Oneri fiscali e proprietà immobiliare: è ammissibile la rinunzia abdicativa al diritto di proprietà?

Oneri fiscali e proprietà immobiliare: è ammissibile la rinunzia abdicativa al diritto di proprietà?

È ancora acceso il dibattito dottrinale/giurisprudenziale sul tema della rinunziabilità al diritto di proprietà, querelle che – lungi dal limitarsi ad implicazioni su un piano meramente teorico – a ben vedere è intrisa di riflessi lato sensu politici.

Di fatti, è tranciante il disposto di cui all’articolo 827 del nostro codice civile nell’affermare che “I beni immobili che non sono in proprietà di alcuno spettano al patrimonio dello Stato”. Che la disposizione in parola abbia inteso sottintendere un’implicita rinunziabilità al diritto di proprietà da parte del dominus resta ancora questione controversa. Ad una prima lettura sembrerebbe che il legislatore nazionale abbia voluto colmare una lacuna normativa allo scopo di chiarire, mosso da un’esigenza di certezza nei traffici giuridici, la riconducibilità di beni immobili apparentemente non appartenenti ad alcuno. La stessa ratio che sottintenderebbe l’articolo 923 del codice nel sancire quella modalità di acquisto della proprietà a titolo originario delle “cose mobili che non sono proprietà di alcuno”. E, com’è ben noto, nel novero delle “cose mobili che non sono di proprietà di alcuno” rientrano pacificamente tanto le res nullius originariamente tali – beni che non hanno mai formato oggetto di diritto di proprietà -, tanto quelle res derelictae divenute nullius per abbandono. D’altronde, se la stessa regola non valesse anche per i beni immobili, il nostro articolo 827 non avrebbe senso di esistere, anche in considerazione del fatto che, con riferimento al caso ben specifico di vacanza di beni ereditari, il nostro ordinamento già contempla una norma ad hoc – l’articolo 586 cod. civ. – atta a stabilite la devoluzione ex lege allo Stato dell’eredità che manchi di “altri successibili”.

Ancor più eloquente è il disposto di cui all’articolo 2643 cod. civ. il quale, nell’individuare quali siano gli atti soggetti a trascrizione, pone menzione – al numero 5 – agli “atti tra vivi di rinunzia ai diritti menzionati nei numeri precedenti” ove tra i “diritti menzionati nei numeri precedenti” figurano altresì i “contratti che trasferiscono la proprietà di beni immobili”.

Al riguardo, non possiamo esimerci dal considerare il dictum del TAR Piemonte il quale, nel negare la configurabilità di una qualche rinunzia abdicativa al diritto di proprietà sugli immobili, pur riconoscendo il pregio della tesi possibilista che poggia sull’argomento letterale di cui all’art. 2643 citato, ne fornisce un’interpretazione restrittiva limitata a particolari “atti tra vivi” finalizzati sottrarre efficacia a precedenti contratti che abbiano costituito, modificato o trasferito diritti reali immobiliari.

Ad essi conseguirebbe – si legge nella sentenza n. 368/2018 del Giudice amministrativo – il riacquisto automatico del diritto di proprietà in capo all’originario alienante/controparte contrattuale del rinunziante. Stessa sorte che toccherebbe all’articolo 1350 cod. civ. che, con una dizione non dissimile, prescrive la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata ad substantiam altresì con riguardo agli “atti di rinunzia” alla proprietà di beni immobili.

Ma vi è di più. Il TAR Piemonte contesta altresì quell’ulteriore disposizione, tipicamente invocata dai “possibilisti”, atta a precludere al condomino la possibilità di rinunziare al proprio diritto sulla cosa comune. Invero, ad avviso del Collegio, il divieto di cui all’articolo 1118, comma 2, cod. civ., lungi dal sottendere una generale rinunziabilità alla proprietà, si giustificherebbe alla luce di quel principio, sancito all’articolo 1104, comma 1, che impone a ciascun partecipante al condominio di contribuire nelle spese necessarie alla conservazione e al godimento della cosa comune e nelle spese deliberate dalla maggioranza “salva la facoltà di liberarsene con la rinunzia al suo diritto”. In tale fattispecie – prosegue il collegio sulla scorta della tradizionale giurisprudenza civile – il bene immobile oggetto di rinunzia non rimarrebbe acefalo, dal momento che si determinerebbe un automatico accrescimento del diritto dei comproprietari sui quali, per converso, graverebbe altresì un carico di spese maggiore.

E’ pur vero però, si potrebbe argomentare di tutta risposta, che anche in caso di rinunziabilità al diritto di proprietà da parte del privato il bene immobile in oggetto non rimarrebbe “acefalo”, per utilizzare la stessa dizione del Giudice amministrativo. Ad una tale situazione ovvierebbe, infatti, il disposto di cui all’articolo 827 cod. civ., con il risultato che lo Stato, al pari dei condomini, sconterebbe un accrescimento del proprio patrimonio immobiliare a fronte dei conseguenti oneri di gestione e manutenzione del bene, oltre che del connesso regime di responsabilità obiettiva a titolo di custodia e per rovina di edificio.

E ancora, argomentando a contrario proprio sulla scorta del dettato di cui all’articolo 1118, comma 2, cod. civ., sembrerebbe potersi ravvisare una tendenza del legislatore nazionale a regolare, o meglio individuare, espressamente le fattispecie in cui il diritto di rinuncia del privato sia escluso o limitato. Si pensi semplicemente all’emblematico articolo 2937 cod. civ. sulla “Rinunzia alla prescrizione”.

A sostegno dei già menzionati “possibilisti” si è invece espressa l’Avvocatura Generale dello Stato indagando, più precipuamente, in ordine alla meritevolezza, o meglio alla liceità della causa dell’atto dismissivo della proprietà immobiliare.

In breve, il negozio abdicativo risulterebbe privo di taluno degli elementi richiesti ai fini della validità, ai sensi dell’art. 1418 comma 2 del codice, nell’ipotesi in cui costituisse un mero veicolo al fine di conseguire un illecito vantaggio ai danni dell’Erario e, di riflesso, della collettività tutta.

In altri termini, il parere del 14 marzo 2018 nega, fondamentalmente, la possibilità per il privato di stipulare un atto unilaterale di rinuncia alla proprietà immobiliare che sia guidato esclusivamente da scopi egoistici che mal si concilierebbero con il dovere di solidarietà costituzionalmente sancito, giungendo persino ad ammettere un eventuale ricorso allo strumento della C.T.U. al fine di accertare lo stato di conservazione del bene.

La ragione è presto detta: al cospetto di un bene immobile il cui stato manutentivo non fosse ottimale sarebbe possibile addurre, presuntivamente, che lo scopo ultimo della rinunzia sia quello di accollare allo Stato i costi necessitati e la gestione della res.

Ma non è forse parimenti vero che le rinunzie dei privati consentirebbero all’Erario di incrementare il proprio “portafoglio immobiliare”? E ciò non può che costituire un vantaggio. Sarebbe come ritenere a priori sconveniente la stipula di un contratto di compravendita immobiliare unicamente nella misura in cui l’acquisto possa comportare di far fronte alle spese per la ristrutturazione del fabbricato. O, ancor peggio, alle spese per la gestione e manutenzione dell’immobile.

Non si comprende peraltro l’ulteriore considerazione dell’Avvocatura dello Stato la quale, nell’affrontare l’aspetto del regime di responsabilità extracontrattuale applicabile al rinunziante, ritiene che costui risponderebbe “permanentemente”, pur a seguito e nonostante il negozio abdicativo, dei danni cagionati dall’immobile con la propria condotta omissiva sostanziantesi nell’essersi sottratto ai doverosi interventi manutentivi.

Posto che non vi è ragione alcuna per negare che lo Stato, a seguito della rinunzia, possa esercitare un’azione di regresso nei confronti del rinunciante, il riferimento al regime di responsabilità sancito agli articoli 2051 (“Danno cagionato da cosa in custodia”) e 2053 (“Rovina di edificio”) del codice non appare del tutto corretto. Da un lato l’articolo 2051 presuppone che “custode” sia colui il quale abbia un potere, anche di fatto, di vigilanza e di controllo sulla res, difettando quindi nel caso del rinunziante il necessario presupposto della materiale disponibilità dell’immobile. Dall’altro lato, la responsabilità per rovina di cui all’art. 2053 del codice è volta a sanzionare “il proprietario” della costruzione in oggetto, tant’è vero che fa salva espressamente la prova che la rovina medesima sia derivata da “difetto di manutenzione” o vizio di costruzione.

È chiaro che la tematica dell’ammissibilità (e delle relative conseguenze) dell’istituto della rinunzia in tema di proprietà immobiliare si riveli ad oggi ancora una questione aperta.  Resta da chiedersi se “entro i limiti” nell’“osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico”, ammessi dal fondamentale articolo 832 cod. civ., possa residuare uno spazio a favore di una negazione del diritto di rinunziare alla proprietà immobiliare, negazione che, a propria volta ed inevitabilmente, comprimerebbe quel “diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo” riconosciuto al dominus.


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