Per la Cassazione è valido il testamento olografo redatto da persona affetta da bipolarismo

Per la Cassazione è valido il testamento olografo redatto da persona affetta da bipolarismo

Cass. civ., Sez. VI-2, ord. 22 gennaio 2019, n. 1682

Con l’ordinanza n. 1682 del 22 gennaio 2019, la Corte di Cassazione si è pronunciata nel senso della validità del testamento redatto da persona affetta da disturbo bipolare, in quanto tale condizione non determina un assoluto stato di incoscienza né la perdita della capacità di autodeterminazione del soggetto. La Corte ha altresì ribadito che la prova dello stato di incapacità naturale, ai sensi dell’art. 428 c.c., incombe sulla parte che domandi l’annullamento del testamento.

Il caso sottoposto all’esame della giurisprudenza è il seguente. Tizia conveniva in giudizio, davanti al Tribunale di Tempio Pausania, il fratello Caio per sentir dichiarare l’accertamento della nullità dei due testamenti olografi del padre Sempronio, redatti rispettivamente nel 2002 e nel 2005 e debitamente pubblicati per atto notarile e, per l’effetto, sentir dichiarare inoperante la successione testamentaria di Sempronio in favore dell’apertura della successione legittima. A sostegno delle sue domande, Tizia ha asserito la nullità dei predetti olografi, ai sensi dell’art. 591, comma 3, c.c., poiché il de cuius si sarebbe trovato in stato di incapacità di intendere o di volere determinato da disturbo bipolare, di cui era affetto sin dagli anni ’90.

Con sentenza n. 264 del 2010, il Tribunale rigettava la domanda dell’attrice, sul presupposto che il de cuius, pur affetto da bipolarismo, non fosse mai stato interdetto, ancorché fosse iniziato il relativo procedimento di interdizione, poi estintosi per la morte dell’interdicendo, e dando atto della circostanza che, in quel procedimento, la consulenza tecnica disposta d’ufficio – nei giorni immediatamente precedenti la redazione del secondo olografo del 2005 – aveva rilevato che la grave compromissione della capacità di autodeterminazione del de cuius non era tale da far ritenere sussistente uno stato di incapacità permanente e/o abituale, indicando la misura più appropriata nell’amministrazione di sostegno. Per altro, gli stessi accertamenti compiuti prima della redazione del secondo testamento, posti in essere dalla ASL di Olbia, avevano riscontrato miglioramenti generali della condizione del disponente, sulla base di indici quali la capacità di gestire autonomamente il proprio patrimonio, l’assenza di debiti, la chiara volontà espressa nelle schede testamentarie. Circostanze, queste, che hanno indotto il Tribunale a non ritenere raggiunta la prova, incombente sull’attrice, dell’incapacità del de cuius al momento della redazione dei testamenti, con conseguente rigetto della domanda di nullità delle disposizioni mortis causa.

Avverso la predetta sentenza Tizia proponeva appello alla Corte d’Appello di Cagliari, Sezione distaccata di Sassari, la quale, con sentenza n. 164 del 2016, rigettava l’impugnazione, ritenendo non fornita la prova dello stato di incapacità naturale del de cuius al momento della redazione dei testamenti.

Parimenti, con l’ordinanza n. 1682/2019, la Cassazione – investita della decisione sul ricorso promosso da Tizia avverso la sentenza della Corte d’Appello –, dopo aver ribadito che la prova dello stato di incapacità naturale, ai sensi dell’art. 428 c.c., incombe sulla parte che intenda far valere l’annullabilità del testamento, ha ribadito la validità dei due olografi impugnati, per altro precisando – richiamandosi, così, alla sentenza del Tribunale adìto – come dalla relazione prodotta dal c.t.u. non possa rilevarsi che il disturbo bipolare, di cui era affetto il testatore, fosse idoneo a determinarne l’assoluto stato di incoscienza.

L’ordinanza in commento offre occasione per alcune brevi considerazioni in tema di annullabilità del testamento redatto da persona in stato di incapacità di intendere o di volere (c.d. incapacità naturale) ([1]).

Come noto, l’incapacità naturale trova il suo fondamento normativo nell’art. 428, comma 1, c.c. e, con particolare riferimento al testamento, nell’art. 591, comma 3, c.c. La prima disposizione, innovando rispetto al codice previgente ([2]), stabilisce che gli atti ([3]) compiuti da persona che, sebbene non interdetta, si provi essere stata per qualsiasi causa, anche transitoria, incapace d’intendere o di volere al momento in cui gli atti sono stati compiuti, possono essere annullati su istanza della persona medesima o dei suoi eredi o aventi causa, se ne risulta un grave pregiudizio all’autore.

L’art. 591, comma 3, c.c., invece, dettato in tema di incapacità di testare ([4]), dispone l’invalidità del testamento redatto da quelli che, sebbene non interdetti, si provi essere stati per qualsiasi causa, anche transitoria, incapaci di intendere e di volere nel momento in cui fecero testamento ([5]).

La disposizione presenta una formulazione simile, ma non identica, a quella dell’art. 428, comma 1, c.c. In particolare, essa non contempla il requisito del grave pregiudizio, previsto, invece, per gli atti inter vivos ([6]), né precisa se il testamento dell’incapace debba considerarsi affetto da nullità o annullabilità.

Che si tratti di annullabilità, lo si evince dalla previsione dell’art. 591, ult. comma, c.c., che non prevede l’imprescrittibilità dell’azione di impugnazione, bensì il termine di prescrizione di cinque anni dal giorno in cui è stata data esecuzione dalle disposizioni testamentarie (ed ancorché la relativa azione sia esperibile da chiunque vi abbia interesse).

La questione principale da affrontare, però, è stabilire – nel silenzio del legislatore – che cosa si intenda per incapacità di intendere e di volere ([7]). L’orientamento più risalente, formatosi all’indomani dell’entrata in vigore del codice del 1942, riteneva che l’incapacità presupposta dal codice per l’annullamento coincidesse con una patologia tanto grave da giustificare la pronuncia d’interdizione ([8]). Tale opinione è stata criticata dalla dottrina successiva, sicché – si ritiene – la norma troverebbe applicazione anche in presenza di situazioni non riconducibili ad una patologia propriamente detta, o comunque di minore gravità rispetto a quelle richieste per l’interdizione ([9]): così, ben possono assumere rilievo – oltre alle patologie suscettibili di accertamento medico – l’abuso di sostanze alcoliche ([10]) o stupefacenti, il delirio febbrile, l’ira, gli stati passionali, anche qualora inducano il soggetto al suicidio ([11]).

Dall’art. 591, comma 1, c.c., che stabilisce che possono disporre per testamento tutti coloro i quali non sono dichiarati incapaci dalla legge, si evince la circostanza che la capacità è la regola, mentre l’incapacità è l’eccezione. Sicché, dottrina e giurisprudenza concordano nell’ammettere che, ai fini dell’annullabilità del testamento, non sia sufficiente una qualsiasi anomalia o alterazione delle facoltà psichiche o intellettuali, essendo invece necessario che le stesse siano state di natura tale da impedire al testatore una piena consapevolezza dell’atto o da privarlo della capacità di autodeterminazione ([12]).

D’altro canto, per l’annullamento dei contratti si riscontra di frequente in giurisprudenza un orientamento meno rigoroso, e secondo il quale sarebbe sufficiente che le facoltà psichiche del soggetto siano ridotte o menomate ([13]).

Non mancano, inoltre, echi dell’impostazione tradizionale anche nelle decisioni più recenti: talvolta, per l’annullamento del testamento, si è affermato che il disponente dovrebbe versare in condizioni analoghe a quelle che giustificano la pronuncia d’interdizione ([14]).

Nel caso in esame, la Cassazione, ponendosi in conformità con le pronunce del Tribunale e della Corte d’Appello, ha rilevato che il disturbo psichico (c.d. disturbo bipolare) di cui era affetto il disponente non era idoneo a privarlo della capacità di autodeterminazione.

Ciò detto, occorre fare qualche considerazione in ordine alla prova dell’incapacità naturale. In applicazione della regola generale di cui all’art. 2697 c.c., secondo cui chi intende far valere un diritto in giudizio ha l’onere di provare i fatti che ne costituiscono il fondamento (cc.dd. fatti costitutivi), incombe su chi intenda far valere l’annullamento del testamento fornire la prova che il testatore, al momento della redazione dell’atto, era incapace di intendere o di volere. Di converso, e sempre in virtù dell’art. 2697 c.c., l’onere di provare i fatti impeditivi, modificativi o estintivi della pretesa dell’attore incombe sul convenuto, e cioè su colui il quale intenda sostenere la validità del testamento.

La prova dell’incapacità, gravante sull’attore, può essere fornita con qualsiasi mezzo (ad es., mediante testimonianza, per presunzioni, ecc.), ma deve avere riguardo al momento della redazione del testamento, come si evince del tenore letterale dell’art. 591, comma 3, c.c., il quale – a differenza del codice previgente – non contiene più il riferimento al «tempo dell’atto» ([15]). Perciò, la mera allegazione delle condizioni mentali in cui versava il disponente nei momenti antecedenti e successivi alla redazione del testamento, se può costituire un indice a sostegno della prova dell’incapacità, non può essere di per sé sufficiente ai fini dell’annullamento dell’atto.

Piuttosto, e sempre con riferimento al momento del testamento, occorre distinguere tra i casi di incapacità permanente o totale e i casi di incapacità transitoria. In ipotesi di incapacità permanente o totale, in virtù dell’id quod plerumque accidit, la sussistenza di un’infermità tale da determinare una menomazione irreversibile delle facoltà cognitive del soggetto che ne è affetto fa presumere che il de cuius, nel momento in cui fece testamento, fosse in stato di incapacità naturale. Tale presunzione ammette la prova contraria (c.d. presunzione iuris tantum), sicché, in presenza di uno stato di incapacità permanente, sarà il convenuto a dover dimostrare che la redazione del testamento è avvenuta in un momento di lucido intervallo ([16]). Nei casi di incapacità transitoria, invece, posto che la situazione in cui versava il disponente era caratterizzata dall’alternarsi di periodi di capacità e di incapacità, l’onere della prova incombe sempre su colui che intenda far valere l’annullabilità dell’atto di ultima volontà. Infatti, la giurisprudenza ha precisato che, ove l’incapacità sia transitoria, l’accertamento di fenomeni patologici che si siano manifestati prima della redazione del testamento non è sufficiente a ritenere raggiunta la prova richiesta ex art. 591, comma 3, c.c. e, di conseguenza, a fondare la presunzione di incapacità ([17]).

Su questa linea, con l’ordinanza in commento la Cassazione si è pronunciata nel senso della validità del testamento olografo impugnato, ritenendo non raggiunta la prova dell’incapacità del de cuius, pur affetto da un disturbo bipolare di II grado, al momento della redazione dell’atto.


([1])           In argomento, v. P. Rescigno, Incapacità naturale e adempimento, Napoli, 1950, spec. pp. 30 ss.; V. Pietrobon, voce Incapacità naturale, in Enc. giur., Roma, 1990, pp. 1 ss.; C.M. Bianca, Diritto civile, 1, La norma giuridica, I soggetti, II ed., 2002, p. 266; con particolare riferimento al testamento, v. A. Cicu, Il testamento, Milano, 1942; L. Bigliazzi Geri, Il testamento, I, Profilo negoziale dell’atto, Torino, 1976, pp. 145 ss.; C. Coppola, L’incapacità naturale del testatore, in Fam. pers. succ., 2005, p. 522; M.C. Tatarano, Il testamento, in Tratt. dir. civ. Cons. Naz. del Notariato, diretto da P. Perlingieri, VIII, 4, Napoli, 2003, p. 43; G. Perlingieri, La rilevanza del testo nell’individuazione dell’incapacità naturale di testare, in Rass. dir. civ., 2005, pp. 273 ss.; A. Venturelli, La capacità di disporre per testamento, in Tratt. dir. successioni e donazioni, diretto da G. Bonilini, II, La successione testamentaria, Milano, 2009, pp. 107 ss.; C. Scognamiglio, La capacità di disporre per testamento, in Tratt. breve successioni e donazioni, diretto da P. Rescigno, coordinato da M. Ieva, II ed., I, Padova, 2010, pp. 747 ss.; A. Sassi – S. Stefanelli, Incapacità testamentarie, in Il codice civile, Commentario, fondato da P. Schlesinger e diretto da F.D. Busnelli, Milano, 2014, Milano, 2014, pp. 31 ss.; C.M. Bianca, Diritto civile, 2, II, Le successioni, II ed., Milano, 2015, pp. 275 ss.
([2])           Nel codice del 1865, in assenza di una norma generale quale quella dell’art. 428 c.c., all’incapacità naturale facevano riferimento, in tema di interdizione, l’art. 366 che estendeva gli effetti del provvedimento d’interdizione giudiziale agli atti compiuti in un momento precedente, e l’art. 367, in virtù del quale era possibile domandare l’annullamento degli atti compiuti in vita dall’incapace qualora, prima della sua morte, fosse stato già promosso il giudizio di interdizione, e purché fosse provato che tali atti erano stati posti in essere in stato di infermità mentale. Disposizioni particolari erano poi dettate in materia di testamento e di donazione: l’art. 763, n. 3 contemplava l’incapacità di testare delle persone non sane di mente tra i casi di incapacità di testare, richiamati a loro volta dall’art. 1052, il quale prevedeva le ipotesi di incapacità a donare. Da tali norme, la dottrina aveva incominciato a delineare la figura generale dell’incapacità naturale, ritenendo però che il negozio compiuto in tale stato, anche transitorio, non fosse espressione della reale volontà del soggetto, con conseguente radicale nullità dell’atto: così, L. Coviello, L’incapacità naturale di contrarre, in Riv. dir. comm., 1908, I, pp. 273 ss.; cfr. pure P. Rescigno, Incapacità naturale, cit., pp. 30 e 37. Il codice vigente ha, invece, previsto l’annullabilità degli atti compiuti dall’incapace naturale, subordinando la pronuncia di annullamento al ricorrere dei presupposti del grave pregiudizio (negli atti unilaterali) e della mala fede della controparte (nei contratti), incorrendo per altro nelle critiche della dottrina tradizionale: cfr., sul punto, M. Giorgianni, La c.d. incapacità naturale nel primo libro del nuovo codice civile, in Riv. dir. civ., 1939, pp. 413 ss. L’opinione del Coviello (L. Coviello, L’incapacità naturale, cit., p. 273) ha per altro influenzato il pensiero di chi ritiene che occorra distinguere tra le ipotesi di incapacità che viziano il consenso, rendendo l’atto annullabile, da quelle di incapacità c.d. assoluta, che impedirebbe la formazione del consenso stesso, con conseguente radicale nullità dell’atto (ad es., sonnambulismo, ipnotismo, grave stato di ubriachezza): in tal senso, V. Pietrobon, voce Incapacità naturale, cit., p. 4. In senso contrario può tuttavia replicarsi che il legislatore prevede la conseguenza dell’annullabilità (e non della nullità) anche per gli atti posti in essere dall’interdetto: sicché, l’art. 428 c.c. si applica – a fortiori – a tutte le ipotesi di incapacità, prescindendo dalla tipologia e dalla gravità della stessa.
([3])           È controverso se tra gli «atti» di cui all’art. 428, comma 1, c.c. debbano annoverarsi anche i contratti, cui è dedicato specificamente il comma 2 della medesima disposizione (secondo cui «L’annullamento dei contratti non può essere pronunziato se non quando, per il pregiudizio che sia derivato o possa derivare alla persona incapace d’intendere o di volere o per la qualità del contratto o altrimenti, risulta la malafede dell’altro contraente»). La dottrina prevalente propende per la soluzione affermativa, con la conseguenza che, per l’annullamento del contratto concluso dall’incapace, occorrerebbe la sussistenza di un «grave pregiudizio» e la mala fede dell’altro contraente: così, tra gli altri, P. Rescigno, Incapacità naturale, cit., p. 38; V. Pietrobon, voce Incapacità naturale, cit., p. 5. Tale opinione è però disattesa dalla giurisprudenza, secondo la quale il pregiudizio non sarebbe un presupposto dell’annullamento del contratto, bensì un indice dal quale desumere la mala fede della controparte: v., tra le altre, Cass., sent. 14 maggio 2003, n. 7403, in Mass. Foro it., 2003, p. 661; Cass., sent. 11 settembre 1998, n. 9007, in Giur. it., 1999, p. 1379; Cass., sent. 2 giugno 1998, n. 5402, in Giur. it., 1999, p. 490; Cass., sent. 26 febbraio 1992, n. 2374, in Giust. civ., 1992, p. 511; Cass., sent. 12 luglio 1991, n. 7784, in Giur. it., I, 1, p. 877, con nota di V. Barba; Cass., sent. 6 agosto 1990, n. 7914, in Rep. Foro it., 1990, p. 1513; Cass., sent. 26 novembre 1987, n. 8783; Cass., sent. 26 novembre 1984, n. 6105. Discusso è, altresì, se il pregiudizio debba necessariamente consistere in una sproporzione tra il valore del bene ed il corrispettivo ricevuto (in tal senso, V. Pietrobon, voce Incapacità naturale, cit., p. 6) ovvero se sia sufficiente un’insoddisfazione morale, e cioè un pregiudizio in senso soggettivo per l’incapace (così G. Marini, Annullabilità generali, cit., p. 229 e, in giurisprudenza, Cass., sent. 14 maggio 2003, n. 7485, cit.; Cass., sent. 5 novembre 1990, n. 10577).
([4])           Sul piano sistematico, la scelta di collocare l’incapacità naturale tra le ipotesi di incapacità a testare è indubbiamente infelice, atteso che quest’ultima, secondo la dottrina, è l’incapacità della persona a disporre validamente dei propri beni per il periodo successivo alla morte (così, tra gli altri, G. Capozzi, Successioni e donazioni, III ed., a cura di A. Ferrucci e C. Ferrentino, I, Milano, 2009, pp. 676 ss.; L. Bigliazzi Geri, Delle successioni testamentarie, in Comm. cod. civ. Scialoja-Branca, a cura di F. Galgano, Bologna-Roma, 1993, pp. 170 ss.) e, dunque, configura una situazione giuridica, mentre l’incapacità naturale – come rileva G. Perlingieri, La rilevanza del testo, cit., p. 276 – «non configura una posizione giuridica del soggetto, né una situazione di abituale infermità, ma si sostanzia nella effettiva inidoneità ad intendere o a volere l’atto da realizzare e, dunque, si prospetta come mera situazione di fatto da provare di volta in volta, quale vizio esistente al momento della redazione dell’atto» (corsivo dell’A.).
([5])           La formulazione dell’art. 591, comma 3, c.c. è radicalmente differente da quella dell’art. 763 c.c. 1865, che si riferiva non già all’incapacità naturale, bensì all’insanità di mente (v. anche supra, nota 2). Sicché, mentre nel sistema dell’abrogato codice parte della dottrina reputava sufficiente, per l’invalidità del testamento, l’accertamento di uno stato patologico (per il rilievo secondo cui il riferimento alla sanità di mente impedisse la pronuncia di invalidità del testamento al di fuori dei casi riconducibili a tale patologia, v. G. Corapi, I vizi della volontà testamentaria, cit., p. 1581), la disposizione del codice vigente impone, invece, all’interprete di verificare se e in quale misura l’incapacità abbia assunto un ruolo determinante sulla formazione della volontà testamentaria: nel senso che la disposizione in esame «impone al giudice una rigorosa considerazione del ruolo assunto dalla causa perturbatrice nel processo deliberativo dell’atto», A. Venturelli, La capacità di disporre per testamento, cit., p. 111.
([6])           La deroga si spiega in ragione della natura personale del negozio testamentario, e trova applicazione anche con riguardo al matrimonio (cfr. art. 120 c.c.) e, secondo una risalente giurisprudenza (cfr. Trib. Bari, sent. 29 novembre 1961, in Foro pad., 1962, I, p. 946, e Trib. Napoli, sent. 25 febbraio 1964, in Riv. dir. civ., 1966, II, p. 466), al riconoscimento del figlio naturale. L’applicabilità dell’art. 428 c.c. al riconoscimento è però esclusa dalla più recente dottrina, sul presupposto che si tratti di un atto accertativo non avente natura negoziale: A. Spangaro, Dell’interdizione, dell’inabilitazione e dell’incapacità naturale, in Comm. cod. civ., diretto da E. Gabrielli, Della famiglia, a cura di L. Balestra, Torino, 2009, p. 450.
([7])           Precisa C.M. Bianca, Diritto civile, 2, II, cit., p. 275 e nota 90, che ai fini dell’annullabilità è sufficiente che manchi alternativamente la facoltà d’intendere o quella di volere.
([8])           Tale argomento – si noti – trova fondamento nel rilievo ascritto all’inciso «sebbene non interdetta», contenuto sia nell’art. 428 c.c., sia nell’art. 591 c.c.
([9])           Cfr. P. Rescigno, voce Capacità di agire, in Dig. disc. priv., Sez. civ., IV ed., II, Torino, 1988, p. 215 e nota 24.
([10])          Cass., sent. 7 luglio 1978, n. 3411, cit.
([11])          Cass., sent. 30 gennaio 2003, n. 144, cit.; Cass., sent. 7 luglio 1978, n. 3411, cit.; Cass., sent. 10 gennaio 1967, n. 97, in Mass. Giur. it., 1967, p. 38; Cass., sent. 5 gennaio 1950, n. 48, in Giur. it., 1951, I, 1, p. 378, e in Foro pad., 1951, I, p. 22, con nota di E. Ondei, Gli stati emotivi e passionali nel diritto civile.
([12])          V., in dottrina, L. Bigliazzi Geri, Il testamento, in Tratt. dir. priv., diretto da P. Rescigno, 6, Successioni, II, II ed., Torino, 2000, pp. 54 ss.; in giurisprudenza, tra le altre, Cass., sent. 19 luglio 2016, n. 14746, secondo cui «l’incapacità naturale del testatore postula l’esistenza non già di una semplice anomalia o alterazione delle facoltà psichiche ed intellettive del de cuius, bensì la prova che, a cagione di un’infermità transitoria o permanente, ovvero di altra causa perturbatrice, il soggetto sia stato privato in modo assoluto, al momento della redazione dell’atto di ultima volontà, della coscienza dei propri atti o della capacità di autodeterminarsi»; in senso conforme, v. altresì Cass., sent. 23 dicembre 2014, n. 27351; Cass., sent. 6 novembre 2013, n. 24881; Cass., sent. 11 gennaio 2012, n. 166, in Fam. dir., 2012, 894; Cass., sent. 15 aprile 2010, n. 9081; Cass., sent. 6 maggio 2005, n. 9508; Cass., sent. 30 gennaio 2003, n. 144, cit.; Cass., sent. 22 maggio 1995, n. 5620; Cass., sent. 22 marzo 1985, n. 2074; Cass., sent. 7 luglio 1978, n. 3411, in Giur. it., 1979, I, 1, p. 422, ed in Riv. not., 1979, p. 929, con nota di S. Saccomanni, Brevi osservazioni per l’interpretazione dell’art. 591 n. 3 c.c.
([13])          V., tra le altre, Cass., sent. 8 agosto 1997, n. 7344. Il maggior rigore in materia testamentaria può certamente spiegarsi facendo riferimento all’esigenza di mantener fermi, per quanto possibile, gli effetti della manifestazione di ultima volontà.
([14])          Si v., in particolare, Cass., sent. 30 gennaio 2003, n. 144, cit., ove si afferma che l’incapacità naturale del disponente si ha quando il soggetto sia assolutamente privo della coscienza del significato dei propri atti e della capacità di autodeterminarsi, sì da versare in condizioni analoghe a quelle che legittimano la pronuncia di interdizione.
([15])          La norma si applica anche al testamento pubblico, sicché la parte che intenda far valere l’annullabilità dello stesso non deve esperire la querela di falso avverso l’atto pubblico, ma può limitarsi a fornire la prova dell’incapacità del de cuius al momento della redazione. Infatti, l’eventuale dichiarazione del notaio circa lo stato di capacità del testatore costituisce un apprezzamento soggettivo del pubblico ufficiale, come tale inidoneo ad escludere l’operatività dell’art. 591 c.c.: così, in dottrina, A. Riganò, Efficacia probatoria dell’atto pubblico e attestazione del notaio sulla capacità della parte convenuta, nota a Cass., sent. 28 novembre 1998, n. 12099, in Notariato, 1999, p. 229, e M. Mazzola, voce Notaio e notariato, in Dig. disc. priv., Sez. civ., IV, Torino, 1995, p. 236; in giurisprudenza, v. Cass., sent. 27 aprile 2006, n. 9649; Cass., sent. 4 maggio 1982, n. 2741.
([16])          Cass., sent. 19 luglio 2016, n. 14746, ove si legge che «poiché lo stato di capacità costituisce la regola e lo stato di incapacità l’eccezione, spetta a chi impugni il testamento provare la dedotta incapacità, salvo che il testatore non risulti affetto da incapacità totale e permanente, nel qual caso grava, invece, su chi voglia avvalersene provare la corrispondente redazione in un momento di lucido intervallo»; conformi, v. pure Cass., sent. 23 dicembre 2014, n. 27351; Cass., sent. 15 aprile 2010, n. 9081; Cass., sent. 6 maggio 2005, n. 9508; Cass., sent. 28 aprile 1981, n. 2578.
([17])          Cass., sent. 6 dicembre 2001, n. 15480; Cass., sent. 23 gennaio 1991, n. 652.

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Nicolò Matta

Laureato in Giurisprudenza con lode presso l'Università degli Studi di Cagliari. Tirocinante ex art. 73, d.l. n. 69/2013.

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