Limiti oggettivi e soggettivi del giudicato, in particolare: il giudicato per implicazione discendente

Limiti oggettivi e soggettivi del giudicato, in particolare: il giudicato per implicazione discendente

Sommario: 1. Il giudicato in pillole – 2. Il giudicato per implicazione discendente: il punto di vista della giurisprudenza – 3. Le questioni sulle quali può ricadere il giudicato – 4. Sull’ultrattività del giudicato – 5. Possibili scenari… si contendono!

 

1. Il giudicato in pillole

Il tema del Giudicato e del suo perimetro è da sempre al centro di ampi e vivaci dibattiti oggetto delle attenzioni degli operatori del diritto.

La ragione per cui tale istituto cattura una tale curiosità (nella sua accezione latina di “curiositas”) è semplice: ritenere una determinata questione (recte, parte di sentenza) coperta dal giudicato fa sì che la stessa diventi incontrovertibile e non più esaminabile in qualsiasi giudizio nel quale si confrontino le medesime parti, evitando che ricorra il cd. “bis in idem” ed il conseguente pericolo di pronunce contrastanti sulla stessa questione.

In tal senso, il giudicato costituisce un vincolo per il Giudicante, il quale non potrà contraddire le questioni che vi sono ricomprese, sia per le parti, che non potranno più riproporre in futuro la medesima questione già oggetto di scrutinio giudiziale.

Tale assunto si desume dall’analisi dell’art. 2909 c.c., disposizione che fornisce una definizione di cosa giudicata (o giudicato sostanziale o ancora autorità di cosa giudicata), ovverosia l’attitudine di una sentenza non più assoggettabile a mezzi di impugnazione – e segnatamente dell’accertamento ivi contenuto – a far stato ad ogni effetto nei confronti delle parti, dei loro eredi o aventi causa.

Il giudicato sostanziale copre il “dedotto” ed il “deducibile”, un principio di logica e razionalità giuridica che permea anche altri settori dell’ordinamento (si pensi al principio del “one shot temperato” conosciuto dagli studiosi del Diritto Amministrativo), in virtù del quale l’efficacia del giudicato si estende, oltre a quanto dedotto dalle parti (giudicato esplicito), anche a quanto esse avrebbero potuto dedurre (giudicato implicito); è precluso quindi alle parti proporre, in altro giudizio, qualsivoglia domanda avente ad oggetto situazioni giuridiche soggettive incompatibili con il diritto accertato.

Ma v’è di più.

Le parti, già “responsabilizzate” e “costrette” dal suddetto principio a dedurre nel così instaurato giudizio quanto li è più possibile, al fine di evitare di incorrere in una preclusione per via di introduzione tardiva delle questioni, non solum vedono loro preclusa la possibilità di stimolare una nuova disamina delle questioni oggetto di giudicato, ma vedono il giudicato adombrare anche le questioni “presupposte” alle prime.

In altri termini, il giudicato si espande anche sulle questioni che costituiscono un “punto di passaggio obbligatorio” per il Giudice, che deve necessariamente procedere alla loro disamina per decidere una determinata questione.

I confini e le dimensioni di questo “crocevia” sono stati di volta in volta oggetto di pronunce giurisdizionali “manipolative”, volte ora a dilatare, ora a restringere, l’ampiezza di tale varco.

Quanto sopra accennato è sufficiente per comprendere come il Giudicato rappresenti una tematica nel quale si intersecano molteplici questioni che costituiscono il “cuore pulsante” del Diritto Processuale Civile: si pensi ad esempio ai diritti autodeterminati ed eterodeterminati, alla nozione di parte processuale ai fini dell’estensione soggettiva del Giudicato, nonché all’incidenza ricoperta dalla nozione di parte di sentenza sulla formazione del Giudicato Interno per acquiescenza.

In sintesi, il Giudicato ed i suoi limiti oggettivi e soggettivi è un tema sempre attuale, così come, in particolare, la nozione che qui vuole essere esaminata nei suoi tratti essenziali, del cd. “giudicato per implicazione ascendente”.

2. Il giudicato per implicazione discendente: il punto di vista della giurisprudenza

Un brocardo latino noto anche a chi abbia da poco iniziato a cimentarsi con degli studi giuridici recita “Ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit”.

Tale inciso riassume una regola di interpretazione giuridica di portata generale che, al di là delle eccezioni che qui non possono essere esaminate funditus, deve guidare l’attività ermeneutica dell’interprete, affinché questi sappia che il primo approccio da rivolgere alla disposizione di legge richiede “aderenza” alla lettera della stessa: la cd. interpretazione letterale, in virtù della quale laddove la disposizione non menzioni expressis verbis una determinata fattispecie, sia preferibile attenersi ad un’interpretazione rigorosa piuttosto che “estensiva”.

Con riferimento al Giudicato, invece, vale il contrario, o quasi; l’attività richiesta all’interprete è molto più profonda e subiettiva, poiché costui è chiamato ad andare oltre il dato prettamente empirico e statico, ma dovrà necessariamente avventurarsi nella dinamicità del diritto “vivente” e “pulsante”.

In questo ambito, non vale l’equivalenza secondo la quale soltanto le questioni decise dal Giudice e rinvenibili nella sentenza siano, se non impugnate dalle parti, coperte dal Giudicato.

Non vi è quindi quel legame al dato letterale richiesta dal principio secolare sopra citato.

In tema di Giudicato, occorre ripercorrere a ritroso il percorso logico-argomentativo effettuato dal Giudice, al fine di verificare se costui, per decidere quella determinata questione, abbia dovuto prima risolvere (recte decidere) delle questioni che siano pregiudiziali rispetto alla prima.

In altre parole, l’interprete è chiamato ad imitare quanto fatto dall’eroe leggendario Perseo nel famoso mito del Minotauro: come costui, per uscire dal labirinto, fu costretto a seguire il filo di Arianna, allo stesso modo, colui che intenda verificare la formazione del giudicato sulla questione, deve seguire il “filo logico” desumibile dalla motivazione della sentenza.

Solo in questo modo, si potrà uscire dal metaforico labirinto e comprenderne la struttura.

I principi sopra oggetto di parafrasi trovavano riscontro empirico nella giurisprudenza di legittimità.

La prima pronuncia “capostipite” concernente tale tipologia di Giudicato risale a più di cinquanta anni fa (Cass. Civ., III^ Sez., n. 2508 del 07/07/1969), con la quale – come successivamente ribadito innumerevoli volte – si stabilisce che “il giudicato formatosi a seguito della mancata opposizione avverso un decreto ingiuntivo, recante intimazione di pagamento di canoni arretrati in relazione ad un rapporto di locazione, fa stato fra le stesse parti circa l’esistenza e validità del rapporto corrente inter partes e sulla misura del canone preteso, nonché circa l’inesistenza di tutti i fatti impeditivi o estintivi, anche non dedotti, ma deducibili nel giudizio di opposizione” (cfr. Cass. Civ., III^ Sez., n. 16319 del 24/07/2007).

In altri termini, la pronuncia di condanna al pagamento d’una prestazione contrattuale (come il pagamento del canone di locazione) presuppone necessariamente l’accertamento dell’esistenza e della validità del credito e della sua fonte.

Pertanto, il decreto ingiuntivo divenuto inoppugnabile ed avente ad oggetto la condanna al pagamento di canoni di locazione, preclude all’intimato la possibilità di invocare, in un diverso giudizio, la nullità della clausola contrattuale di determinazione della misura del cannone.

Tale questione resta infatti coperta dal c.d. “giudicato per implicazione discendente”, un principio che successivamente è stato affermato a più riprese dalla giurisprudenza della Suprema Corte.

Proprio nello stesso senso, Cass. Civ., III^ Sez., n. 12994 del 24/05/2013, fa espresso riferimento all’efficacia di giudicato del decreto non opposto concernente il pagamento di canoni insoluti, circa l’insussistenza del credito azionato in sede monitoria dal locatore, per effetto di controcrediti del conduttore per somme indebitamente corrisposte a titolo di maggiorazioni “contra legem” del canone.

In termini analoghi, anche nella motivazione della Cass. Civ., III^ Sez., n. 5801 del 11/06/1998, si legge che: “il decreto ingiuntivo non opposto acquista autorità di giudicato, in relazione al diritto in esso consacrato, tanto in ordine all’esistenza e validità del rapporto dedotto, ai soggetti del medesimo ed alla prestazione dovuta, quanto alla inesistenza di fatti impeditivi, modificativi o estintivi, sicché la sua efficacia preclusiva non può non estendersi a tutte le relative questioni, impedendo che in un successivo giudizio avente ad oggetto una domanda fondata sullo stesso rapporto si proceda ad un nuovo esame di esse. Pertanto il giudicato di accoglimento formatosi a seguito della mancata opposizione avverso un decreto ingiuntivo recante intimazione di pagamento di canoni arretrati in relazione ad un rapporto di locazione, non si limita a fare stato, tra le stesse parti (ed i loro eredi o aventi causa), circa l’esistenza dei fatti costitutivi del diritto accertato, e cioè sull’esistenza e validità del rapporto corrente inter partes e sulla misura del canone preteso, ma anche circa l’inesistenza di tutti i fatti impeditivi o estintivi, anche non dedotti, ma deducibili, quali quelli atti a prospettare l’insussistenza, totale o parziale, del credito azionato dal locatore a titolo di canoni insoluti, per effetto di controcrediti del conduttore per somme indebitamente corrisposte in ragione di maggiorazioni contra legem del canone”.

Orbene, il giudicato non si forma, nemmeno implicitamente, sugli aspetti del rapporto che non hanno

costituito oggetto di specifica disamina e valutazione da parte del giudice, cioè di un accertamento effettivo, specifico e concreto, come accade allorquando la decisione sia stata adottata alla stregua del principio della “ragione più liquida”, basandosi la soluzione della causa su una o più questioni assorbenti (Cass. Civ., III^ Sez., Ord. n. 1828 del 25/01/2018; Cass. Civ., I^ Sez., n. 5264 del 17/03/2015; Cass. Civ., III^ Sez., n. 21266 del 10/10/2007).

Di conseguenza, affinché la questione possa dirsi coperta dal giudicato, la stessa dovrà essere stata esaminata dal Giudice, dovendosi escludere pertanto tutte quelle questioni rimaste “assorbite” in virtù dell’applicazione del noto principio di economia ed efficienza processuale, della cd. “ragione più liquida”.

3. Le questioni sulle quali può ricadere il giudicato

Non tutte le questioni sono suscettibili di essere ricomprese nel “giudicato”.

In tal senso, secondo un consolidato orientamento della Suprema Corte, il giudicato interno può formarsi solo su un capo non impugnato della decisione, capace di comportare una parziale soccombenza della parte con conseguente necessità – appunto – della relativa impugnazione, non già su un argomento, sia pure di rilievo, posto nella sentenza impugnata a sostegno della decisione.

Invero, costituisce capo autonomo della sentenza, come tale suscettibile di formare oggetto di giudicato, anche interno, quello che risolva una questione controversa, avente una propria individualità ed autonomia, sì da integrare astrattamente una decisione del tutto indipendente; la suddetta autonomia non solo manca nelle mere argomentazioni, ma anche quando si verta in tema di un presupposto necessario di fatto che, unitamente ad altri, concorra a formare un capo unico della decisione (Cass. Civ., I^ Sez., n. 4732 del 23/03/2012; Cass. Civ., Sez. Lav., n. 24358 del 04/10/2018; Cass. Civ., III^ Sez., n. 726 del 16/1/2006). In particolare, “In tema di appello, la mancata impugnazione di una o più affermazioni contenute nella sentenza può dar luogo alla formazione del giudicato interno soltanto se le stesse siano configurabili come capi completamente autonomi, avendo risolto questioni controverse che, in quanto dotate di propria individualità ed autonomia, integrino una decisione del tutto indipendente, e non anche quando si tratti di mere argomentazioni oppure della valutazione di presupposti necessari di fatto che, unitamente ad altri, concorrano a formare un capo unico della decisione”. (Cass. Civ., I^ Sez., n. 21566 del 18/09/2017, come citata da Cass. Civ., I^ Sez., Ord. n. 40276 del 15-12-2021).

Di conseguenza, così come nella cessione del ramo di azienda si richiede che la stessa sia dotata di “autonomia organizzativa ed economica” affinché possa formare oggetto di trasferimento, allo stesso modo, per potersi parlare di giudicato e quindi di intangibilità per acquiescenza ex art. 329 II° comma c.p.c. su alcune parti di sentenza non impugnate, occorre che, quanto non devoluto al Giudice di gravame, possa essere definito “parte di sentenza”.

4. Sull’ultrattività del giudicato

Il giudicato, oltre ad avere una sua efficacia diretta nei confronti delle parti, loro eredi e aventi causa, è dotato anche di un’efficacia riflessa, nel senso che la sentenza, come affermazione oggettiva di verità, produce conseguenze giuridiche nei confronti di soggetti rimasti estranei al processo in cui è stata emessa, allorquando questi siano titolari di un diritto dipendente dalla situazione definita in quel processo o comunque di un diritto subordinato a tale situazione, con la conseguenza reciproca che l’efficacia del giudicato non si estende a quanti siano titolari di un diritto autonomo rispetto al rapporto giuridico definito con la prima sentenza (v. Cass. Civ., III^ Sez., n. 6788 del 19/3/2013).

Tale indirizzo giurisprudenziale richiede che le cause, tra le stesse parti, abbiano ad oggetto un medesimo titolo negoziale od un medesimo rapporto giuridico ed una di esse sia stata definita con sentenza passata in giudicato: in tal caso, infatti, l’accertamento compiuto in merito ad una situazione giuridica o la risoluzione di una questione di fatto o di diritto incidente su un punto decisivo comune ad entrambe le cause o costituente indispensabile premessa logica della statuizione contenuta nella sentenza passata in giudicato, precludono l’esame del punto accertato e risolto, anche nel caso in cui il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che costituiscono lo scopo ed il “petitum” del primo (cfr. Cass. Civ., III^ Sez., n. 1365 del 16/05/2006; Cass. Civ., III^ Sez., n. 19317 del 03/10/2005; Cass. Civ., III^ Sez., n. 6628 del 24/03/2006).

5. Possibili scenari… si contendono!

Con il lavoro di cui sopra si è tentato di fornire una prima, elementare ricostruzione quantomeno delle problematiche esistenti in tema di Giudicato, consapevole che la materia rappresenta una fonte inesauribile di questioni, argomentazioni e di riflessioni, come una sorta di tela di Penelope che la giurisprudenza ha il potere di fare e disfare, o forse, restando in campo mitologico, una vera e propria Idra di Lerna le cui teste, una volta recise, ricrescono subito dopo e moltiplicate.

Ciononostante, proprio per la prolificità delle questioni sottese, l’interprete/studioso è chiamato al tanto arduo quanto affascinante e stimolante compito di comporre le tessere del mosaico, affinché si possa pervenire ad un modello ideale di Giudicato sempre più compatibile con i diritti garantiti dalla nostra Carta Costituzionale ed in particolare con il diritto ad un giusto processo che, vale la pena ribadire, sarà tale soltanto se i contorni del Giudicato diventeranno più marcati e tangibili, abbandonando l’inconcludenza e la tautologia che non di rado le pronunce di legittimità riservano a questa tematica, in favore di una concezione empirica ed intellegibile del fenomeno.

 

 

 

 

 


Bibliografia essenziale
CHIOVENDA G., Sulla cosa giudicata, in Saggi di diritto processuale civile (1894-1937), vol. II, Milano, 1993, p. 399
LUISO F. P., Diritto processuale civile, vol. I, Milano, 2017.
MANDRIOLI C. – CARRATTA A., Diritto processuale civile, vol. I, Torino, 2016.
POLI R., “Parte di sentenza” e formazione del giudicato interno, in Iudicium, n. 2/2021, pp. 115-152.
POLI R., In tema di giudicato e accertamento dei fatti, in Riv. dir. proc. 1999, p. 581.
RECCHIONI S., Pregiudizialità. processuale e dipendenza sostanziale nella cognizione ordinaria, Padova, 1999
RECCHIONI S., Rapporto giuridico fondamentale, pregiudizialità di merito c.d. logica e giudicato implicito, in Riv. dir. proc. 2018, p. 1598.
SASSANI B., Lineamenti del processo civile italiano. Tutela giurisdizionale, procedimenti di cognizione, cautele, Milano, 2017.

Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
Direttore responsabile Avv. Giacomo Romano
Listed in ROAD, con patrocinio UNESCO
Copyrights © 2015 - ISSN 2464-9775
Ufficio Redazione: redazione@salvisjuribus.it
Ufficio Risorse Umane: recruitment@salvisjuribus.it
Ufficio Commerciale: info@salvisjuribus.it
***
Metti una stella e seguici anche su Google News
The following two tabs change content below.

Augusto Valente

Avv. Augusto Valente Nel 2020 ha conseguito l'abilitazione forense presso la Corte d'Appello di Roma, è iscritto presso il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Cassino (FR). Ha conseguito, in entrambi i casi presso l'Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale, la laurea in Servizi Giuridici per lo Sport, discutendo la tesi in Diritto del Lavoro Sportivo con il Prof. Luca Miranda, e la laurea magistrale in Giurisprudenza discutendo la tesi in Diritto Processuale Amministrativo con la Prof.ssa Margherita Interlandi.Ha collaborato, negli anni accademici 2018 e 2019 con le cattedre di Diritto Amministrativo e Diritto Processuale Amministrativo del Prof. avv. Raffaele Montefusco, presso l'Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale. Ha svolto la pratica forense presso lo Studio Legale Santopietro in Pontecorvo (FR), occupandosi prevalentemente di Diritto Civile e Diritto Amministrativo. Dal 2019 fa parte dello studio CLAvis - Consultants Lawyers & Accountants di Roma, occupandosi di Diritto Civile, Amministrativo e Sportivo. È autore di diverse pubblicazioni sulla rivista scientifica online Salvis Juribus.

Articoli inerenti