L’impatto delle neuroscienze sul diritto penale

L’impatto delle neuroscienze sul diritto penale

Sommario: Premessa – 1. Ripensando la responsabilità nell’era delle neuroscienze – 2. Infermità di mente ed imputabilità – 3. Sentenza Raso – 4. Conclusioni

Premessa

Come può funzionare la macchina della giustizia se non si comprendono le motivazioni dell’agire umano?

Fino a pochi anni fa, gli studi circa l’origine biologica del pensiero e del comportamento umano, erano circondati da un diffuso alone di scetticismo, tanto da essere definiti come “Possibili ma tutt’oggi non dimostrati fondamenti organici o biochimici” della funzione cognitiva del cervello[1].

Nonostante le iniziali diffidenze, l’incessante affermarsi degli studi scientifici sul funzionamento del sistema nervoso e del cervello desta, nel corso del tempo, molta attenzione anche tra gli studiosi del diritto, i quali non solo temono che attraverso le neuroscienze si riconoscano in difetti biologici neuronali,  le ragioni che spingono il soggetto a delinquere  ma anche che le stesse neuroscienze, in sostanza, possano evidenziare una realtà fatta di singoli aspetti sul funzionamento del cervello che contraddicono le più consolidate e ferme convinzioni.

Se il diritto e le neuroscienze, pur occupandosi dello stesso oggetto di indagine (che poi è il soggetto umano, i suoi moventi e la sua condotta) potessero continuare ad esercitare un magistero “parallelo”, non vi sarebbe ragione di indagare ulteriormente la questione: “alla scienza i fatti, al diritto i valori. Degli esseri umani si occupino le scienze, al diritto interessano le persone”[2]. In realtà, non si può non rilevare come le moderne neuroscienze cognitive rappresentino l’espressione di una visione complessiva della natura umana che, in quanto tale, è destinata ad investire fin dalle fondamenta l’architettura concettuale del sapere giuridico, costringendolo comunque ad un profondo ripensamento.

“Il rapporto tra neuroscienze e diritto sembra così essere passato, nel giro di pochi anni, dallo stato di accostamento esotico o controverso (innovativo soprattutto per la novità delle neuroscienze, una disciplina nuova e ancora un po’ misteriosa al grande pubblico) a quello di argomento di cui è gioco forza parlare, visto che investe concetti come quelli di libero arbitrio e di concezione monistica o dualistica dell’individuo, che inevitabilmente hanno a che fare con il mondo delle norme sociali che regolano sanzioni e responsabilità umane: il diritto, appunto[3]“.

Il punto di partenza di un’analisi che tratti del rapporto tra neuroscienze e diritto (penale), non può che riguardare l’imputato la sua scelta di delinquere e, conseguentemente, la sua responsabilità.

In relazione all’autore della condotta delittuosa, uno dei nodi più problematici coincide, infatti, con la compatibilità tra il riconoscimento del fondamento biologico delle scelte e dell’agire umano, da una parte, e il libero arbitrio dall’altra. Ciò che rappresenta il punto forte dei neuroscienziati, infatti,  sono le risultanze di alcuni esperimenti in cui è emerso che le intenzioni coscienti dell’uomo non sarebbero propriamente le cause delle nostre azioni perché l’operatività causale è anticipata da processi cerebrali che le precedono, con un relativamente ampio scarto temporale. Il che tradotto in parole semplici dimostrerebbe che le intenzioni sono causalmente inefficaci e che rappresentano una sorta di epifenomeno.  Fu Benjamin Libet, neuroscienziato statunitense che, attraverso alcuni particolari studi, fornì prove su come l’esperienza mentale cosciente fosse posteriore rispetto alle funzioni mentali inconsce, rinfocolando un dibattito antichissimo e mai completamente sopito.

Accade, infatti, che per corsi e ricorsi della storia alcune questioni ritornino a sollecitare l’interesse, e il dibattito, dei più diversi settori della scienza, che forniscono risposte nuove a problemi vecchi, o risposte vecchie a problemi nuovi.

Siffatti “corsi e ricorsi”, peraltro, non costituiscono affatto un limite dell’evoluzione delle conoscenze scientifiche, bensì sono proprio il loro punto di forza.

La categoria del libero arbitrio ha, infatti, stimolato da sempre le riflessioni dei giuristi per il suo stretto collegamento con la questione della responsabilità, anche perché rappresenta un argomento altamente contro-intuitivo, come è stato in passato il problema se la Terra fosse piatta o curva. Basti pensare, per quanto riguarda la tradizione penalistica italiana, alle infinite dispute fra la Scuola Classica[4], erede della visione illuminista dell’uomo come essere libero e razionale, e la Scuola Positiva[5], sostenitrice del determinismo sociale, seguite dall’affermazione della Terza Scuola e successivamente dalla Scuola della Nuova difesa sociale. Queste ultime, pur riconoscendo così come sostenuto dalla Scuola Classica, il fondamento del libero arbitrio, al contempo ritenevano che in tale libertà di autodeterminazione il singolo fosse fortemente condizionato da fattori interni ed esterni (aderendo quindi sotto questo profilo alle concezioni della Scuola Positiva); ne conseguiva, dunque,  che la funzione della pena doveva  essere al contempo retributiva (come sostenuto dalla Scuola classica) e preventiva (come sostenuto dalla Scuola Positiva); non a caso, infatti, si parlava di sistema dualistico o del doppio binario.

Da qui il passo è breve alla formulazione del seguente, inquietante interrogativo: l’essere umano è, o non è determinato nei suoi comportamenti? In altre parole: esiste davvero il libero arbitrio?[6] Per circoscrivere il concetto in fase introduttiva, si può dire che il libero arbitrio rappresenta quella capacità, tipica degli esseri umani, di avere un controllo sulle proprie azioni tale da giustificare la responsabilità morale, un controllo che ha a che fare con la “sorgente” causale dell’azione (tipicamente deve essere interna all’agente)[7].

Libet, dunque, come abbiamo anticipato, nel corso dei celebri studi condotti negli anni Ottanta[8], tentò  di capire, attraverso un esperimento, se il libero arbitrio fosse, innanzitutto, “fisiologicamente” possibile.

Secondo Liebet,  tutte le azioni volontarie inizierebbero a livello neurale; solo in un momento successivo emergerebbe la volontà del soggetto di realizzare l’azione. La libertà di scelta di quest’ultimo sarebbe, dunque, illusoria in quanto agirebbe secondo determinazioni cerebrali inconsce.

L’importanza di tale scoperta dimostra, in primo luogo,  che la decisione consapevole della mente è il risultato di processi cerebrali inconsci; ed in secondo luogo, che sussiste comunque il tempo per inibire un’azione, non appena il soggetto sia consapevole della propria intenzione[10].

Di conseguenza, in virtù della scoperta di Libet, i capisaldi dell’odierno diritto penale divengono oggetto di attacco frontale da parte dei sostenitori del programma neuroscientifico rifondativo.

Nonostante le straordinarie implicazioni filosofiche, morali e giuridiche, gran parte dei ricercatori sembra confluire su una visione più moderata conosciuta come “libero arbitrio neuroscientifico”, secondo cui ciò che l’uomo possiede non è la facoltà di autodeterminarsi in base ad una scelta assolutamente libera ma, piuttosto, quella di controllare e bloccare certi impulsi deterministicamente generati dal cervello a livello di inconscio.

Lo stesso Libet, pertanto, sostenuto da Gazzaniga, famoso divulgatore neuroscientifico,  sostenne che sarebbe stato più opportuno esprimersi in termini di free won’t (libero veto) piuttosto che di  free will (libero arbitrio), in altre parole, ciò che l’uomo possiede non è la facoltà di autodeterminarsi secondo libera e totale scelta, bensì quella di controllare e bloccare certi impulsi deterministicamente generati.

Il cervello sarebbe predeterminato, ma la persona resterebbe libera; nei 200 millisecondi che intercorrono tra l’affiorare alla coscienza dell’impulso all’azione autoprodottosi in precedenza, infatti, l’individuo potrebbe decidere se portare a termine il movimento o se inibirlo, arrestando i processi cerebrali attivatisi inconsciamente.

Il problema che sorge a questo punto è se la compromissione di circuiti cerebrali deputati a svolgere funzioni inibitorie conduca a comportamenti violenti che sfuggono al controllo dell’individuo. In tal caso, appunto, la criminalità dell’individuo potrebbe stare non tanto nella perdita del libero arbitrio, quanto in quella del libero veto. Il problema successivo è se il reato commesso nell’incapacità di esercitare il libero veto sia da considerare imputabile.

Finora, né le neuroscienze, né la genetica comportamentale hanno potuto fornire risposte definitive in ordine al quesito sul libero arbitrio: ma il progresso di queste discipline è continuo, sicché a breve potremmo aspettarci significative novità. E’ chiaro, in ogni caso, che le neuroscienze non prevedono una confutazione del sistema penalistico moderno, al contrario, riescono a decifrare da un punto di vista analitico, un nuovo sistema nell’ambito del quale sia finalmente possibile la convivenza tra libertà e responsabilità fornendo, così, un ineguagliabile strumento per il diritto penale.

1. Ripensando la responsabilità nell’era delle neuroscienze

Il concetto di persona assunto dalla legge interpreta l’uomo come agente razionale, libero di scegliere secondo proprie credenze e desideri, dotato di libero arbitrio. Su questa base si fonda il principio dell’imputabilità secondo cui “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile.

È imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere[14]“(art.85 c.p.).

L’assoggettabilità della condanna, dunque, è fatta dipendere non solo dall’aver compiuto il fatto, ma anche dall’averlo compiuto volontariamente. Si tratta, praticamente, dei cosiddetti elementi mentali della responsabilità penale (conoscenza, intenzione), definiti dai giuristi con la locuzione “mens rea”. Se tra gli elementi mentali viene meno quello dell’intenzionalità, il reato viene per così dire derubricato. Già nel diritto romano, i fatui[15] erano considerati meno responsabili del proprio agire, cosa che vale tutt’oggi per chi è folle, alienato, malato di mente…Vengono, quindi, considerati imputabili in maniera ridotta i casi di quella che potremmo chiamare “mens insana”, in quanto privati del libero arbitrio. Ebbene, quale trattamento riservare  ai casi di individui che commettono crimini e che hanno alterazioni cerebrali, morfologiche o funzionali? Può la “mens aegra” essere considerata un’attenuante? Se un novello Phineas Gage, a seguito di una sociopatia acquisita, commette un omicidio, è da ritenersi pienamente responsabile?[16] D’altronde, se un paziente perde certe abilità linguistiche a seguito di una lesione all’area deputata alle funzioni di articolazione del linguaggio, nessuno lo ritiene responsabile per questo.

In un caso realmente accaduto negli USA, una persona era stata accusata di essersi rifiutata di rispondere alle domande di un funzionario della dogana, il che costituisce un reato federale. In realtà, la persona aveva gravi disturbi del linguaggio, oltre ad anomalie comportamentali, legate ad un ictus esteso del lobo frontale sinistro. La difesa, dunque, presentò queste evidenze e la persona fu assolta.[17]

La questione è di particolare delicatezza e non sono certo i neuroscienziati ad assumersi il compito di risolverla. A mio avviso, in tale ambito, come in molti altri casi, le neuroscienze non hanno introdotto nel discorso penalistico un argomento del tutto nuovo, ma piuttosto hanno avvalorato, scientificamente, delle ipotesi prospettate già con la celeberrima sentenza della Corte Costituzionale n.364 del 1988 sull’art.27 della Costituzione: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso dell’umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte“.

Per i costituenti la responsabilità penale è personale nel senso che non si può essere puniti per fatto altrui e anche nel senso che rispetto al fatto materialmente commesso è necessario l’elemento soggettivo, cioè l’esistenza del dolo o della colpa. La Corte, però, ha ritenuto che l’art. 27 deve essere letto nella sua interezza e che i diversi commi sono in relazione tra loro e non indipendenti, se non addirittura in contrasto.

Il primo comma, in particolare, deve essere letto in relazione con il terzo comma che così dispone: “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Secondo la Corte, infatti, collegando il primo e il terzo comma dell’art. 27 si scopre che dovrà essere rieducato solo chi ha agito in presenza e sostenuto dal necessario elemento psicologico del dolo o della colpa, non chi ha agito senza. La Corte, però, ammette che nel giudizio contro un soggetto è necessario accertare la “rimproverabilità” rispetto al fatto commesso, e ciò ha fatto ritenere, a parte della dottrina, che se è vero che l’elemento soggettivo del reato consiste nel dolo e nella colpa, la colpevolezza, in quanto tale, non consiste nel dolo e nella colpa, ma nella rimproverabilità della condotta al soggetto agente, e che, di conseguenza, nell’analisi del reato il primo elemento, relativo alla tipicità del fatto, comprende sia l’elemento oggettivo sia l’elemento soggettivo, il secondo corrisponde all’antigiuridicità, il terzo è la colpevolezza, intesa come rimproverabilità, il cui presupposto sta nell’imputabilità dell’agente.

Ma quando un soggetto è rimproverabile? Se una persona viola la legge penale perché la ignora, sarà responsabile? La risposta è: sì.

E allora, quando non si è rimproverabili?

Dal collegamento tra il primo ed il terzo comma dell’art.27 della Costituzione e, in relazione all’art.5 c.p. risulta che: 1) La responsabilità penale è personale non solo nel senso che non si può essere puniti per fatto altrui, ma anche nel senso che l’elemento soggettivo, almeno della colpa, sia presente in relazione agli elementi più significativi della fattispecie; 2) La responsabilità penale esiste quando in concreto il soggetto è rimproverabile per il fatto compiuto, rimproverabilità che manca quando non vi sia l’elemento soggettivo, ma anche quando non poteva conoscere il precetto penale, seppure esistente.

La Corte chiarisce, poi, che oltre alle condizioni relative al rapporto soggetto-fatto, esiste un altro presupposto della responsabilità penale, costituito, appunto, dalla riconoscibilità dell’effettivo contenuto precettivo della norma.

L’oggettiva impossibilita di conoscenza del precetto, nella quale venga a trovarsi chiunque, non può gravare sul cittadino e costituisce, dunque, un altro limite della personale responsabilità penale.

La Corte sostiene, inoltre, che non è certo semplice conoscere per davvero il precetto penale, sia per il rapidissimo succedersi di leggi penali, sia perché la legge penale (e non solo) deve essere interpretata, e per far questo è necessaria la mediazione di soggetti esperti, specie quelli chiamati dallo stesso Stato a svolgere questo compito. Di conseguenza, chi vuole rispettare le legge penale deve anche svolgere dei doveri strumentali di informazione ulteriore, come chiedere informazioni agli organi preposti, verificare le interpretazioni della magistratura e così via e se non segue queste regole strumentali: “la violazione già denota una trascuratezza nei confronti dei diritti altrui, delle persone umane e, conclusivamente, dell’ordinamento tutto”. E se, invece, si chiede la Corte, queste regole strumentali sono state osservate? Chi, ad esempio, attenendosi scrupolosamente alle richieste preventive dell’ordinamento, agli obblighi di solidarietà sociale di cui all’art. 2 della Costituzione, adempia a tutti i predetti doveri, strumentali, nella specie prevedibili e ciò nonostante venga a trovarsi in stato d’ignoranza della legge penale, può esser trattato allo stesso modo di chi deliberatamente o per trascuratezza violi gli stessi doveri? La corte prosegue che se il cittadino, nei limiti possibili, si è dimostrato ligio al dovere (ex art. 54, primo comma Cost.) e, ciò malgrado, continua ad ignorare la legge, deve concludersi che la sua ignoranza è inevitabile e, pertanto, scusabile.

Non è quindi rimproverabile chi non ha agito con dolo o colpa, ma nemmeno è rimproverabile chi si trovava nell’impossibilità di conoscere il precetto penale nel senso sopra indicato, quando, cioè, la sua ignoranza sia inevitabile.

Ma come si fa, in concreto, a stabilire se l’ignoranza sul precetto penale sia inevitabile? La Corte precisa che questa valutazione non può essere solo oggettiva, ma anche soggettiva, e afferma che occorre tener conto della generalizzazione dell’errore nel senso che qualunque consociato, in via di massima sarebbe caduto nell’errore sul divieto ove si fosse trovato nelle stesse particolari condizioni dell’agente.

E’ proprio qui, dunque, che intervengono le neuroscienze le quali, facendo luce sulle basi biologiche del comportamento dell’agente, forniscono al giudice ulteriori elementi di valutazione circa le altre ed eventuali ipotesi di “ignoranza inevitabile”.

2. Infermità di mente ed imputabilità

Nel vecchio Codice Zanardelli del 1889 compariva per la prima volta il concetto omnicomprensivo di stato di infermità di mente per cui non era punibile colui che, nel momento in cui avesse commesso il fatto, era in tale stato di infermità mentale da togliergli la coscienza o la libertà dei propri atti (art. 46)[18].

In seguito, durante i lavori preparatori al Codice Rocco, i redattori del Progetto evidenziarono come la capacità intellettiva e la capacità volitiva fossero il fondamento dell’imputabilità[19]. In mancanza di una definizione codicistica di imputabilità (ex art. 85 c.p.), è orientamento diffuso nella manualistica che “la capacità di intendere” possa essere definita come “l’attitudine ad orientarsi nel mondo esterno, secondo una percezione non distorta della realtà, e quindi come la capacità di comprendere il significato del proprio comportamento e di valutarne le possibili ripercussioni positive o negative sui terzi”. La capacità di volere, invece, consiste “nel potere di controllare gli impulsi ad agire e di determinarsi secondo il motivo che appare più ragionevole o preferibile in base ad una concezione di valore”[20]. La nostra attenzione, in questa sede, si concentra sulle disposizioni di cui all’art.88-89 c.p.

“Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e di volere” (art.88 c.p.);

“Chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità di intendere e di volere, risponde del reato commesso; ma la pena è diminuita” (art.89 c.p.): i due articoli prevedono, sostanzialmente, l’esclusione o la diminuzione dell’imputabilità in presenza di infermità di mente. Ma cosa intendiamo per “infermità di mente”?

Secondo il più risalente paradigma medico, le infermità mentali sono considerate vere e proprie malattie del cervello o del sistema nervoso, aventi, perciò, un substrato organico o biologico.

Tale paradigma medico si scinde in tre distinte concezioni: la concezione nosografica, la concezione organistica e la concezione patologica[21].

Secondo la concezione nosografica, le infermità rilevanti sono malattie del cervello o del sistema nervoso e, conseguentemente, sono solo quelle riconducibili all’interno di un preciso quadro clinico[22]. In base al filone organicistico, invece, nel concetto di infermità rientrano tutte le alterazioni biologiche ed organiche anche se non inquadrabili entro un quadro strettamente nosografico[23].

Quest’ultima corrente interna al paradigma medico sembra essere quella che ha avuto più fortuna, ma anche quella prescelta dal legislatore del 1930;  infatti, la dottrina afferma che l’infermità rilevante ai sensi dell’art. 88 c.p. deve essere definita come una malattia[24]. Risulta essere coerente a tale posizione anche il contributo del Manzini secondo cui assimilando la nozione di infermità a quella di malattia “si è escluso da un lato ogni stato di incapacità non derivante da infermità e, dall’ altro, si è compresa tanto l’incapacità di intendere e di volere inerente a sola malattia di mente, quanto quella prodotta dal corpo”.

“Agli albori del Novecento, l’opera di Sigmund Freud ha elaborato la teoria dell’inconscio, di un mondo, cioè, nascosto dentro di noi, privo di confini fisiologicamente individuabili, attraverso l’esame dei tre livelli della personalità: l’Es, il livello più basso e originario, che resta in via permanente inconscio; l’Io, cioè la parte ampiamente conscia, che obbedisce al principio di realtà; il Super-io, che costituisce la ‘coscienza sociale’ e consente l’interiorizzazione dei valori e delle norme sociali. L’influenza che é derivata da tale teoria ha condotto all’elaborazione del paradigma psicologico per il quale i disturbi mentali rappresentano disarmonie dell’apparato psichico, nelle quali la realtà inconscia prevale sul mondo reale. Nel loro studio vanno individuate le costanti che regolano gli avvenimenti psicologici, valorizzando i fatti interpersonali, di carattere dinamico, piuttosto che quelli biologici, di carattere statico I disturbi mentali vengono, quindi, ricondotti a «disarmonie dell’apparato psichico in cui le fantasie inconsce raggiungono un tale potere che la realtà psicologica diventa, per il soggetto, più significante della realtà esterna» e «quando questa realtà inconscia prevale sul mondo reale, si manifesta la malattia mentale». Il concetto di infermità, quindi, si é allargato, fino a comprendere non solo le psicosi organiche, ma anche altri disturbi morbosi dell’attività psichica, come le psicopatie, le nemesi, i disturbi dell’affettività: oggetto dell’indagine, dunque, non è più la persona-corpo, ma la persona-psiche[25]“.

Negli anni 70 del secolo scorso si è sviluppata, inoltre, una nuova concezione c.d. sociologica secondo cui, la malattia mentale è un disturbo psicologico avente origine sociale, non più attribuibile ad una causa individuale di natura organica o psicologica, ma a relazioni inadeguate nell’ambiente in cui il soggetto vive. Tale paradigma propone, in sostanza, un concetto di infermità di mente come malattia sociale. Si assiste, quindi, ad un’apertura verso il riconoscimento di quei disturbi che, sebbene non inquadrabili in rigide classificazioni, determinano in concreto un’esclusione (o diminuzione) della capacità di intendere e di volere.

Tale indirizzo risulta essere accolto sia in dottrina sia in giurisprudenza dopo che, a seguito degli sviluppi scientifici, crolla l’idea che sia possibile ricondurre entro una cornice nosografica ogni disturbo psichico. In dottrina, sostenitore del paradigma giuridico è il Mantovani che lo accoglie con favore in quanto riconosce che, alla luce delle nuove acquisizioni in ambito medico e della conseguente evoluzione del concetto di malattia mentale, l’infermità non può essere racchiusa entro rigide classificazioni, ma deve essere interpretata in base alle norme sull’ imputabilità.

Sulla base di ciò risulta, dunque, fondamentale l’apporto delle neuroscienze volto, appunto, a comprendere quando l’autocontrollo sia ostacolato o aggirato, ma, soprattutto, quando sia in qualche modo impedito o attenuato da anomalie neurologiche. Grazie alla loro capacità di evidenziare comportamenti o prestazioni classificati come “patologici”, associati a lesioni o disfunzioni cerebrali, le neuroscienze possono, infatti, consentire al giudice un più preciso apprezzamento della capacità di intendere e di volere dell’imputato[26].

La rilevazione di patologie o  disfunzioni, quindi, se in ambito medico potrebbe comportare l’adozione di determinate cure, in sede processual-penale potrebbe fondare una valutazione di assenza di imputabilità o di sua riduzione.

E’ necessario precisare immediatamente che, in sede processuale, un eventuale dato neuroscientifico rilevato, non conduce automaticamente al riconoscimento della non imputabilità o alla riduzione della stessa ma, occorre che quest’ultimo sia interpretato dal giudice[27] che, anche in base al confronto con altre risultanze processuali, deve verificare la sussistenza del nesso eziologico tra il dato neuroscientifico rilevato e il fatto di reato commesso[28].

3. Sentenza Raso

Un punto decisivo a favore di una nozione “estesa” di infermità mentale, rispetto alla concezione nosografica, è stato segnato, dalla sentenza SS.UU. 8 marzo 2005, n. 9163, cosiddetta Sentenza “Raso”.

Partiamo dal presupposto che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno specificato che il legislatore, a differenza di quanto precedentemente sostenuto, nella formulazione dell’art.88 c.p., ha rinunciato, a priori, a definire in termini descrittivi tutti i parametri della fattispecie ma, attraverso l’utilizzo di elementi normativi ha rinviato ad una realtà valutativa contenuta in una norma diversa, giuridica o extragiuridica (etica, sociale, psichiatrica, psicologica).

Inizialmente, infatti, si era concordi sul ritenere che il legislatore aveva legiferato seguendo il modello proposto dalla scienza medica facendo, dunque, riferimento al vizio di mente “come conseguenza d’infermità fisica o psichica clinicamente accertata”, ad una “forma patologicamente e clinicamente accertabile di infermità”.

Soffermandosi sugli artt.88-89 c.p., la Suprema Corte ha sottolineato che, in realtà le disposizioni fanno riferimento ad una semplice “infermità” che induca il soggetto “in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e di volere”, senza alludere ad alcuna “infermità mentale”. A differenza, ad esempio, degli artt. 218 e 222 c.p. che, in tema di presupposti per l’applicabilità della misura di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico o in una casa di cura o di custodia, parlano espressamente di “infermità psichica”.

Sempre per quanto concerne il dato testuale degli artt.88-89 c.p., per questi ultimi, il concetto di infermità non è del tutto sovrapponibile a quello di malattia, risultando, rispetto a questo, molto più vasto.

La Suprema Corte, dunque, attraverso la nota sentenza Raso, aderendo alle più moderne e diffuse teorie della dottrina psichiatrica, ha adottato un ampio concetto di infermità tale da comprendere anche i disturbi della personalità.

Tali disturbi rientrano nell’ampia categoria delle psicopatie, ben distinta, dalla categoria delle psicosi essendo, queste ultime considerate, vere e proprio malattie mentali. Il disturbo della personalità, invece, può acquisire rilevanza solo ove sia di consistenza, intensità, rilevanza e gravità tali da incidere sulla capacità di intendere e di volere. Deve, perciò, trattarsi di un disturbo idoneo a determinare una situazione psichica incontrollabile ed ingestibile che, incolpevolmente, rende l’agente incapace di esercitare il dovuto controllo dei propri atti.

Ricapitolando, sebbene la sentenza “Raso” abbia riconosciuto che le infermità di mente non sono solo quelle clinicamente accertabili, ma possono essere anche i disturbi della personalità, o comunque tutte quelle anomalie psichiche non inquadrabili nelle figure tipiche della nosografia clinica, essa è stata ben chiara nel precisare che queste ultime, per comportare l’esclusione o l’attenuazione della imputabilità (ex artt. 88, 89 c.p.), devono essere di gravità ed intensità tali da escludere o scemare grandemente la capacità di intendere o di volere. Il giudice, dunque, avvalendosi di tutti gli strumenti a sua disposizione, dovrà procedere soprattutto all’accertamento di quel nesso eziologico sussistente tra il disturbo mentale e il fatto di reato che consenta di ritenere il secondo causalmente determinato dal primo[29].

Con la sentenza Raso, la Suprema Corte ha, inoltre, specificato che non possono avere rilievo, ai fini dell’imputabilità, altre “anomalie caratteriali”, “disarmonie della personalità”, “alterazioni di tipo caratteriale”, “deviazioni del carattere e del sentimento”,quelle legate “all’indole” del soggetto; infatti nonostante rientrino nella sfera del processo psichico, non rispecchiano ciò che abbiamo appena indicato.

4. Conclusioni

Le tematiche delineate hanno dimostrato come le scoperte delle neuroscienze e i possibili rapporti tra tali acquisizioni e il mondo del diritto siano argomenti cui il giurista moderno deve necessariamente rivolgere lo sguardo.

C’è chi già propone una radicale rifondazione del diritto penale su nuove basi, cui segua coerentemente una completa rimodulazione delle sanzioni, proiettate esclusivamente in funzione di cura e di controllo; e chi, invece, ritiene che la strada attualmente percorribile sia quella della collaborazione tra diritto e processo penale e neuroscienze, collaborazione che si può sviluppare lungo plurime direttrici, ognuna delle quali, tuttavia, presenta proprie peculiarità e proprie difficoltà, anche in considerazione dello “strumento” di volta in volta utilizzato da periti e consulenti per fornire elementi che possano contribuire alla formazione della decisione del giudice.

Su una lunghezza d’onda completamente dissimile si pone, invece, quella parte della dottrina che si interroga sulla fondatezza dell’attuale diritto penale e sulla sua validità nell’odierna società. “Si tratta di un diritto penale da fondare o da rifondare?”

Secondo Luca Santamaria, autore dell’interrogativo, la psicologia dell’attuale codice penale è una psicologia eretta nel 1930, anno ottavo dell’era fascista, dalla cui cultura non c’è da aspettarsi granché di umanità!

Nel codice di rito c’è un uomo, è vero, ma l’uomo del codice penale è un uomo che non è un uomo, è solo l’ombra di uomo. Il diritto penale elabora uno scialbo e piatto ritratto di uomo, chiamato reo, che è impastato quasi solo di ragione, che rappresenta la facoltà di ogni uomo, ed è così potente, che essa deve prevalere su tutto o quasi e può farlo perché, oltre che potente è anche sovranamente libera[31].  Uno dei tragici limiti del nostro diritto penale, continua Santamaria in una sua recente intervista, è proprio la quasi assoluta indifferenza che esso mostra nel prendere in esame le cause, psicologiche o ambientali del crimine. Il dogma della libertà non è stato costruito a caso! Esso serve per occultare le cause reali e profonde del crimine, perché illuminarle anche solo un po’ di più, indebolirebbe la autorità inesorabile del diritto penale, ch’è fondato come ormai sappiamo solo sull’archetipo primordiale della colpa, quindi dell’abuso della libertà, e della logica necessaria conclusione, che è la punizione[32].

Se è vero che la neuroscienza è un sistema più onesto e razionale di capire l’uomo, allora il diritto penale dovrà cambiare, e anche presto, mettendo, innanzitutto, al centro del sistema l’uomo e non il reo e aprendo, di conseguenza,  alla neuroscienza tutte le porte e le finestre che ha. Se il diritto penale deve sopravvivere e deve essere ancora fondato sulla colpevolezza e sulla punizione che, almeno, la scienza del diritto elabori una teoria della mente dell’uomo in cui la colpevolezza possa trovare fondamento razionale e credibile.

Prendendo le distanze dalle correnti dottrinarie precedentemente delineate, la soluzione più idonea, a mio avviso, è quella di rifuggire da posizioni massimaliste cercando, di conseguenza, (almeno per questa fase primordiale) un punto di equilibrio tra quanto previsto dalla legge e quanto scoperto dalle neuroscienze, riconoscendo, di conseguenza,  il ruolo che queste ultime possono avere e andando, pertanto, a respingere sia gli atteggiamenti di drammatizzazione sia quelli di accettazione acritica delle ultime scoperte. E’ necessario, insomma, capire come scienza e norma possono convivere nell’attuale sistema, senza limitarsi a vicenda ed interagendo in modo utile per le finalità della giustizia.

 

 

 


[1] A. BIANCHI, G.GULOTTA, G.SARTORI, Manuale di neuroscienze forensi, Giuffrè editore p. 195
[2]A.BIANCHI, Neuroscienze e diritto: spiegare di più per conoscere meglio, in Bianchi A., Gulotta G., Sartori G., (a cura di), Manuale di neuroscienze forensi, Milano, 2009, XI.
[3] A.SANTOSSUOSSO, Le neuroscienze e il diritto, Pavia, 2009, 13. L’Autore precisa, invero, che dopo un’attenta analisi della letteratura in materia si scopre che ogni autore definisce l’oggetto di indagine (o meglio, di interrelazione trattandosi di neuroscienze e diritto) in modo diverso e, soprattutto indica una diversa data di inizio; “se infatti per George Annas il cervello umano è stato al centro del dibattito medico-legale a partire dalle fine degli anni Sessanta del Novecento, per Jeffrey Rosen il momento in cui le neuroscienze hanno cominciato a trasformare il sistema giuridico americano è stato l’inizio degli anni Novanta del Novecento, per altri autori come Laura Stephens Khosbin e Shahram Khosbin, sono stati alcuni casi giudiziari a partire dal 1981 ad avere messo in luce la difficoltà dei giudici nel decidere se le brain images possano essere ammesse come prove. Brent Garland e Paul W. Glimcher sostengono, infine (nel 2006) che sono le scoperte degli ultimi vent’anni che costituiranno una sfida per il sistema giuridico”. La diversità di queste datazioni si spiega con i diversi eventi che ciascun autore individua come punto di partenza del rapporto neuroscienze e diritto che, a sua volta, è connesso con l’accezione ampia o ristretta di neuroscienze che si adotta. Un criterio utile per individuare oggettivamente un momento storico preciso è individuare il momento in cui le scoperte e le tecniche hanno acquistato una capacità conoscitiva tale da mettere in crisi le consolidate assunzioni del diritto in ordine alla libertà di determinazione, alla malattia mentale, e così via.
[4] Il pensiero classico si fondava sul principio del c.d. “libero arbitrio”, in base al quale il delinquente, dotato appunto di libero arbitrio, era libero di scegliere  fra il bene e il male, ossia fra l’osservanza o la violazione del diritto e, se sceglieva liberamente il male doveva essere punito proporzionatamente alla gravità dell’illecito commesso. La Scuola classica considerava il reato quale scelta umana cosciente e volontaria, e la pena quale giusto corrispettivo per il male compiuto. La logica era quella della retribuzione: se hai violato un precetto penale, verrai sanzionato, perché hai deciso di opporti all’ordinamento, consapevole delle conseguenze.
[5] Per la Scuola positiva il principio cardine in base al quale si devono spiegare tutti i fenomeni, fisici e psichici, individuali e sociali, è il principio di causalità. E sulla base di tale presupposto, per i positivisti, il delitto è il prodotto non di una scelta libera e responsabile del soggetto, ma di un triplice ordine di cause: antropologiche, fisiche e sociali.
Inoltre, mentre la Scuola classica considerava la pena come un male che veniva inflitto ad un colpevole autore di un reato, secondo gli esponenti della Scuola positiva, la pena costituiva uno strumento di difesa sociale nei confronti dei delinquenti pericolosi: essa non doveva avere i caratteri di castigo e di retribuzione, ma doveva essere finalizzata al recupero individuale e alla sicurezza sociale e pertanto si doveva applicare a tutti gli autori di un reato socialmente pericolosi.
La pena “doveva avere di mira non tanto il dolore del reo, quanto il benessere della società, e non tanto il reato, quanto il reo e soprattutto la sua vittima”.
In questo modo, l’attenzione del diritto penale si spostava dal fatto criminoso in astratto, alla personalità del delinquente in concreto e dalla colpevolezza per il fatto commesso, alla pericolosità sociale del suo autore.
Il delinquente è tale in sé, poiché diverso dagli altri uomini.
“I delinquenti sono una specie del genere uomo e riproducono delle caratteristiche somatico-biologiche proprie ad una primitiva fase di sviluppo attraverso la quale l’umanità sarebbe passata prima di arrivare all’attuale stadio».
I delinquenti, secondo questa accezione, sono persone non evolute che, a causa di determinati deficit organici, appaiono sprovvisti di quei freni inibitori capaci di opporsi agli impulsi
[6] Il quesito sul libero arbitrio e sulla sua considerazione a livello legislativo è stato di recente risollevato da un articolo di due psicologi statunitensi, J. Greene, J. Cohen, For the Law, Neuroscience changes Nothing and Everything, in Philosophical Transactions of the Royal Society, n. 352, 26 novembre 2004, pp. 1775 ss. Tale articolo ha suscitato un ampio dibattito anche in Europa e in Italia: nella nostra letteratura, v. ad esempio A. Nisco, Il confronto tra neuroscienze e diritto penale sulla libertà di volere, in Diritto penale e processo, n. 4, 2012, pp. 499 ss.; F. Basile, G. Vallar, Diritto penale e neuroscienze, in Giornale Italiano di Psicologia, n., 4, 2016, pp. 799 ss.; O. di Giovine, Prove di dialogo tra neuroscienze e diritto penale, ivi, pp. 719 ss.; C. Grandi, Neuroscienze e responsabilità penale: Nuove soluzioni per problemi antichi?, Giappicchelli, 2017.
[7] M.DE CARO, A.LAVAZZA, La libertà nell’era della scienza, diritto penale e uomo, Fasciolo 10/2019
[8] B. LIBET, C. GLEASON, E. WRIGHT, D. PEARL, Time of Conscious Intention to Act in Relation to Onset of Cerebral Activity (Readiness-Potential): The Unconscious Initiation of a Freely Voluntary Act, in Brain, 1983, 106, pp. 623- 642.
[9] PPM: potenziale di prontezza motoria. Indica la misura dell’attività elettrica rilevabile in certe parti del cervello (la corteccia motoria e l’area motoria supplementare) quando è necessario compiere un movimento.
[10] S. KOSSLYN, Prefazione, in B. LIBET, Il fattore temporale.
[11] A.L.ROSKIES, Esiste la libertà se decidono i nostri neuroni? pag. 52
[12] 5 J. GREENE, J. COHEN, For the law, neuroscience changes nothing and everything, in Phil. Trans. R. Soc. Lond. B , 359, 2004, pp. 1775–1785. In questo senso, v. D. EAGLEMAN, In incognito: la vita segreta del cervello, trad. it., Milano, 2012
[13] J. GREENE, J. COHEN, For the law, neuroscience changes nothing and everything, cit., p. 1781.
[14] La capacità di intendere indica l’idoneità del soggetto a rendersi conto del valore sociale dell’atto che compie, precisando che il rendersi conto del valore sociale del proprio comportamento non ha nulla a che fare con la coscienza della illiceità penale del fatto. Per cui, “non è necessario che l’individuo sia in grado di giudicare che la sua azione è contraria alla legge: basta che possa genericamente comprendere che essa contrasta con le esigenze della vita in comune”.
La capacità di volere, invece, indica l’attitudine del soggetto ad autodeterminarsi, con possibilità di optare per la condotta adatta al motivo che appare più ragionevole e, quindi, di resistere agli stimoli degli avvenimenti esterni, ovvero, più brevemente, “facoltà di volere quello che si giudica doversi fare”. Vi sono, infatti, delle persone che, pur sapendo distinguere il male dal bene, non sono però in grado di agire, cioè, in conformità al proprio giudizio. Queste sono le ipotesi in cui manca la capacità di volere. Negli ultimi decenni, però,  si è sviluppato, al riguardo, un vivace dibattito, in dottrina ed in giurisprudenza, a causa della presenza di questa divisione legislativa tra la capacità di intendere e la capacità di volere, ritenendosi che sia impossibile scindere queste due facoltà mentali, perché “la psiche dell’uomo è infatti una entità fondamentalmente unitaria, per cui le diverse sue funzioni si rapportano l’una all’altra, influenzandosi vicendevolmente”. La capacità di intendere e la capacità di volere sarebbero perciò facoltà mentali strettamente connesse tra loro, per cui, sebbene in teoria i due concetti possono essere distinti uno dall’altro, in concreto difficilmente la compromissione dell’una non si rifletterà sull’altra.
Mentre risulta evidente che si può avere la capacità d’intendere senza quella di volere, è più difficile concepire quest’ultima indipendentemente dalla prima. I rapporti tra le due capacità sono strettissimi, e questo spiega l’atteggiamento del legislatore che richiede, perché un soggetto sia imputabile, il concorso di entrambe le capacità, al momento della commissione del fatto: la mancanza anche di una sola di esse priva il soggetto della capacità naturalistica.
[15] Stolti, stupidi
[16] A.BIANCHI,G.GULOTTA,G.SARTORI,Manuale di neurocienze forensi, Giuffrè editore, p.61
[17] Ibidem, cit, p. 62
[18] S. ALEO, S. DI NUOVO, Responsabilità penale e complessità. Il diritto penale di fronte alle altre scienze sociali. Colpevolezza, imputabilità, pericolosità sociale, Milano, 2011, p. 74-75.
[19] Ibidem, cit., p.77
[20] G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto penale, Parte generale, Bologna, 2019, p. 351; sul punto, sia pur con differenti impostazioni, per un ampio e completo approfondimento, autorevolmente, cfr. T. PADOVANI, Diritto penale, Milano, 2017, p. 227; F. MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, Milanofiori, 2017; A. MANNA, Corso di diritto penale, Parte generale, 4°, Milanofiori, 2017, spec. p. 361 ss.
[21]MILITELLO M., Imputabilità, infermità di mente e disturbi della personalità nella evoluzione giurisprudenziale, in “Diritto e formazione”, XII, 2005, pp. 1601-1608.
[22] Cassazione penale, 10 Gennaio 1984
[23] Cassazione penale, 23 Ottobre 1978
[24] BERTOLINO M., Raccolta di studi di Diritto Penale. Fondata da G. Delitala. Diretta da A. Crespi.. 47: M.Bertolino, L’imputabilità e il vizio di mente nel sistema penale, Giuffrè, Milano, 1990, pp. 396-397.
[25] Crimen et Delictum,V (April 2013) International Journal of Criminological and Investigative Sciences,pp. 98 ss
[26] C. GRANDI,  Sui rapporti tra neuroscienze e diritto penale, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2014, p. 1289
[27] U. FORNARI, A. PENNATI, Il metodo scientifico in psichiatria e psicologia forensi
[28] M. BERTOLINO, Prove neuro-psicologiche di verità penale, in Dir. pen. cont., 8 gennaio 2013, p. 17.
[29] M. BERTOLINO, Il “breve” cammino del vizio di mente. Un ritorno al paradigma organicistico?, in Criminalia, 2008, p. 334 ss.; più di recente, ID., Diritto penale, infermità mentale e neuroscienze, in Criminalia, 2018, p. 3 ss.
[30] https://www.brocardi.it/codice-penale/libro-primo/titolo-iv/capo-i/art90.html
[31] L.SANTAMARIA, Diritto penale e uomo, Diritto penale sospeso tra neuroscienze ancor giovani e una metafisica troppo antica.
[32] Ibidem, cit.

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24 anni Dott.ssa in Legge Tirocinante ex art.73 Corte d'Appello (SA) Praticante Avvocato Segretaria Commissione Pari Opportunità (Baronissi-SA)

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