Nuovo raffreddamento della rivalutazione delle pensioni più elevate

Nuovo raffreddamento della rivalutazione delle pensioni più elevate

Sommario: 1. Premessa – 2. La perequazione: iter legislativo – 3. La posizione della Corte Costituzionale – 4. Aspetti problematici – 5. Osservazioni conclusive

 

1. Premessa

Allo scopo di proteggere il potere di acquisto dei pensionati e garantire loro un tenore di vita adeguato e costante nel tempo, il nostro sistema pensionistico prevede il meccanismo della cosiddetta “perequazione automatica”, un aumento periodico dell’assegno collegato all’inflazione.

L’istituto si pone all’interno della tutela costituzionale apprestata dall’art. 38, comma 2, Cost. in favore dei lavoratori, allorché il legislatore costituente usa il sintagma “mezzi adeguati” e, pertanto, da questo articolo e dalla lettura che costantemente ne hanno dato la Corte Costituzionale[1] e la Corte di Cassazione[2] è opportuno prendere le mosse, per poi chiedersi se tale diritto possa essere modulato da parte del legislatore e in quali termini, ovverosia chiedersi se è possibile una limitazione temporale o quantitativa o per ambito soggettivo di efficacia dello stesso.

Nella Legge di Bilancio 2023 è stata inserita una misura che punta decisamente a modificare il meccanismo della rivalutazione, cambiando la percentuale di rivalutazione in base all’importo della pensione. Le pensioni minime saranno rivalutate, mentre le più alte vedranno più che dimezzate la percentuale di rivalutazione.

In particolare, le pensioni fino a 4 volte il trattamento minimo (2.101,52 euro al mese) sono state rivalutate al 100%, mentre per le pensioni sopra tale soglia, le rivalutazioni diminuiscono all’aumentare dell’assegno.

Le vicende processuali sul blocco e/o riduzione delle rivalutazioni sono ormai note agli addetti ai lavori e non solo, anche se il nuovo raffreddamento delle indicizzazioni disposto dalla legge di bilancio 2023 non ha avuto alcuna diffusione a livello di stampa, radio e televisione; di tal che ne è derivato uno scarso (per non dire inesistente) dibattito.

2. La perequazione: iter legislativo

La perequazione è il termine che identifica la rivalutazione dell’importo pensionistico legato all’inflazione.

L’applicazione della perequazione avviene al primo gennaio di ogni anno; l’adeguamento avviene sulla base degl’incrementi dell’indice annuo dei prezzi al consumo accertati dall’Istat e deve essere effettuato su tutti i trattamenti pensionistici erogati dalla previdenza pubblica.

Tuttavia, l’indicizzazione non si applica allo stesso modo a tutti i trattamenti pensionistici. Infatti, da circa 20 anni è in vigore un meccanismo che prevede l’indicizzazione piena per le pensioni più basse e la rivalutazione parziale per quelle d’importo superiore.

La perequazione automatica delle pensioni è stata introdotta con la L. n. 153/1969: dal primo gennaio di ciascun anno le pensioni erano aumentate, senza alcuna distinzione di importo, in misura pari all’aumento del costo della vita calcolata ai fini della scala mobile. Con la L. n. 160/1975 si aggiunge il legame con le retribuzioni; in particolare, l’art. 3 della L. n. 297/1982 prevedeva un sistema di adeguamento delle pensioni al costo della vita con un contributo dello 0.50% da applicarsi sugli imponibili retributivi annui.

Con la L. n. 730/1983 la perequazione passa da annuale a trimestrale (1° febbraio, 1° maggio, 1° agosto, 1° novembre) sempre in base all’indice del costo della vita calcolato ai fini della scala mobile: il legislatore, al fine di garantire il mantenimento del potere di acquisto delle pensioni in generale, disponeva l’adeguamento dei trattamenti pensionistici agli indici reali di svalutazione (v. art. 21 L. n. 730/1983, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 1984“e art. 24 L. n. 41/1986, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 1986“). La perequazione diventa semestrale (1°maggio e 1° novembre) per effetto della L. n. 41/1986.

Su questa linea, il legislatore per fronteggiare gravi esigenze di contenimento della spesa pubblica ed allo scopo – enunciato nell’art. 1 della L. n. 421/1992 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale) – di stabilizzare il rapporto tra spesa previdenziale e PIL, svincolava i trattamenti pensionistici dall’andamento delle successive retribuzioni e cercava di salvaguardarne nel tempo il potere d’acquisto e l’adeguatezza attraverso il solo meccanismo della perequazione automatica dell’importo alle variazioni del costo della vita.

In attuazione di tale delega, il D.L. vo. n. 503/1992 (Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici a norma dell’articolo 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), disponeva –  all’art. 11 – gli aumenti a titolo di perequazione automatica delle pensioni sulla base del solo adeguamento al costo della vita con cadenza annuale e con effetto dal 1° gennaio di ogni anno, “applicando all’importo della pensione spettante alla fine di ciascun periodo la percentuale di variazione che si determina rapportando il valore medio dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per famiglie di operai e impiegati, relativo all’anno precedente il mese di decorrenza dell’aumento, all’analogo valore medio relativo all’anno precedente”. La stessa norma, nondimeno, rinviava ad ulteriori aumenti eventualmente stabiliti con la legge finanziaria, in relazione all’andamento dell’economia nazionale (previsione mai applicata). Con il D.L. vo. n. 503/1992, pertanto, la perequazione torna annuale (1°novembre) e dall’indice della scala mobile si passa all’indice Istat dei prezzi al consumo per famiglie e operai ed impiegati (FOI) senza tabacchi.

Successivamente, la L. n. 449/1997 (Misure di stabilizzazione della finanza pubblica), all’art. 59, comma 4, disponeva che la perequazione automatica delle pensioni, prevista dal citato articolo 11, costituisse, a decorrere dal 1998, l’unica forma di adeguamento delle prestazioni pensionistiche, “con esclusione di diverse forme, ove ancora previste, di adeguamento anche collegate all’evoluzione delle retribuzioni di personale in servizio”.

E ancora, le modalità di applicazione del meccanismo di rivalutazione delle pensioni venivano definite dall’art. 34 della L. n. 448/1998[3] (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), mentre l’art. 69 della L. n. 388/2000 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2001) fissava la misura entro la quale si applica l’indice di rivalutazione automatica a decorrere dal 1° gennaio 2001 (limitandola al 90%, per le fasce di importo dei trattamenti pensionistici compresi tra tre e cinque volte il trattamento minimo INPS, e al 75% per le fasce di importo superiori a 5 volte il predetto trattamento minimo).

Il D.L. n. 201/2011, come noto, introduceva un blocco temporaneo nel biennio 2012-2013 dell’indicizzazione per le pensioni di importo superiore a tre volte il Tm (cioè 1.405,11 € nel 2011), rivisto poi parzialmente dal D.L. n. 65/2015 per rispondere ai rilievi della sentenza n. 70/2015 della Corte Costituzionale. In tal sede veniva prevista una rivalutazione parziale anche degli assegni inferiori a sei volte il Tm, confermando il blocco totale di quelli superiori a tale soglia[4].

Dal 1° gennaio 2014, la L. n. 147/2013 introduceva un nuovo strumento perequativo che, abbandonando i criteri di progressività, ha optato per una rivalutazione unica applicata direttamente sull’importo complessivo del trattamento pensionistico[5]. Il meccanismo, inoltre, prevedeva indici di perequazione meno favorevoli per i trattamenti superiori a tre volte il Tm[6].

Tali regole sono rimaste in vigore con limitate modifiche sino al 31 dicembre 2021[7]. Il basso tasso di inflazione registrato in quegli anni ha comunque contenuto gli effetti per i pensionati con assegni superiori a tre volte il TM.

Il 31/12/2021[8] sarebbe, dunque, dovuta cessare l’ennesima penalizzazione (di cui alla L. n. 145/2018 e L. n. 160/2019) a danno dei titolari di pensioni (superiori a 3-4 volte il minimo INPS), che ha visto la perequazione di tali pensioni azzerata, o fortemente limitata, in 11 degli ultimi 14 anni, calpestando però fondamentali principi costituzionali (in particolare quelli degli artt. 36 e 38). Dal 1° gennaio 2022, infatti, era tornato in vigore il sistema di perequazione in base alla L. n. 388/2000.

Invece, la legge di bilancio per il triennio 2023/25 ha reintrodotto nuovamente per il 2023/24 il sistema a fasce, tagliando così nuovamente la perequazione per le pensioni sopra 4 volte il minimo.

3. La posizione della Corte Costituzionale

Come abbiamo visto, la perequazione delle pensioni è la rivalutazione annuale degli importi dei trattamenti pensionistici per adeguarli al costo della vita ed ha l’obiettivo di proteggere il potere d’acquisto delle pensioni, mettendole al riparo, almeno in parte, dall’erosione dovuta all’inflazione.

La Corte Costituzionale ha più volte ribadito che, nella prospettiva dell’art. 38, secondo comma, Cost., la perequazione automatica è uno strumento volto a garantire nel tempo l’adeguatezza dei trattamenti pensionistici, dei quali salvaguarda il valore reale al cospetto della pressione inflazionistica[9]. La perequazione è altresì funzionale all’attuazione dei principi di sufficienza e proporzionalità della retribuzione, sanciti dall’art. 36, primo comma Cost.; ciò senza che possa tuttavia configurarsi un rigido parallelismo tra la garanzia di cui all’art. 38 Cost. e quella di cui all’art. 36 Cost., tenuto conto che la prima è agganciata alla seconda <<non in modo indefettibile e strettamente proporzionale>>[10].

La Corte Costituzionale ha altresì evidenziato che, per le sue caratteristiche di neutralità e obiettività, e per la sua strumentalità rispetto all’attuazione dei suddetti principi costituzionali, <<la tecnica della perequazione si impone, senza predefinirne le modalità, sulle scelte discrezionali del legislatore, cui spetta intervenire per determinare in concreto il quantum di tutela di volta in volta necessario>> [11].

A tal proposito, giova ricordare che nella scelta del meccanismo perequativo da utilizzare, il legislatore gode di una certa discrezionalità, atteso che il combinato disposto degli articoli 36 e 38 Cost. impone il raggiungimento del fine (adeguamento delle pensioni all’incremento del costo della vita), senza imporre una particolare modalità attuativa del principio indicato. Appartiene, infatti, alla discrezionalità del legislatore stabilire nel concreto le variazioni perequative dell’ammontare delle prestazioni, attraverso un bilanciamento di valori che tenga conto anche delle esigenze di bilancio, poiché l’adeguatezza e la proporzionalità del trattamento pensionistico incontrano pur sempre il limite delle risorse disponibili [12].

In linea generale, ogni misura di blocco o limitazione della rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici <<non può che essere scrutinata nella sua singolarità e in relazione al quadro storico in cui si inserisce>>[13].

Sul punto, la Corte ha precisato che <<non può ipotizzarsi, di per sé, una sorta di “consumazione” del potere legislativo dovuta all’effettuazione di uno o più interventi riduttivi della perequazione, ma il nuovo e ulteriore intervento è comunque legittimo ove risulti conforme ai principi di ragionevolezza, proporzionalità e adeguatezza, sulla base di un giudizio non limitato al solo profilo della reiterazione, bensì inclusivo di tutti gli elementi>> [14]. Invero, <<dev’essere riconosciuta al legislatore – all’interno di un disegno complessivo di razionalizzazione della precedente riforma previdenziale – la libertà di adottare misure di concorso solidaristico al finanziamento di un riassetto progressivo delle pensioni di anzianità, onde riequilibrare il sistema a costo invariato>>[15].

In realtà, tutti i provvedimenti diretti alla riduzione od alla sospensione dei trattamenti economici spettanti ai soggetti titolari di trattamento di pensione sono giustificati da ragioni di finanza pubblica e di contenimento della spesa, le quali confluiscono anche nel principio del pareggio di bilancio, elevato a rango costituzionale e contenuto nell’art. 81 Costituzione[16].

Sebbene non esista un principio costituzionale che possa garantire l’adeguamento costante delle pensioni al successivo trattamento economico dell’attività di servizio corrispondente, il legislatore è comunque tenuto ad individuare meccanismi che assicurino la perdurante adeguatezza delle pensioni all’incremento del costo della vita. Infatti, per scongiurare il verificarsi di “un non sopportabile scostamento” fra l’andamento delle pensioni e delle retribuzioni, il legislatore non può eludere il limite della ragionevolezza[17]e, in ogni caso, deve ispirarsi ai principi costituzionali di cui agli artt. 36, co. I, e 38 co. II, Costituzione [18] .

Pertanto, il criterio di ragionevolezza, così come delineato dalla citata giurisprudenza della Corte in relazione ai principi contenuti negli artt. 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., circoscrive la discrezionalità del legislatore e vincola le sue scelte all’adozione di soluzioni coerenti con i parametri costituzionali. Difatti, la discrezionalità legislativa deve osservare un vincolo di ragionevolezza, innestato su <<un progetto di eguaglianza sostanziale, conforme al dettato dell’art. 3, secondo comma, Cost.>>.

Nella prospettiva della discrezionalità del legislatore, si è affermato il principio di adeguatezza enunciato nell’art. 38, secondo comma, Cost. non determina la necessità costituzionale dell’adeguamento annuale di tutti i trattamenti pensionistici, né d’altronde la mancata perequazione per un solo anno incide, di per sé, sull’adeguatezza della pensione[19].

A simile principio, però, pare essersi data un’applicazione distorta, dal momento che oramai è sempre più frequente che un provvedimento legislativo, all’apparenza transitorio e giustificato da ragioni di finanza pubblica, dichiarato di natura eccezionale o straordinaria, finisca per divenire strutturale, in quanto reiterato nel corso del tempo con i successivi interventi normativi.

Ne discende che la pur ampia discrezionalità in materia <<non esclude la necessità di verificare nel merito le scelte di volta in volta operate dal legislatore riguardo ai meccanismi di rivalutazione dei trattamenti pensionistici, quale che sia il contesto giuridico e di fatto nel quale esse si inseriscono>>[20].

Nell’ambito di questa verifica assume un ruolo essenziale la considerazione differenziata dei trattamenti di quiescenza in base al loro importo, atteso che le pensioni più elevate presentano margini più ampi di resistenza all’erosione inflattiva, e <<l’esigenza di una rivalutazione sistematica del correlativo valore monetario è, dunque, per esse meno pressante di quanto non sia per quelle di più basso importo>>[21].

Pertanto, secondo la Corte, facendo riferimento all’entità del trattamento, <<il legislatore soddisfa un canone di non irragionevolezza che trova riscontro nei maggiori margini di resistenza delle pensioni di importo più elevato rispetto agli effetti dell’inflazione>>[22].

4. Aspetti problematici della nuova normativa

Nel 2022 è tornata la rivalutazione per scaglioni d’importo (cioè progressiva) ma il nuovo corso ha avuto vita breve. La legge n. 197/2022 ha, infatti, ripristinato per il biennio 2023-2024 la rivalutazione sull’importo complessivo del trattamento.  Attualmente il modulo di perequazione (art. 1, co. 235 della legge n. 197/2022) è il seguente:

  • 100% per i trattamenti pensionistici sino a quattro volte il Tm;

  • 85% per i trattamenti pensionistici compresi tra quattro e cinque volte il Tm;

  • 53% per i trattamenti pensionistici compresi tra cinque e sei volte il Tm;

  • 47% per i trattamenti compresi tra sei e otto volte il Tm;

  • 37% per i trattamenti compresi tra otto e dieci volte il Tm;

  • 32% per i trattamenti superiori a dieci volte il Tm.

Con la manovra del 2023 (L. n. 197/2022) è stata dunque prevista l’introduzione per il biennio 2023 – 2024 di sei fasce di rivalutazione a seconda dell’importo del trattamento pensionistico. Inoltre, viene ripristinato il meccanismo della rivalutazione sull’importo complessivo del trattamento e non più a scaglioni, un sistema più penalizzante per le pensioni più elevate (in questo sistema di calcolo il reddito viene suddiviso in più scaglioni, ad ognuno dei quali si applica un’aliquota via via crescente).

L’intervento costituisce l’ulteriore atto di una sequenza ininterrotta di provvedimenti che, secondo modalità diverse ma rispondenti ad una omologa ratio ispiratrice, hanno sistematicamente compresso (e talora del tutto escluso) la perequazione dei trattamenti pensionistici di maggior importo a partire dall’anno 2012: la situazione determinata con la legge di bilancio 2023 porta a consolidare detta contrazione per oltre un decennio (2012/2024).

Va, infine, ricordato che sulle pensioni più alte hanno pesato anche, negli importi mensili annui dal punto di vista netto, i due contributi di solidarietà introdotti negli anni 2014/16 e 2014/21.

In un contesto caratterizzato da sostanziosi impulsi inflazionistici, pertanto, si presenta di rilevante portata quanto disposto art. 1, co. 235 della legge n. 197/2022 relativamente al meccanismo di perequazione dei trattamenti pensionistici per il biennio 2023-24.

Discostandosi dalla vigente normativa che dopo anni di modifiche ed andamenti a stop and go puntava ad una semplificazione e stabilizzazione del meccanismo di indicizzazione ai prezzi, il legislatore rinuncia ai tre scaglioni di reddito pensionistico che avrebbero determinato, in una logica di progressività/regressività, gli adeguamenti degli assegni e dispone un meccanismo articolato su sei fasce di reddito, con una copertura decrescente fino ad un minimo del 32 per cento del tasso di inflazione.

Va innanzitutto osservato che, i pur modesti incrementi, non vengono attivati con riferimento agli scaglioni, così come previsto dall’Irpef, ma in funzione della fascia in cui l’importo totale della pensione si colloca. Per cui l’incremento incide su tutta la cifra, non recuperando gli incrementi maggiori per gli importi sottostanti.

Va, poi, considerato che l’effetto restrittivo si cumula nel tempo, dal momento che l’indicizzazione del futuro sarà applicata ad importi più ridotti di quanto sperato e correttamente dovuto negli ultimi due anni.

La perdita è quindi strutturale e crescente, impedendo qualsiasi ristoro a fronte di una inflazione galoppante che falcidia fortemente proprio i pensionati che non hanno possibilità di recupero.

5. Osservazioni conclusive

In materia pensionistica le scelte degli ultimi anni potrebbero dare l’impressione che si stia rinunciando a costruire un sistema previdenziale imperniato su regole stabili, certe, di lunga durata; quasi come se si preferisse intervenire di volta in volta con provvedimenti ad hoc, tarati sulla base di specifiche circostanze e condizionati, spesso e inevitabilmente, dalla congiuntura macro-finanziaria.

Nella verifica di ragionevolezza sugli interventi limitativi della perequazione viene in rilievo, oltre al dato quantitativo, anche quello economico- finanziario che motiva la scelta del legislatore, poiché il sacrificio dell’interesse dei pensionati alla conservazione del potere di acquisto degli assegni, in particolar modo dei più modesti, non può dirsi ragionevole quando esigenze finanziarie sottese all’intervento di limitazione della rivalutazione siano <<non illustrate in dettaglio>>[23].

Occorre quindi una motivazione sostenuta da valutazioni della situazione finanziaria basate su dati oggettivi, emergenti, ad esempio, dalle relazioni tecniche di accompagnamento delle misure legislative[24].

Difatti, se è vero che la garanzia costituzionale della adeguatezza e della proporzionalità del trattamento pensionistico incontra il limite delle risorse disponibili al quale il Governo ed il Parlamento devono uniformare la legislazione di spesa, è altrettanto vero che la sospensione a tempo indeterminato del meccanismo perequativo, ovvero la frequente reiterazione di misure intese a paralizzarlo, esporrebbero il sistema ad evidenti tensioni con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità, perché “…le pensioni, sia pure di maggiore consistenza, potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione ai mutamenti del potere d’acquisto della moneta” [25].

In altri termini, se da un lato l’eccezionalità della situazione economica che lo Stato deve affrontare è suscettibile di consentire il ricorso a strumenti eccezionali, nel difficile compito di contemperare il soddisfacimento degli interessi finanziari e di garantire i servizi e la protezione di cui tutti cittadini necessitano, dall’altro ciò non può e non deve determinare un’obliterazione dei fondamentali canoni di uguaglianza, sui quali si fonda l’ordinamento costituzionale[26].

Poiché l’istituto della perequazione automatica mira non già ad arricchire ovvero premiare i fruitori di una pensione d’anzianità, bensì ad adeguare la pensione percepita al costo della vita, è indubbio che il mancato adeguamento del trattamento pensionistico si traduce in un’immediata perdita del potere d’acquisto, causata dalla esposizione al rischio inflattivo degli assegni erogati. Ciò anche in considerazione dell’effetto di “trascinamento”, che rende sostanzialmente definitiva anche una perdita temporanea del potere di acquisto del trattamento di pensione, atteso che <<le successive rivalutazioni saranno, infatti, calcolate non sul valore reale originario, bensì sull’ultimo importo nominale, che dal mancato adeguamento è già stato intaccato>>[27].

In tal modo si cerca di evitare che una generalizzata esigenza di contenimento della finanza pubblica possa risultare sempre e comunque valido motivo per determinare la compromissione di diritti maturati e/o la lesione di consolidate sfere di interessi, sia individuali, sia anche collettivi[28].

Su un piano più generale, occorre tuttavia evidenziare come ogni prelievo di solidarietà debba fondarsi su ragioni in grado di giustificarlo e come il ripetersi delle misure faccia emergere l’esistenza di una debolezza sistemica, difficilmente governabile per il tramite di interventi necessariamente temporanei, per di più operati soltanto su redditi pensionistici, <<ormai consolidati nel loro ammontare, collegati a prestazioni lavorative già rese da cittadini che hanno esaurito la loro vita lavorativa, rispetto ai quali non risulta più possibile neppure ridisegnare sul piano sinallagmatico il rapporto di lavoro>> (sentenza n. 116 del 2013).

In buona sostanza, dal principio dell’equilibrio di bilancio non si può dedurre automaticamente un lasciapassare al libero arbitrio della politica nello stabilire a chi farne pagare il prezzo.

La parità di bilancio non può comportare un regresso indiscriminato e non motivato della tutela dei diritti di sicurezza sociale, siano essi in atto o in potenza.

Si deve prefigurare da parte del legislatore, che tempo per tempo è chiamato a intervenire nella materia, una valutazione di breve, medio e lungo periodo del diritto da sacrificare, nella sua assolutezza e in rapporto con altri diritti facenti parte del sistema di sicurezza sociale o facenti parti di altri micro sistemi, al fine di comporre una scala di priorità in equilibrio instabile che muti con il mutare delle esigenze perseguite dal legislatore e delle risorse disponibili, ma che non comporti sempre e comunque il sacrificio di un sistema di diritti, sol perché all’interno di essi è più facile attuare nel breve periodo i risparmi di spesa o reperire le necessarie risorse economiche.

È predicabile in via d’urgenza il reperimento di risorse o l’attuazione di risparmi di spesa in settori dell’ordinamento ove è più immediato e facile attuarli, ma non si può immagine, o un’urgenza perenne o che, una volta usciti dall’urgenza, tale metodo diventi ordinario per assicurare il principio di parità di bilancio, senza approntare politiche di medio e lungo periodo che garantiscano il reperimento di risorse o i risparmi di spesa costante nel tempo. Tale ragionamento condotto all’interno della nostra materia giustifica da un verso l’utilizzo di misure contingenti e straordinarie a condizione che le stesse non siano reiterate in tempi ristretti e diventino strumento ordinario di governo del sistema di sicurezza sociale, che garantiscano la riduzione della spesa pensionistica. Da altro verso l’utilizzo di misure strutturali che, sulla scorta delle risorse disponibili, rimodulino il modello di sicurezza sociale a regime, così evitando interventi plurimi, reiterati e spesso inconcludenti o strutturalmente contrapposti, in brevi lassi temporali.

Sul punto, è utile rammentare che la proiezione triennale della manovra finanziaria pubblica ha costituito un parametro di accertamento dell’illegittimità costituzionale del “blocco” della contrattazione collettiva nel pubblico impiego, in base alla riscontrata specularità con la dinamica triennale delle tornate contrattuali[29].

Nell’ambito strettamente previdenziale, è poi evidente la tendenza dell’ordinamento a non proiettare oltre il triennio valutazioni e determinazioni cui si addice uno spazio di osservazione più circoscritto, come testimonia l’evoluzione della disciplina del coefficiente di trasformazione del montante individuale dei contributi, di cui all’art. 1, co.11, L. n. 335/1995, la cui dimensione temporale è stata infatti ridotta da dieci anni a tre (art. 1, co. 15, L. n. 247/2007), prima di essere ulteriormente limitata a due anni per gli aggiornamenti successivi a quello decorrente dal 1° gennaio 2019 (art. 24, co. 16, D.L. n. 201/2011, recante “Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici”, convertito, con modificazioni, nella L. n. 214/2011).

Oltre a quella relativa al calcolo del trattamento pensionistico di prima liquidazione, gioverebbe offrire una disciplina più stabile e rigorosa anche al meccanismo di perequazione. Regole più stabili e meno soggette a cambiamenti improvvisi potrebbero anche avere effetti benefici sui comportamenti di spesa delle famiglie incidendo sulle aspettative circa il loro reddito disponibile futuro.

 

 

 

 

 


[1] V. Corte Costituzionale, sentenza 05/02/1986, n. 314, la quale ritiene che il legislatore, utilizzando l’espressione “mezzi adeguati”, abbia voluto garantire “non soltanto la soddisfazione dei bisogni alimentari, di pura «sussistenza» materiale bensì anche il soddisfacimento di ulteriori esigenze relative al tenore di vita dei lavoratori. Le prestazioni previdenziali adeguate alle esigenze dei lavoratori ben possono pertanto, essere differenziate tra le diverse categorie dei medesimi…se ci si riferisce all’art. 38, comma 2, Cost. non è legittimo richiedere, una determinazione quantitativa unica, uniforme, per tutti i lavoratori, in quanto l’oggetto della valutazione che conduce al giudizio di adeguatezza dei mezzi alle esigenze di vita può riguardare anche la posizione economico-sociale delle diverse categorie di lavoratori, i rischi volontariamente assunti o comunque incombenti, i redditi conseguiti durante l’attività lavorativa ecc.: la valutazione ora indicata può ben condurre a determinazioni quantitativamente diversificate delle prestazioni previdenziali”. Sul tema, v. anche Corte Costituzionale, sentenza 05/06/2013, n. 116, in Riv. dir. tributario, 2013, n. 6, 309 e ss., con nota di R. SUCCIO, Quando l’illegittimità costituzionale è annunciata: la Consulta cancella il prelievo sulle cd. “pensioni d’oro”, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma, art. 18, comma 22 bis, decreto legge n. 98/2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 111/2011, come modificato dall’art. 24, comma 31 bis, decreto legge n. 201/2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214/2011, che applicava sui trattamenti pensionistici di fonte pubblica i cui importi complessivamente superino 90.000 euro lordi annui un “contributo di perequazione” pari al 5 per cento della parte eccedente il predetto importo fino a 150.000 euro, nonché pari al 10 per cento per la parte eccedente 150.000 euro e al 15 per cento per la parte eccedente i 200.000 euro. Il giudice delle leggi ha ritenuto la natura tributaria del prelievo e un intervento impositivo irragionevole e discriminatorio ai danni di una sola categoria di cittadini. L’intervento riguarda, continua la Corte, i soli pensionati, senza garantire il rispetto dei principi fondamentali di uguaglianza a parità di reddito, attraverso una irragionevole limitazione della platea dei soggetti passivi. La dottrina che aveva commentato l’intervento legislativo del 2011 osservò, con riguardo al blocco della perequazione automatica, che “la reiterazione a così breve distanza di tempo del blocco della perequazione automatica non può non richiamare all’attenzione il monito espresso dalla Corte costituzionale, quando con la sentenza n. 316/2010, detta Corte ha avvertito come la frequente reiterazione di misure di blocco del meccanismo di adeguamento delle pensioni possa esporre “il sistema ad evidenti tensioni con gli invalicabili limiti di ragionevolezza e proporzionalità, cfr. M. CINELLI, La riforma delle pensioni del “Governo tecnico”. Appunti sull’art. 24 della legge n. 214 del 2011, in Riv. italiana dir. lav., 2012, I, 385 e ss., in specie 391.
[2] Cfr. Cassazione civ., sentenza 21/05/2015, n. 10455, secondo cui “dalla norma costituzionale discende una tutela effettiva, costituzionalmente vincolata, del diritto alla previdenza, considerato alla stregua di un diritto fondamentale, imprescrittibile e irrinunciabile … Il diritto alla previdenza pone riparo allo stato di bisogno del lavoratore e della sua famiglia (cfr. C. Cost. 926/1988) in conseguenza di una serie di eventi idonei ad incidere sulla capacità lavorativa e sulla possibilità di produrre reddito, ma inoltre garantisce un quid pluris volto a tener conto, almeno parzialmente del “merito” che dal lavoro (ma anche dalla contribuzione) deriva e che trova riscontro nel tenore di vita raggiunto dal lavoratore alla conclusione della sua vita lavorativa. In definitiva…il secondo comma dell’art. 38 garantisce ai lavoratori “non soltanto la soddisfazione dei bisogni alimentari di pura sussistenza materiale, bensì anche il soddisfacimento di ulteriori esigenze relative al tenore di vita” “consentito da un pregresso reddito di lavoro, per cui solo per queste ultime è possibile far capo al parametro dell’art. 36, primo comma” (v. C. Cost. 196/1993).
[3] In base al meccanismo stabilito dall’art. 34, comma 1, della L. n. 448/1998 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), la perequazione automatica si applica in via cumulata e in funzione dell’importo complessivo dei trattamenti del singolo beneficiario. In altri termini, ai fini dell’individuazione dell’indice di perequazione da attribuire, si prende a riferimento il reddito complessivo derivante dal cumulo dei trattamenti erogati dall’Inps nel Casellario Centrale dei Pensionati, per ciascun pensionato.
[4] V. Corte Costituzionale, sentenza n. 250/2017, la quale ha riconosciuto legittimo il D.L. n. 65/2015 poiché «ha introdotto una nuova non irragionevole modulazione del meccanismo che sorregge la perequazione, la cui portata è stata ridefinita compatibilmente con le risorse disponibili». Per un approfondimento, v. La perequazione automatica delle pensioni e i vincoli di bilancio: il legislatore e la Corte Costituzionale, di Antonino Sgroi, 12/06/2015, in Consulta Online – periodico telematico – 2015 Fasc. II (estratto).
[5] Legge 27 dicembre 2013, n. 147 – Legge di stabilità 2014, art. 1 comma 483: Per il triennio 2014-2016 la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall’articolo 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, è riconosciuta: […] e) nella misura del 40 per cento, per l’anno 2014, e nella misura del 45 per cento, per ciascuno degli anni 2015 e 2016, per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a sei volte il trattamento minimo INPS con riferimento all’importo complessivo dei trattamenti medesimi e, per il solo anno 2014, non è riconosciuta con riferimento alle fasce di importo superiori a sei volte il trattamento minimo INPS […].
[6] Cfr. Corte Costituzionale, sentenza 13/07/2016, n. 173, e precisamente al n. 6 della motivazione, in cui la Corte così testualmente scrive: “È pur vero, infatti, che la limitazione della rivalutazione monetaria dei trattamenti pensionistici, per il biennio 2012-2013, di cui al citato art. 24, comma 25, del d. l. n. 201 del 2011 è stata dichiarata costituzionalmente illegittima con sentenza di questa Corte n. 70 del 2015. Ma questa stessa sentenza (al punto 7 del Considerato in diritto ) ha sottolineato come da quella norma (prevedente un “blocco integrale” della rivalutazione per le pensioni di importo superiore a tre volte il minimo) si “differenzi” (non condividendone, quindi, le ragioni di incostituzionalità) l’art. 1, comma 483, della legge 147 del 2013, il quale viceversa, «ha previsto, per il triennio 2014-2016, una rimodulazione nell’applicazione della percentuale di perequazione automatica sul complesso dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo di cui all’art. 34, comma 1, della legge n. 448 del 1998, con l’azzeramento per le sole fasce di importo superiore a sei volte il trattamento minimo INPS e per il solo anno 2014», ispirandosi «a criteri di progressività, parametrati sui valori costituzionali della proporzionalità e della adeguatezza dei trattamenti di quiescenza»”.
[7]  Con la successiva legge di stabilità del 2016 (L. n. 208/2015, art. 1, comma 286), il nuovo meccanismo viene prorogato ed esteso anche per gli anni 2017 e 2018.
[8]  In particolare, v. Corte Costituzionale, sentenza 09/11/2020, n. 234, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 261, della L. n. 145/2018 nella parte in cui stabilisce la riduzione dei trattamenti pensionistici ivi indicati per <<la durata di cinque anni>> anziché <<per la durata di tre anni>>, declaratoria dalla quale è conseguita la cessazione del prelievo al 31 dicembre 2021. La Corte, pertanto, con un intervento di tipo sostitutivo, ha determinato una riduzione dell’efficacia temporale della misura: la durata quinquennale prevista originariamente dal legislatore è stata sostituita con la previsione di una durata triennale. Sul tema, cfr. Le c.d. “pensioni d’oro” tra il “raffreddamento” della rivalutazione e il contributo di solidarietà (considerazioni a margine della sentenza della Corte Costituzionale n. 234 del 2020), di Eleonora Canale, in Diritto & Conti – anticipazioni sul n. 1/21 della rivista dirittoeconti.it – v. anche Nota a prima lettura della sentenza della Corte Costituzionale n. 234 del 2020: legittimo il raffreddamento della perequazione per le pensioni più elevate ed illegittima la durata quinquennale del contributo di solidarietà, di Clemente Forte e Marco Pieroni, in Forum di quaderni costituzionali – rassegna, 1, 2021 – www.forumcostituzionale.it
[9]  Cfr. Corte Costituzionale, sentenze n. 250/2017; n. 70/2015 e n. 234/2020.
[10] Cfr. Corte Costituzionale, sentenze n. 250/2017 e n. 173/2016.
[11] Cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 70/2015.
[12] V. Corte Costituzionale, sentenza n. 316/2010 e ordinanza n. 256/2001.
[13] V. Corte Costituzionale, sentenza n. 250/2017.
[14] V. Corte Costituzionale, sentenza n. 234/2020.
[15] Cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 316/2010.
[16] V. Corte Costituzionale, ordinanza 21/07/1990, n. 401, la quale già nel lontano 1990 ebbe modo di sottolineare la discrezionalità del legislatore negli interventi per il miglioramento e la perequazione dei trattamenti pensionistici, “i quali si realizzano con la gradualità imposta da scelte di politica sociale ed economica, in considerazione anche delle esigenze di bilancio e delle finalità di risanamento e ripianamento delle gestioni previdenziali” .
[17]Cfr. Corte Costituzionale, sentenze n. 226/1993 e n. 316/2010.
[18] V. Corte Costituzionale, sentenza n. 70/2015: “…il rispetto dei parametri citati si fa tanto più pressante per il legislatore, quanto più si allunga la speranza di vita e con essa l’aspettativa, diffusa fra quanti beneficiano di trattamenti pensionistici, a condurre un’esistenza libera e dignitosa, secondo il dettato dell’art. 36 Cost.”.
[19] Così, Corte Costituzionale, sentenze n. 250/2017 e n. 316/2010.
[20] Così, Corte Costituzionale, ordinanza n. 96/2018.
[21] Cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 316/2010.
[22] Cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 250/2017.
[23] Cfr. Corte Costituzionale sentenza n. 70/2015.
[24] Cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 250/2017.
[25] Cfr. Corte Costituzionale, sentenza 17/11/2010, n. 316.
[26] Cfr. Corte Costituzionale, sentenza 17/10/2012, n. 223.
[27] Cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 70/2015.
[28] Cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 92/2013.
[29] Cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 178/2015.

Sitografia
Blocco della perequazione: profili di illegittimità costituzionale (leggioggi.it)

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