Prelievo forzoso di ovociti: violenza privata o rapina?

Prelievo forzoso di ovociti: violenza privata o rapina?

La sentenza n. 37818 del 25 novembre 2020 della Seconda Sezione della Suprema Corte di Cassazione offre lo spunto per trattare della configurazione del delitto di rapina nel caso di impossessamento di ovociti con violenza.

Nel caso di specie, il direttore sanitario di una clinica, in concorso con l’anestetista e la propria collaboratrice, al fine di procedere all’impianto di embrioni in altre pazienti, aveva costretto con violenza la persona offesa a subire il prelievo dalle ovaie di almeno sei ovociti, dei quali si era impossessato quando la stessa, dopo l’intervento eseguito in anestesia, risultava ancora sedata.

I ricorrenti hanno ritenuto erroneamente qualificata la condotta, sulla scorta della sentenza della Corte di Cassazione del 17 agosto 2016[1]: in quella sede la Suprema Corte aveva affermato che gli ovociti acquistano lo status di cosa mobile solo al termine del processo di asportazione dal corpo umano, processo che dà luogo ai reati di lesione personale e violenza privata, se eseguito con violenza e contro la volontà della donna. Sulla scorta di tale principio, pertanto, i ricorrenti hanno ritenuto non configurato il delitto di rapina, essendosi l’azione violenta realizzata quando ancora non esisteva la cosa mobile oggetto dell’impossessamento: gli ovociti hanno infatti acquistato autonoma esistenza solo al termine della condotta violenta. L’unica condotta realizzata dall’imputato, secondo la tesi di parte ricorrente, pertanto, è stata la mera apprensione, condotta assorbita dai reati di lesione personale e violenza privata e che non può configurare né la rapina né il furto.

La difesa non contesta, come correttamente sostenuto dai giudici di merito, che gli ovociti siano parte del corpo suscettibili di valutazione patrimoniale, quindi cose mobili in senso realistico. Per la giurisprudenza di legittimità, infatti, “la qualità di cosa mobile può essere attribuita anche alla cosa che sia stata mobilizzata ad opera dello stesso autore del fatto mediante la sua avulsione o enucleazione”[2].

Sulla base di questa concezione di cosa mobile, è possibile parlare di “reificazione” anche a proposito degli ovociti, che fanno parte della donna fino che sono parte del suo corpo, ma divengono “cosa” nel momento in cui vengono distaccati da esso. La peculiarità dell’intervento di pick up (che consiste nell’aspirazione del liquido follicolare contenente gli ovociti attraverso un sottile ago e il trasferimento del liquido in laboratorio, per recuperare gli ovociti) non è di ostacolo alla configurabilità in capo alla donna della detenzione dei gameti femminili, potendo la stessa donarli a coppie con problemi di fertilità[3]. Una volta distaccati gli ovociti, dunque, essi sono suscettibili di sottrazione e impossessamento.

Resta da chiarire la questione posta dalla difesa, con la quale si è sottolineato che l’azione violenta è stata realizzata quando non esisteva la cosa mobile oggetto dell’impossessamento, in quanto gli ovociti erano ancora parte del corpo della donna. Sul punto, come ribadito dalla stessa Corte di appello, la violenza, che la difesa intende qualificare come semplice violenza privata, consistente nell’imporre alla vittima di tollerare l’asportazione degli ovociti, non è altro che la violenza esercitata sulla persona necessaria per integrare il delitto di rapina. Ovvero, questo tipo di violenza integra il delitto di rapina dal momento che costituisce la premessa imprescindibile per conseguire l’impossessamento degli ovociti. Del resto, il reato in questione ha natura plurioffensiva, in quanto lesivo non solo del patrimonio, ma anche della libertà e della integrità psico-fisica della persona aggredita per realizzare il profitto. Dunque, tra l’iniziale condotta violenta, commessa quando ancora non esisteva l’oggetto materiale della rapina, ed il successivo impossessamento degli ovociti sussiste un nesso di immediatezza e strumentalità.

Nel caso di specie, l’imputato usò violenza per costringere la vittima a subire l’intervento, ponendola in uno stato di incapacità di agire a causa dell’anestesia, al precipuo scopo di prelevare i suoi ovociti, poi fecondati con successivo impianto di embrioni in tre pazienti e, quindi, di conseguire un ingiusto profitto.

La Seconda sezione ha affermato quindi che l’espianto di ovociti dall’utero di una donna, realizzato in ambiente clinico contro la sua volontà, da personale medico, configura il delitto di rapina, in quanto gli ovociti possono essere considerati “cose mobili” nel momento in cui vengono distaccati dal corpo umano e da tale momento sono pienamente detenuti dalla donna, attesa la possibilità della stessa sia di utilizzarli che di donarli a coppie con problemi di sterilità, sicché gli stessi sono passibili di sottrazione e impossessamento.

La sentenza in esame è interessante perché analizza gli effetti penali degli elementi del possesso e della detenzione, tema già attenzionato in diverse pronunce della medesima Corte e che ha contribuito al diffondersi della teoria dell’autonomia interpretativa del diritto penale rispetto alle altre discipline giuridiche (il diritto civile nel caso di specie).

La definizione che il legislatore fornisce del fatto tipico degli articoli 624 e 628 codice penale fa leva sui tre requisiti della detenzione, sottrazione e impossessamento. Il concetto di detenzione è stato oggetto di contrasti in dottrina e in giurisprudenza, stante l’interpretazione estensiva che la giurisprudenza penale ha dato rispetto a quella civilistica. Infatti, l’orientamento maggioritario accede ad un concetto lato di detenzione, che va oltre alla pura relazione fisica tra soggetto e cosa. Una simile interpretazione solo in parte soddisfa l’ipotesi di rapina di ovociti. Se è vero infatti che la donna ne ha la disponibilità, potendo donarli a coppie con problemi di fertilità, non ci si può esimere dal sollevare alcune obiezioni sul concetto di detenzione. Il considerare gli ovociti res mobile solo una volta separati dal corpo della donna comporta che se l’impossessamento insiste su una cosa mobile, si potrebbe opinare che la sottrazione non abbia ad oggetto la cosa in sé, quanto piuttosto la creazione della cosa medesima. Ciò comporta non solo una eccessiva distensione del concetto di detenzione, ma anche una riconduzione della condotta al solo concetto di impossessamento[4]. In conclusione, vi è da chiedersi se la sussunzione del caso di specie nel delitto di rapina abbia realmente rispettato i requisiti previsti dalla norma, ovvero se l’interpretazione sempre più lata del concetto di detenzione faccia venire meno, sempre di più, il labile confine tra impossessamento e sottrazione: così facendo, l’impossessamento verrebbe a costituire la sola essenza dei delitti di furto e rapina.

Al netto di tutte le possibili obiezioni, in ogni caso, occorre ricordare che tale sentenza costituisce il primo pronunciamento della Suprema Corte in merito al prelievo forzoso di ovociti dalla donna. Pertanto non si esclude che, in futuro, la medesima possa avere dei ripensamenti o interpretare la vicenda diversamente.

 

 

 

 

 


[1] Cass. Pen., Sez. F, n. 39541 del 17 agosto 2016, Rv. 267990.
[2] Ibidem.
[3] Corte Cost., n. 162 del 10 giugno 2014: “gli atti dispositivi del proprio corpo, quando rivolti alla tutela della salute, devono ritenersi leciti, sempre che non siano lesi altri interessi costituzionali”.
[4] Tale assunto sembra indirettamente confermato nella decisione del 2016 della Sezione Feriale, in cui la Corte aveva negato che gli ovociti rientrassero nel concetto di cosa mobile sul presupposto che il capo di imputazione contestava solo la condotta di separazione degli ovociti dal corpo della donna e non anche quella di impossessamento, “con la conseguenza che il prelievo forzoso dei medesimi dall’utero della donna non rientra nell’ambito dei delitti contro il patrimonio, come la rapina, ma costituisce un delitto contro la persona, ovvero la fattispecie di lesioni personali”. Cass. Pen., Sez. F. sopra citata.

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Elena Avenia

Nata ad Agrigento nel 1994. Laureata con pieni voti e lode nel luglio del 2018, presso l'Università degli studi di Enna Kore, con una tesi in diritto processuale penale dal titolo "L'ascolto del minore nel processo penale". Diplomata nel luglio 2020 presso la Scuola di specializzazione per le professioni legali dell'Università degli studi di Catania. Abilitata alla professione forense il 21 settembre 2020.

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