutti, nessuno – e dico nessuno – si è mai peritato di chiedermi; “ma lei cosa vuol fare da grande? Ha un sogno, un progetto per il suo domani?”… eh sì, ‘da grande’ e “sogno” sono le espressioni che ho usato, perché sono entrato in carcere appena compiuti i 19 anni d’età, quindi poco più che un ragazzino, ed ora sono (quasi) un uomo, dunque ho dei sogni, come chiunque altro. Ma forse è proprio qui il punto, ovvero che secondo alcuni non c’è poi da tanto da interrogarsi e preoccuparsi del futuro di uno se questi ha ucciso (come nel mio caso), oppure rapinato, estorto o anche “solo” rubato per necessità, in barba a tutti i principi della Carta e delle recentissime sentenze della Consulta sul diritto alla speranza o anche al semplice buon senso. Una volta finiti in carcere, nel nostro paese, o anche solo raggiunti da un avviso di garanzia, si è finiti socialmente, ci si figuri per chi, come me, s’è macchiato di crimini tanto gravi, e la sciagura e lo stigma si estendono a cerchi concentrici su familiari e non. Chi conosce sul serio le condizioni delle nostre carceri sa della drammatica carenza di personale qualificato per il “trattamento rieducativo” (educatori, psicologi etc.), sa anche che non sto dicendo nulla d’incredibile, perché sono veramente in tantissimi a rimanere pressoché fermi al giorno del loro arresto, specie se giovanissimi, senza aver fatto nessun progresso della personalità che non sia di tipo anagrafico- somatico, a tacer poi del trattamento spesso volutamente mirato all’infantilizzazione della persona detenuta quando non anche all’offesa pura e semplice nella sua dignità di uomo e di persona».

10. Ismail Ltaief

Undici persone, tra ispettori e agenti di polizia penitenziaria del carcere milanese di San Vittore, sono stati rinviati a giudizio dal GUP di Milano Alessandra Cecchelli per presunte intimidazioni e pestaggi, tra il 2016 e il 2017, ai danni di un tunisino di 50 anni, Ismail Ltaief, detenuto per tentato omicidio.

Le accuse verso gli agenti sono, a vario titolo, intralcio alla giustizia, lesioni, falso e sequestro di persona. Reato quest’ultimo contestato solo ad alcuni imputati, in quanto in uno dei due pestaggi, datati 27 marzo e 12 aprile 2017, come si legge nel capo di imputazione, il 50enne, privato ‘della libertà’ sarebbe stato ammanettato e trasferito in una stanza in uso a uno degli agenti sotto inchiesta per poi essere picchiato.

Oltre a Ltaief, parte offesa nel procedimento è anche un suo compagno di cella, un sudamericano di 30 anni, il quale chiamato a rendere testimonianza ai magistrati milanesi sarebbe stato intimidito da uno degli imputati che per questo venne anche arrestato. Le aggressioni contro il recluso sarebbero state inflitte con l’obiettivo di ‘punire’ l’uomo che nel 2011, quando era in cella a Velletri (Roma), aveva denunciato altri agenti per furti in mensa e percosse. Ismail Ltaief all’epoca dei fatti lavorava nelle cucine del carcere laziale.

Quando si accorse che alcuni agenti di polizia penitenziaria sottraevano regolarmente cibo destinato ai detenuti per portarlo fuori dal carcere, li ha denunciati. Da quel momento per lui iniziò un incubo, fino al brutale pestaggio. I pestaggi che avrebbe subito a San Vittore sarebbero avvenuti anche lo scopo di impedirgli di testimoniare in aula al processo. Ismail, seguito a Roma dall’avvocato Alessandro Gerardi, invece testimoniò e due agenti di polizia penitenziaria sono stati condannati in primo grado a tre anni di reclusione in primo grado.

Il caso era stato sollevato dal Partito Radicale in una conferenza stampa tenuta alla Camera da Marco Pannella e Rita Bernardini. Adesso, come spiega il legale che segue Ismail a Milano, l’avvocato Matilde Sansalone «si apre un processo complicato ma abbiamo già superato delle fasi difficili: primo passo è stato quello di superare la soglia del farsi credere e di far fare le indagini, il secondo di andare a giudizio. Non è facile essere creduti perché c’è sempre il sospetto che si adottino certi comportamenti per avere dei benefici. Il pubblico ministero ha mandato un medico esterno al carcere il quale ha refertato che Ismail presentava delle lesioni compatibili con il suo racconto soprattutto quando Ismail gli aveva detto di essere stato picchiato con un tirapugni».

Quello che l’avvocato tiene a precisare è che «non bisogna criminalizzare tutta la categoria degli agenti di polizia penitenziaria. Tra l’altro Ismail è il primo che dice “non sono tutti così”».

Per l’avvocato Alessandro Gerardi, che segue il procedimento a Velletri, la vicenda di Ismail Ltaief, con la sua appendice milanese, «presenta caratteristiche peggiori rispetto a quella di Stefano Cucchi, l’unica differenza è che Ismail per fortuna è ancora vivo e può raccontarla. La domanda che dovremmo porci di fronte a episodi del genere è semplice: come si possono rieducare i ‘ delinquenti’ se si usano metodi molto simili a quelli usati da chi in carcere sta dall’altra parte delle sbarre?»

Qui alcuni stralci delle lettere che Ismail scrisse al GIP Laura Marchiondelli del Tribunale di Milano.

«Finalmente un senso di giustizia che sembrava non arrivarmi. Sono così felice soprattutto perché ho la netta sensazione che almeno quei due non picchieranno più detenuti».

«Alle 21:10 un ispettore e guardie carcerarie entrano in cella, mi saltano addosso, picchiano con arti marziali dicendo che se vado a testimoniare a Velletri ucciderebbero mia moglie visto che, secondo loro, non mi importa della mia vita. Mentre mi pestavano hanno nominato il nome e cognome di mia moglie e la via dove abitiamo. Ho male in tutto il corpo e ho paura di avere delle rotture. La prego giudice aiuto!».

«Questa notte mi hanno fatto uscire nuovamente di cella. Hanno picchiato di nuovo, uno di loro ha tirato di tasca un aggeggio che si infila nella mano, anelli di ferro. Ho vomitato sangue, se riesco ad arrivare dal medico le dirò sono ’caduto’ nelle scale altrimenti saranno ancora più gravi le botte seguenti».

11. Gerardo De Piano

«Bisogna avere molta prudenza prima di mandare in carcere una persona. Nell’arco di poche ore è stata devastata la vita di un uomo perbene, di un innocente, com’è stato riconosciuto dal tribunale del Riesame, attraverso delle invenzioni investigative».

La denuncia dell’avvocato Gaetano Aufiero è grave: le intercettazioni utilizzate per accusare un maestro di religione di un asilo di Solofra, in provincia di Avellino, non dimostrerebbero in alcun modo le violenze sessuali che lo hanno fatto finire prima ai domiciliari e poi in carcere, dove sarebbe stato picchiato da altri detenuti.

L’arresto è stato eseguito alle 6 del mattino, «come se fosse un pericoloso delinquente». Alle 7.01 la stampa riceve il comunicato dei carabinieri, dai quali i familiari scoprono dell’arresto, spiega Aufiero. Un quadro completato alle 13 con la conferenza stampa. «Io spero che prima o poi un magistrato ponga fine allo scempio di sbattere il mostro in prima pagina prima che gli stessi magistrati vengano a sapere dell’esecuzione delle misure cautelari», tuona l’avvocato. De Piano si è professato innocente, pur avvalendosi della facoltà di non rispondere davanti al giudice, «non avendo avuto il tempo di leggere gli atti, essendo stato interrogato 24 ore dopo».

Un’ipotesi, quella del legale, con la quale hanno concordato anche i giudici del Riesame, che hanno disposto la scarcerazione dell’uomo per mancanza di gravità indiziaria.

Tutto accade all’alba del 5 giugno 2019, quando i carabinieri di Solofra arrestarono tre insegnanti di un asilo di Solofra dopo tre mesi di indagini. Finirono ai domiciliari con l’accusa di maltrattamenti; ma per uno di loro, Gerardo De Piano, venne mossa anche un’accusa più grave: la molestia sessuale ai danni di un bimbo di 5 anni.

Un’indagine partita da tre denunce sporte a gennaio da alcune madri e dalle quali è partita un’attività d’intercettazione audio-video dalla quale sarebbero emersi, nelle ipotesi degli investigatori, non solo i maltrattamenti, ma anche l’abuso. Così, spiega Aufiero, «De Piano, da umile maestro di religione di Solofra diventa un mostro da sbattere in prima pagina, con articoli di giornali che parlano di asilo lager e di pedofilo. Questo è diventato De Piano nell’arco di poche ore. Prudenza, rispetto della dignità delle persone, rispetto della verità e della realtà: tutto ciò è mancato nella maniera più assoluta».

Ma il linciaggio mediatico, che ha interessato anche il legale, preso di mira sul web in quanto difensore dei mostri, al punto da arrivare a dire che «bisognerebbe usare l’acido per l’avvocato e i suoi clienti», è secondario. Perché l’accusa di violenza sessuale, secondo Aufiero, non si basa su nulla. Anzi, si fonda su audio e video registrati separatamente, ma montati in un modo «che sconvolge totalmente il discorso».

Si ricordi il caso Enzo Tortora. Dopo sette mesi di ingiusto carcere e arresti domiciliari Tortora viene definitivamente assolto dalle accuse di associazione di stampo camorristico e traffico di stupefacenti. È il 15 settembre di oltre trent’anni fa. Un calvario che lo segna in modo indelebile. Il 18 maggio del 1988 muore, stroncato da un tumore. Tortora viene arrestato nel cuore della notte e trattenuto nel comando dei carabinieri di via Inselci a Roma, fino a tarda mattinata. Lo fanno uscire solo quando si era ben sicuri che televisioni e giornalisti fossero accorsi per poterlo mostrare in manette.

De Piano finisce ai domiciliari, ma poco dopo essere riportato a casa dalla Caserma decise di convocare il parroco del Paese e la madre del bambino che sarebbe stato molestato, alla quale si limita a dire di essere stato arrestato da innocente. La donna, però, non sa ancora nulla e così decide di segnalare l’episodio ai carabinieri.

Così, in poche ore, la misura si aggrava e il maestro venne trasferito nel carcere di Bellizzi, dove manca la sezione dei sex offenders e dove venne subito aggredito, con colpi sul naso e sul volto.

A sostenere che sulle accuse ci siano fondati dubbi è anche il Tribunale del Riesame, annullò l’ordinanza cautelare per gli atti sessuali, sostituendo il carcere con una misura interdittiva per nove mesi per l’accusa di maltrattamenti. Nonostante il giorno dell’udienza sia stato depositato un nuovo filmato, nel quale si vede il maestro abbracciare il bambino. Un video che non è nelle disponibilità dei legali, ma che subito dopo la scarcerazione è finito in rete. «Ho denunciato la pubblicazione del video – spiega – dal momento che nemmeno noi difensori ne siamo in possesso. La mattina dell’udienza abbiamo solo visto qualche frame. Trovo questa cosa molto grave – aggiunge – anche perché pubblicarlo dopo la scarcerazione sembra un modo per perseverare nelle accuse ai suoi riguardi».

Lo scorso 19 marzo il prof. avv. Luigi Viola, direttore scientifico della Scuola di Diritto Avanzato, ha organizzato, in collaborazione con la rivista giuridica Studio Cataldi, il webinar “Presunzione di innocenza e diffusione della notizia di reato” durante il quale veniva denunciata la gogna mediatica a cui sono sottoposti molti indagati/imputati ancora prima della conclusione dei relativi procedimenti penali.

«Ci siamo chiesti fino a che punto la diffusione della notizia di reato, ancorché astrattamente legittima, non metta in crisi la presunzione di innocenza. La diffusione delle notizie comporta che, contrariamente ai principi costituzionali di presunzione di innocenza e giusto processo, l’immagine dell’indagato venga lesa perché viene considerato probabilmente colpevole da una opinione pubblica indotta a credere che la notizia di reato corrisponda alla realtà dei fatti».

È indubbio che il processo mediatico influisce sull’opinione pubblica oltre sulla verginità cognitiva del giudice. Gli imputati vengono presentati dalla stampa già colpevoli e condannati: i diritti alla riservatezza e alla privacy di cui agli artt. 27 – 111, comma 3, Cost. rischiano di essere violati quotidianamente a causa del mancato bilanciamento tra diritto alla difesa e diritto di cronaca.

Accade che l’indagato debba difendersi da un’accusa a proprio carico attraverso le notizie apprese dalla stampa e non dagli atti di indagini. In questo modo viene leso il diritto alla personalità, all’onore, al decoro, creando una sofferenza interiore al soggetto ma anche ai suoi famigliari.

Per cercare di ovviare in parte a questo problema la Legge n° 178/2020, all’art. 1, commi da 1115 a 1122 prevede un fondo risarcimento per l’imputato danneggiato dalla diffusione di notizie a suo carico il quale sia stato assolto al termine del processo (SS.UU. n° 26889/2016).

12. Angelo Massaro

«Sono stato sequestrato dallo Stato italiano per un reato mai commesso».

Angelo Massaro oggi, a 53 anni, ha il resto della sua vita davanti. Ma la sua giovinezza l’ha passata a scontare una condanna per aver ammazzato il suo amico, Lorenzo Fersurella, ucciso il 22 ottobre 1995 in Puglia.

Ventuno anni in carcere sui 24 inflitti dalla giustizia, dopo i quali è stato riconosciuto innocente. Il giorno dopo il processo di revisione celebrato a Catanzaro, Massaro racconta i suoi anni in cella, arrestato per una telefonata male interpretata dagli inquirenti. «Sette giorni dopo la scomparsa del mio amico ho telefonato a mia moglie, dicendole di preparare il bambino per portarlo all’asilo. Ho detto questa frase: «Faccio tardi, sto portando u muers». Portavo dietro alla mia auto una piccola pala meccanica per fare dei lavori edili per mio padre. Questa frase l’ho detta davanti ad un’altra persona ma nessuno l’ha mai ascoltata». L’arresto scatta sette mesi dopo quella telefonata. «Era il 16 maggio 1996. Mi stavano arrestando per aver ammazzato una persona che consideravo un fratello, l’uomo che aveva battezzato il mio figlio più grande, che avrebbe dovuto battezzare anche il piccolo. Sono stato privato dell’affetto dei miei figli, della possibilità di vederli sorridere, piangere, di una carezza. Ero incredulo ma avevo fiducia. Pensavo: ora ascolteranno la telefonata e capiranno». Invece prima che qualcuno capisca l’equivoco ci vuole molto tempo.

«Come potevano pensare che qualcuno trasportasse un cadavere sette giorni dopo un omicidio alle 8.30 del mattino? Perché non mi hanno sentito subito? Avrei potuto dimostrare tutta la verità subito».

Massaro rimane fiducioso anche nel corso del processo. Al punto che la difesa rinuncia ad ascoltare testimoni, sapendo che nessuna prova può dimostrare la sua colpevolezza. «I testimoni dell’accusa non hanno dato elementi utili», spiega infatti. All’improvviso, però, l’accusa tira fuori un pentito. «Ci siamo opposti ma non è servito. Il collaboratore ha soltanto detto che secondo lui avrei potuto ucciderlo io il mio amico, tutto qua. Può bastare questo? Non credo».

Per tre gradi di giudizio, invece, è bastato. In appello i legali chiedono una nuova perizia sulla telefonata e l’audizione di altri testimoni, «ma ci è stato negato». E non serve nemmeno la testimonianza dei carabinieri di Roma, che hanno spiegato come il tono di voce, nella telefonata, fosse tranquillo e come quella parola incriminata – “muers” – possa avere diverse interpretazioni. Nemmeno le sentenze hanno chiarito cosa sia accaduto quel lontano giorno di ottobre, quando Fersurella venne ucciso. «Lo stesso procuratore generale di Catanzaro ha criticato la sentenza, definendola piena zeppa di errori», racconta.

«Ho vissuto 21 anni di incredulità e rabbia. Non ho mai accettato questa condanna, tremendamente ingiusta. Ho sempre lottato, studiato sui codici e due anni fa mi sono iscritto a giurisprudenza a Catanzaro. Mi ha portato avanti la rabbia, la sete di giustizia e verità».

Quelli in carcere sono stati anni di abusi di potere e violazione dei diritti umani.

«Il ministero della Giustizia mi ha sempre considerato pericoloso e fatto girare per molte carceri. Mi hanno ritenuto insofferente nei confronti delle regole penitenziarie». E per sette anni, dal 2008 al 2015, non ha potuto vedere i suoi figli.

«Il tribunale aveva certificato il loro stato di depressione causato dalla lontananza del padre da casa. Nonostante il magistrato di sorveglianza di Catanzaro abbia richiesto il trasferimento a Taranto, vicino ai miei figli, il Dap si è completamente disinteressato».

Le condizioni di vita dietro le sbarre sono state a volte intollerabili. In cella, ad esempio, mancava l’acqua «e mi lavavo con quella delle bottiglie, che ero io a comprare. E cosa è successo? Mi hanno punito con l’isolamento per lo spreco d’acqua. Questa è solo una parte delle cose subite. Ho visto gente perbene ma anche tanta violenza».

Angelo Massaro oggi è nella sua casa.

«Non do la colpa a nessuno, chiedo solo che vengano fatti degli accertamenti, perché privare della libertà una persona a 29 anni è crudele e in uno stato di diritto è immorale».

«Chi sbaglia è giusto che paghi ma un giudice prima di condannare una persona e privarla della vita e dei sui affetti deve chiedersi se lo fa oltre ogni ragionevole dubbio.  Non provo rancore, voglio solo capire se questo errore poteva essere evitato».

Tornare a casa è stato strano, dice.

Invita a riflettere sullo stato della giustizia in Italia, alla luce anche dei numerosi processi di revisione partiti negli ultimi anni, sintomo di un sistema da rivedere.

«Perché ho fatto questi 21 anni di carcere? Non potevo sopportare che mi si accusasse della morte di un mio amico, non volevo che la mia famiglia venisse additata. Ho lottato, non mi sono mai arreso. Ma spesso mi chiedo: se fosse capitato a qualcuno meno forte di me e si fosse ammazzato, chi avrebbe reso giustizia per lui?».

Dal 2000 ad oggi il censimento puntuale di Ristretti Orizzonti rivela che i decessi nelle nostre carceri sono stati 3.211, di cui ben 1174 suicidi. La media dei suicidi in carcere è superiore di 15/20 volte rispetto ai quella dei cittadini liberi.


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Federica Bolla

Abilitata alla professione di avvocato. Laureata in Giurisprudenza con una tesi in diritto penale progredito “Le nuove fattispecie di corruzione, induzione e concussione alla luce della L. 190/2012. L corruzione tra privati alla luce del D. Lgs. n°38/2017”. Attualmente ha concluso la pratica forense; iscritta all'Albo dei praticanti abilitati al patrocinio sostitutivo del Foro di Novara. Nel periodo universitario ha svolto l'attività di tutor in materie giuridiche, anche per studenti con disabilità e disturbi dell'apprendimento, oltre che attività di assistenza e indirizzamento all'iscrizione del percorso universitario. Ha scritto l'articolo "Ahmed Fdil bruciato vivo: la "giustizia" nel processo penale minorile" per il contest giuridico "Scripta Manent" organizzato dalla pagina giuridica Office Advice; la giuria ha conferito la menzione d'onore all'articolo.

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