Private Enforcement Antitrust e nuova azione di classe ex L. n. 31/2019

Private Enforcement Antitrust e nuova azione di classe ex L. n. 31/2019

Sommario: Introduzione – 1. Cenni sugli illeciti concorrenziali – 2. La responsabilità civile – 3. La direttiva 104/2014/UE e il D. Lgs. n. 3/2017 – 4. Private enforcement antitrust e nuova azione di classe

 

Introduzione

L’esigenza di un intervento normativo di matrice pubblicistica, volto alla tutela dalla concorrenza e del mercato, si manifesta soprattutto dalla seconda metà del diciannovesimo secolo quale reazione allo strapotere (talvolta non solo di mercato, ma anche politico) raggiunto dalle nuove grandi imprese capitalistiche[1].

Alcune di queste ultime, attraverso la progressiva espansione e consolidazione della loro posizione di dominanza in mercati di rilevanza anche sovranazionale, acquisirono infatti condizioni di oligopolio e, talvolta, anche di sostanziale monopolio, finanche in settori di notevole rilevanza pubblica.

 Tale fenomeno è stato reso possibile specialmente dagli importanti progressi tecnologici, scientifici, economici e sociali apportati dalla “rivoluzione industriale” dalla seconda metà del Settecento, i quali contribuirono, in modo particolare, all’aumento esponenziale della domanda di beni e servizi di largo consumo ed al rapido aumento dell’offerta, anche grazie all’introduzione di nuovi e più efficienti metodi di produzione (che spesso rivelarono le enormi potenzialità delle economie di scala). Un’importante ruolo nella determinazione dell’accentramento del potere economico privato in capo a uno o a pochi soggetti economici, è stato inoltre innegabilmente giocato anche dalla diffusione di cartelli tra imprese (c.d. trusts), i quali, dalla fine del diciannovesimo secolo, iniziarono ad essere posti in essere nei paesi più industrializzati, a partire dagli Stati Uniti di America, come efficaci mezzi di limitazione della concorrenza.

Proprio nel Paese nordamericano, nella seconda metà dell’Ottocento, le gravi condizioni di concorrenza imperfetta che si erano venute a creare, unitamente alla pressoché totale sterilità regolatoria, determinarono il diffondersi di un malcontento sociale che chiederà con insistenza allo Stato di intervenire. Gli effetti negativi di quei regimi monopolistici od oligopolistici (che spesso non seguivano alcun tipo di regole) erano infatti subiti soprattutto da consumatori e acquirenti professionali (specialmente agricoltori), costretti a pagare prezzi più alti rispetto a quelli praticabili in regimi concorrenziali, e da imprenditori piccoli e medi, molti dei quali esclusi o quasi dal mercato anche dal sovente uso del potere dei “dominanti” in chiave abusiva e anticoncorrenziale.

In risposta a quelle istanze, in contrapposizione alla logica del laissez-faire, si avviò pertanto negli Stati Uniti d’America un processo legislativo che culminò nel 1890 con l’emanazione della prima legge federale antitrust, lo Sherman Antitrust Act. Con tale provvedimento, tramite l’ausilio degli istituti ereditati dal sistema di common law inglese, lo Stato federale americano intese correggere i fallimenti di mercato attraverso il contrasto ai monopoli, ai trusts, ed a tutte le condotte ingiustamente lesive della concorrenza e del mercato (con le dovute eccezioni, chiarite soprattutto dalla giurisprudenza).

L’effettività delle norme antitrust statunitensi[2] verrà garantita (seppur in maniera altalenante) dall’autorità pubblica, precipuamente deputata alla tutela del mercato e della concorrenza, e dalla possibilità, non solo per imprese ma anche per consumatori, di censurare con certezza gli illeciti concorrenziali (ora positivizzati) dinanzi agli organi giurisdizionali civili[3].

La complessità di tale sistema multilivello è evidentemente l’effetto dalla compresenza di interessi diversi nella tutela della concorrenza e del mercato, ovvero pubblici e privati; la nascita di un enforcement antitrust pubblico, complementare ad un enforcement privato, è in particolare il sintomo della profonda preoccupazione dello Stato verso gli effetti negativi che taluni fenomeni e dinamiche concorrenziali possono arrecare sul piano sociale ed economico.

Altri Stati, sull’esempio americano, si doteranno di norme e strumenti volti alla tutela della concorrenza. Tuttavia, mentre nel Paese federale nordamericano (a causa di un insieme di particolari fattori sistemici[4]) prevarrà il private enforcement antitrust sull’enforcement pubblico, in Europa l’attuazione delle norme antitrust sarà maggiormente garantita dall’autorità pubblica.

Per quanto riguarda l’Italia, l’introduzione di specifiche norme a tutela della concorrenza[5] avvenne con ritardo rispetto ad altri Paesi industrializzati; è solo con la legge n. 287 del 1990 che viene introdotta in ambito nazionale una specifica normativa antitrust ed istituita un’autorità amministrativa indipendente con funzioni di tutela della concorrenza e del mercato (l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, di seguito AGCM).

Molteplici sono le ragioni di tale ritardo, dovute perlopiù a fattori economici, politici e culturali della società italiana del diciannovesimo e di quasi tutto il ventesimo secolo. Del resto, neanche la Costituzione del 1948, frutto di importanti compromessi politici soprattutto in ambito economico, e neanche la Corte Costituzionale, nei primi tempi di introduzione della Carta, conferirono alla concorrenza quella funzione di interesse generale e di efficienza economica che invece oggi riveste nella quasi totalità dei Paesi industrialmente più avanzati[6].

Diversamente dall’Italia, negli Stati Uniti d’America (una delle prime nazioni d’altronde a sviluppare un’importante economia industriale retta da principi liberali) la cultura della concorrenza trova presto terreno fertile, anche poiché la libertà economica venne fin da subito elevata a principio di Stato democratico ed a presupposto di libertà individuale.

In Italia, il mutamento di sensibilità nei confronti della concorrenza è avvenuto in special modo sotto impulso dell’ordinamento europeo (latamente inteso), per il quale una concorrenza effettiva (dentro e tra gli Stati membri) ha da sempre rappresentato un tassello necessario per la realizzazione del mercato interno e della stessa integrazione europea[7].

In particolare, dalla nascita del processo di integrazione europea si è iniziato a prestare maggiore attenzione alla tutela della concorrenza e dei consumatori (per questi ultimi soprattutto dagli anni ‘70), ciò sfociando in una serie di importanti innovazioni in materia, anche di rilievo costituzionale in Italia, susseguitesi sino ai nostri giorni.

Tra le numerose novità, oltre all’avvio di importanti processi di liberalizzazione (spesso anche di privatizzazione) ed al proliferare di autorità nazionali incaricate ad applicare in via amministrativa ex post le regole di concorrenza (insieme alla Commissione europea[8]), vengono posti altri rimedi regolatori in rilevanti settori economici, volti, tra gli altri fini, anche alla prevenzione degli illeciti concorrenziali. Tra tali rimedi, vengono in particolare create molteplici autorità amministrative indipendenti nazionali ed organismi europei per la regolamentazione di settore, nati soprattutto allo scopo di adattare tempestivamente la normazione alle mutevolezze dei mercati e della tecnologia, attraverso appunto fonti di secondo grado (e/o di vigilare allo stesso tempo, negli ambiti di rispettiva competenza, sul rispetto delle regole da parte delle imprese).

In Italia, dall’introduzione della L. n. 287/90 l’AGCM ha assunto un ruolo di primo rilievo nell’enforcement antitrust, mentre il bilancio del private enforcemet è stato residuale, come d’altronde in tutta l’area europea.

Recentemente, soprattutto al fine di riavvicinare le disposizioni dei vari Stati membri e di incentivare l’enforcement privato del diritto della concorrenza, il Parlamento europeo ed il Consiglio hanno adottato la Direttiva n. 104/2014, attuata in ambito nazionale dal D.Lgs. n. 3/2017, con la quale si introducono norme speciali volte a garantire una tutela effettiva ai soggetti danneggiati dagli illeciti concorrenziali, in particolar modo attraverso un riassetto degli strumenti sostanziali e processuali; uno dei maggiori ostacoli allo sviluppo dell’enforcement antitrust privato in Europa è stato infatti rappresentato dall’eterogeneità delle disposizioni nazionali in materia e dalle notevoli difficoltà probatorie sussistenti in capo ai danneggiati, soprattutto in ragione delle profonde asimmetrie informative tra questi ultimi e gli autori degli illeciti.

Tali norme, se da un lato appaiono conferire forza propulsiva al contenzioso antitrust tra grandi imprese[9], dall’altro lato non sembrano essere da sole sufficienti ad apportare il medesimo effetto (nel nostro ordinamento) alle controversie in materia che vedono come parte attrice consumatori e piccole e medie imprese. Infatti, le grandi imprese danneggiate (specialmente quelle concorrenti all’autrice della violazione) sono sempre state maggiormente disposte alla promozione di rimedi risarcitori, soprattutto in considerazione della frequente notevole rilevanza dei danni subiti a causa degli illeciti de quibus, diversamente dai consumatori e dalla piccola imprenditoria, per i quali spesso l’esiguità dei danni ha rappresentato un valido deterrente alla proposizione di costose istanze giudiziali dall’esito comunque incerto. L’azione di classe disciplinata dal codice del consumo, con i suoi rigidi limiti soggettivi e oggettivi, non ha sopperito a tale circostanza, essendo rimasto il suo utilizzo ben circoscritto.

In attesa di un diritto di ricorso collettivo europeo che possa conferire adeguata tutela in tutta l’Unione (e rafforzare conseguentemente il rispetto del diritto della concorrenza al suo interno), spiragli di una maggiore diffusione in Italia delle azioni di classe (tra le quali certamente anche quelle promosse a tutela dei diritti dei soggetti danneggiati dagli illeciti antitrust) sembrano intravedersi per effetto della L. n. 31/2019, la quale apporta profonde modifiche allo strumento di specie[10].

Ciò premesso, oggetto di questa trattazione sarà l’esame, da un’ottica interna, dei tratti salienti della disciplina del private enforcement antitrust, nonché, specialmente in riferimento alla stessa, della nuova azione di classe.

1. Cenni sugli illeciti concorrenziali

Prima di un più ampio esame della disciplina del private enforcement antitrust e della nuova azione di classe, appare opportuna una rapida disamina (senza pretese di esaustività) degli illeciti concorrenziali potenzialmente idonei a dare origine a responsabilità risarcitoria (oltre che amministrativa e, talvolta, anche penale per le persone).

Gli illeciti in esame possono essere integrati violando tanto le norme nazionali tanto quelle europee che governano la materia, a seconda che l’illecito abbia una rilevanza prettamente nazionale ovvero transazionale. A riguardo, giova precisare che le norme europee possono essere applicate, qualora ne ricorrano i presupposti, anche dalle autorità nazionali di concorrenza (oltre alla Commissione europea e ai giudici nazionali).

In Italia la disciplina de qua è sostanzialmente contenuta negli artt. 2 e 3 L. 287/1990, mentre nell’ordinamento eurounitario (a livello di fonti primarie) negli artt. 101 e 102 TFUE.

Poiché le condotte illecite contemplate nelle due fonti citate sono essenzialmente analoghe, per ragioni di semplicità espositiva si procederà ad un generale esame delle stesse, le quali possono essere individuate in due principali categorie e, segnatamente, nelle intese anticoncorrenziali e nell’abuso di posizione dominante. Occorre rilevare che ad alcune condizioni anche la violazione della normativa nazionale ovvero europea in tema di concentrazioni di imprese e di quella sugli aiuti di Stato può essere fonte di responsabilità aquiliana (tali aspetti non verranno tuttavia affrontati in questa sede).

Quanto al primo dei citati illeciti – disciplinato dall’art. 2 L. 287/1990 e dall’art. 101 TFUE – per intese si intendono gli accordi o pratiche concordate tra imprese, nonché le deliberazioni, anche se adottate ai sensi di disposizioni statutarie o regolamentari, di consorzi, associazioni di imprese ed altri organismi similari, che abbiano per oggetto ovvero per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato interno o di quello nazionale o in una loro parte rilevante.

Tali intese non devono necessariamente estrinsecarsi in un formale atto giuridico, potendo consistere anche in gentlemen’s agreement o in altre forme di concertazione; ad ogni modo, ope legis sono vietate e, per l’effetto, nulle.

La natura anticoncorrenziale dell’accordo può essere desunta dal suo contenuto ovvero dell’effetto che lo stesso ha prodotto o che può potenzialmente produrre sul mercato. A livello classificatorio è possibile dunque distinguere le intese per “oggetto” da quelle per “effetto”.

Le intese per oggetto, in particolare, sono quelle che in maniera “esplicita” tendono a limitare la concorrenza, ad es. attraverso la fissazione dei prezzi, l’allocazione della clientela, la ripartizione dei mercati, la limitazione della produzione o la fissazione dei prezzi di rivendita. Gli artt. 2 L. 287/90[11] e 101 TFUE[12] contengono una lista non esaustiva degli accordi oggettivamente illeciti, per i quali, attesa la loro indubbia incidenza sulla concorrenza, è necessario provarne esclusivamente l’esistenza e la rilevanza e non anche gli effetti reali o potenziali sul mercato.

Per intese per effetto, invece, si intendono quelle che, pur non avendo un contenuto direttamente volto alla restrizione della concorrenza, hanno comunque ristretto, o sono potenzialmente idonee a restringere, il gioco stesso della concorrenza in maniera rilevante. Affinché l’accordo abbia effetti limitativi, in particolare, è necessario che lo stesso arrechi un significativo impatto negativo reale o probabile su almeno uno dei parametri della concorrenza nel mercato, quali prezzo, produzione, qualità dei prodotti, varietà dei prodotti o innovazione[13]. Per desumere l’illegittimità dell’accordo devono dunque considerarsi sia gli effetti reali che quelli potenziali.

Un altro criterio discriminante è costituito dal carattere “orizzontale” o “verticale” dell’accordo.

Una cooperazione è di “natura orizzontale” se l’accordo viene concluso tra concorrenti effettivi o potenziali. Per imprese concorrenti si intendono quelle che operano sullo stesso mercato rilevante, laddove un’impresa è considerata potenziale concorrente di un’altra impresa se, in mancanza di accordo, è possibile che essa effettui investimenti supplementari o sostenga altri costi di conversione necessari al fine di entrare sul mercato rilevante entro un breve lasso di tempo.

Le intese verticali, invece, sono gli accordi conclusi tra imprese situate ad un diverso livello della catena produttiva o distributiva. Tale tipologia di accordi gode generalmente di un trattamento più favorevole rispetto agli accordi orizzontali, in quanto, contrariamente a questi ultimi, non coinvolge concorrenti diretti e può talvolta determinare guadagni di efficienza, generando effetti pro competitivi[14].

Riguardo quest’ultimo punto, occorre precisare che le intese in generale (ex artt. 2 L. n. 287/90  e 101 TFUE) possono essere autorizzate ai sensi degli artt. 4 L. 287/90[15] e 101, par. 3, TFUE[16], se presentano più effetti positivi che negativi.

Illustrate, sinteticamente, le caratteristiche delle cosiddette intese anticoncorrenziali, è opportuno rivolgersi all’altro illecito antitrust, ovvero all’abuso di posizione dominante, disciplinato dagli artt. 3 L n. 287/1990[17] e 102 TFUE[18].

Il concetto di posizione dominante è stato definito con una storica sentenza come “una posizione di potenza economica, grazie alla quale l’impresa che la detiene è in grado di ostacolare la persistenza di una concorrenza effettiva sul mercato in questione, e ha la possibilità di tenere comportamenti alquanto indipendenti nei confronti dei concorrenti, dei clienti e, in ultima analisi, dei consumatori”[19].

La disciplina antitrust non intende vietare la posizione dominante in quanto tale ma esclusivamente il suo abuso a danno dei consumatori e dei concorrenti, anche potenziali. La sussistenza di una posizione di dominanza non è infatti circostanza necessariamente distorsiva del mercato ma, al contrario, può anche creare efficienza[20].

Le norme sopra citate esemplificano alcune condotte che possono essere considerate abusive se poste in essere da un’impresa in posizione dominante, non fornendo tuttavia una definizione generale di abuso. Secondo la giurisprudenza comunitaria quest’ultimo “è una nozione oggettiva, che riguarda il comportamento dell’impresa in posizione dominante atto ad influire sulla struttura di un mercato in cui, proprio per il fatto che vi opera detta impresa, il grado di concorrenza è già sminuito e che ha come effetto di ostacolare, ricorrendo a mezzi diversi da quelli su cui impernia la concorrenza normale tra prodotti e servizi, fondata sulle prestazioni degli operatori economici, la conservazione del grado di concorrenza ancora esistente sul mercato o lo sviluppo di detta concorrenza”[21].

Più nello specifico, è possibile distinguere gli abusi di posizione dominante per “sfruttamento” da quelli per “esclusione” (tale distinzione è applicabile anche alle intese, seppur con contorni differenti).

Quanto alla prima fattispecie, si tratta di quelle condotte in cui l’operatore dominante sfrutta in modo iniquo il suo potere di mercato, direzionando il suo comportamento in modo diretto sugli acquirenti dei suoi beni o servizi; basti pensare all’imposizione di prezzi o altre condizioni di transazione ingiustificatamente gravose.

Con riguardo, invece, agli abusi di posizione dominante cosiddetti escludenti, si tratta di quelle delle condotte, assunte dall’impresa dominante, dirette ad impedire od ostacolare l’accesso o la permanenza nel mercato agli altri concorrenti (anche potenziali), in modo da rendere impraticabile una concorrenza effettiva.

In tali ipotesi, per la configurazione dell’illecito, è necessario che la condotta sia idonea ad ostacolare la concorrenza, che avvenga attraverso il ricorso a mezzi diversi da quelli tipici di una “competition on the merit” e che sia, contestualmente, prevedibile ex ante come abusiva[22].

Alcune fattispecie rilevanti di abusi escludenti sono la compressione dei margini, il rifiuto a contrarre, i prezzi predatori, i rapporti di esclusiva e gli sconti condizionati.

La compressione dei margini di rivendita (c.d. “margin squeeze”) è la condotta di un’impresa verticalmente integrata – dominante nel mercato di un input a monte e operante in concorrenza con altre imprese nel mercato a valle – consistente nel fissare i prezzi all’ingrosso dell’input a un livello così elevato (in relazione ai prezzi di vendita del proprio prodotto o servizio nel mercato a valle) da non lasciare all’impresa concorrente attiva solo nel mercato a valle (di efficienza pari quantomeno all’operatore dominante) un margine di rivendita sufficiente per continuare ad operare (ostacolando al tempo stesso l’accesso a nuovi entranti).

Diversamente, il rifiuto a contrarre può in genere configurarsi allorquando l’impresa dominante, a fronte di un obbligo a contrarre derivante dalla detenzione di risorse indispensabili e non facilmente duplicabili per operare su un dato mercato (cfr. c.d. essential facility doctrine), non abbia opposto giustificati motivi per negare la negoziazione ai concorrenti. La condotta abusiva può estrinsecarsi non solamente in un rifiuto “secco” ma anche in ritardi o condizioni inique (c.d. rifiuto costruttivo).

Viene invece definitiva predatoria quella condotta dell’impresa dominante volta a praticare prezzi sotto costo per finalità escludenti. In tal caso l’incumbent sopporta intenzionalmente per un certo periodo un sacrificio economico con l’obiettivo di aumentare il proprio potere di mercato, ed escludere così concorrenti e nuovi entranti.

I rapporti di esclusiva e gli sconti condizionati costituiscono invece figure illecite consistenti nel fidelizzare i clienti con rapporti di esclusiva o praticando loro sconti condizionati a determinati comportamenti di acquisto. Abusi a carattere escludente di questo tipo possono essere ad es. realizzati: attraverso l’offerta congiunta di più prodotti da parte dell’impresa dominante; attraverso  le pratiche di vendita abbinata (c.d. tying) con le quali l’impresa condiziona l’acquisto del prodotto principale all’acquisto del prodotto abbinato; con la vendita aggregata (c.d. bundling) in cui i prodotti sono venduti solo insieme, in proporzioni fisse (il bundling puro si distingue dal bundling misto mediante il quale, invece, i due prodotti sono venduti separatamente, ma il pacchetto è posto a un prezzo inferiore rispetto a quello complessivo dei due prodotti acquistati separatamente).

Ciò premesso in tema di illeciti concorrenziali, nel paragrafo successivo la trattazione volgerà sulla responsabilità civile cui gli stessi possono dare origine.

2. La responsabilità civile

Come già sopra accennato, in Europa gli illeciti antitrust hanno una natura doppia, in quanto possono essere fonti tanto di responsabilità amministrativa che di responsabilità extracontrattuale. L’enforcement pubblico del diritto della concorrenza è in particolare garantito dalle autorità antitrust nazionali (in Italia l’AGCM) e dalla Commissione europea i quali, nelle rispettive aree di competenza, sono normativamente deputatati all’accertamento degli illeciti ed all’irrogazione di eventuali sanzioni amministrative.

L’enforcement privato, invece, vede come soggetti attivi sostanzialmente le imprese concorrenti (anche potenziali), gli acquirenti ed i fornitori, i quali, oltre alle facoltà e agli interessi che possono eventualmente avanzare in sede amministrativa e nella relativa giurisdizione, sono legittimati altresì alla proposizione di istanze di risarcimento danni (e di nullità) dinanzi ai giudici civili degli Stati membri, qualora ritengano di essere stati danneggiati da una violazione delle norme antitrust nazionali ovvero europee[23].

Riguardo la legitimatio ad causam, la giurisprudenza comunitaria ha da tempo ritenuto che il riconoscimento a “chiunque” del diritto di agire al fine di ottenere il pieno risarcimento dei danni derivante da una infrazione delle norme antitrust, rappresenta il presupposto necessario per la salvaguardia dei principi di pienezza, effettività ed equivalenza della tutela giurisdizionale. Oggi, la direttiva UE n. 104 del 2014[24], e tramite essa il decreto n. 3/17[25], riconoscono espressamente a qualunque soggetto danneggiato il diritto al risarcimento del danno da violazione del diritto della concorrenza, anche se si tratti di acquirente indiretto dell’autore della violazione[26].

In Italia, in materia di risarcimenti de quibus, troverà dunque applicazione l’istituto dell’illecito aquiliano di cui all’art. 2043 c.c., i cui elementi essenziali, com’è noto, sono il fatto illecito, l’elemento soggettivo, il danno ingiusto nonché il nesso di causalità che deve avvincere il danno alla condotta illecita.

Giova evidenziare che in materia la prova degli altri elementi costitutivi della responsabilità,  essendo posta a carico dell’attore secondo la disciplina generale, può essere più o meno gravosa a seconda che si tratti di azioni follow-on ovvero stand-alone.

Infatti, qualora l’iniziativa privata sia seguita a quella pubblica, l’attore può provare più agevolmente la responsabilità del convenuto attesa la possibilità di avvalersi, da un lato, delle prove acquisite in sede amministrativa e, dall’altro lato, dell’efficacia vincolante delle decisioni delle autorità di concorrenza (e della Commissione) circa l’integrazione dell’illecito (come su questo ultimo punto si vedrà meglio nel prosieguo).

Nel caso di azioni stand-alone, invece, la prova può essere estremamente più ardua in presenza di illeciti particolarmente insidiosi e in assenza di materiale probatorio derivante di un previo accertamento della violazione da parte dell’autorità pubblica, che contribuirebbe indubbiamente a colmare, almeno in parte, le asimmetrie informative. Infatti, specialmente con riguardo a tali azioni risarcitorie il principio di effettività della tutela può subire forte pressione in senso negativo, dal momento che gli elementi di prova necessari per comprovare la fondatezza della domanda sono spesso detenuti esclusivamente dalla controparte o da terzi e non sono sufficientemente noti o accessibili all’attore o pretendente tale. Il D.Lgs. n. 3/2017 tenta di ovviare a tali problematiche, come si vedrà meglio in seguito.

Ciò detto (rinviando al paragrafo precedente circa le condotte illecite), appare utile soffermarsi brevemente sulla caratterizzazione degli elementi della responsabilità civile in materia antitrust, anticipando qualche novità introdotta dal D.Lgs. n. 3/17.

Per quanto concerne l’elemento soggettivo (ovvero l’aver agito con dolo o con colpa), la sua prova può essere difficoltosa per l’attore tanto nelle azioni follow-on che stand-alone, atteso che la sussistenza della responsabilità amministrativa per violazione del diritto della concorrenza può talvolta prescindere dalla prova dell’elemento soggettivo.

Al fine di alleggerire al danneggiato l’onere probatorio dell’elemento soggettivo nelle cause risarcitorie, parte della dottrina ha suggerito l’applicazione in via analogica dell’art. 2600 c.c.[27] (operante in tema di concorrenza sleale) alla materia antitrust, atteso il silenzio del legislatore italiano ed europeo sul punto.

La citata disposizione, infatti, opera una presunzione di colpa a carico degli operatori professionali del mercato, nel caso in cui si accerti la sussistenza di atti di concorrenza sleale.

L’applicazione di tale disposizione consentirebbe pertanto di invertire l’onere della prova anche in materia di antitrust; il soggetto danneggiato da un illecito concorrenziale sarebbe dunque esentato dalla prova dell’elemento soggettivo (qualora risultasse provato il fatto illecito), mentre graverebbe  sull’impresa convenuta la prova di aver agito in assenza di colpa o dolo.

Nonostante la natura professionale delle imprese che possono rendersi autrici di violazioni del diritto della concorrenza, parte della giurisprudenza non ritiene applicabile l’art. 2600 c.c. in materia antitrust, affermando che le relative azioni risarcitorie necessitano dell’allegazione di un fatto illecito che, nella sua struttura, coinvolga anche l’elemento psicologico del dolo o della colpa[28].

Con riferimento al danno ingiusto, sono risarcibili il danno emergente, il lucro cessante e gli interessi, essendo la sua natura esclusivamente compensativa e non anche punitiva[29].

Tra le varie voci, in ipotesi di illecito escludente può venire in rilevo il c.d. “danno da perdita di chance” (intendendosi per perdita di chance la lesione dell’aspettativa maturata da un soggetto, rispetto al conseguimento di un futuro vantaggio economico); si pensi, ad esempio, ad un abuso di posizione dominante che precluda ad un potenziale entrante l’opportunità di presentarsi sul mercato. Secondo l’orientamento giurisprudenziale maggioritario, si tratta di un pregiudizio da qualificarsi in termini di danno emergente[30].

Un’altra particolare forma di danno che può prodursi in materia è quella relativa al trasferimento del sovrapprezzo (c.d. passing on), il quale ha ricevuto una specifica disciplina da parte del D.Lgs. n. 3/2017[31].

Tale particolare danno si spiega in ragione della stessa struttura del mercato, il quale è caratterizzato da una serie di rapporti verticali tra operatori che complessivamente formano una catena. Attraverso questa catena il livello produttivo viene collegato a quello distributivo, e i benefici e i costi che si verificano al livello produttivo della catena influenzano i livelli successivi.

In generale il trasferimento (passing-on) è un fenomeno economico neutro: prezzi, qualità dei beni, innovazioni, inefficienze possono tutti transitare ai livelli sottostanti.

Tuttavia, allorquando un sovrapprezzo sia l’effetto di un illecito concorrenziale, lo stesso si configura come un danno ingiusto, rappresentato dalla differenza tra il prezzo praticato a seguito dell’illecito e il prezzo che sarebbe stato praticato in sua assenza.

È inoltre possibile che il sovrapprezzo derivante da una violazione antitrust venga trasferito dal primo acquirente a quello successivo e così fino alla fine della catena, ossia generalmente fino al consumatore. In proposito il decreto riconosce tanto per gli acquirenti diretti quanto quelli indiretti il diritto al risarcimento del danno.

Per quanto concerne i soggetti danneggiati, la misura dovuta come danno emergente non può tuttavia superare il danno da sovrapprezzo cagionato dall’autore della violazione ad un dato livello della catena di approvvigionamento, fermo restando il diritto a chiedere la misura dovuta per il lucro cessante e gli interessi. L’autore della violazione può invocare a propria difesa, soddisfacendo l’onere della prova, la c.d. eccezione di trasferimento, allorquando l’attore ha trasferito il sovrapprezzo ad un livello più basso della catena di approvvigionamento[32].

Quanto alla quantificazione del danno derivante da un illecito concorrenziale, la direttiva europea n. 104/2014, al fine di mantenere l’effetto utile della disciplina medesima, ha prescritto che i giudici degli Stati membri, tenuto conto dei parametri delle procedure nazionali, debbano stimare l’ammontare del danno attraverso criteri precisi e determinanti che, tenendo conto dell’asimmetria informativa delle parti, non rendano eccessivamente difficoltosa la sua quantificazione.

A riguardo, l’art. 14 co. 1 del D.Lgs. n. 3/17, ha statuito che il giudice determina il danno secondo le disposizioni degli artt. 1223, 1226 e 1227 c.c.. Il successivo co. 3 del citato art. 14, introduce inoltre un importante strumento di ausilio per il giudicante, ovvero la facoltà di chiedere assistenza all’autorità garante della concorrenza circa gli orientamenti che riguardano la  quantificazione del danno, purché l’assistenza risulti appropriata in relazione all’esigenza di salvaguardare l’efficacia dell’applicazione del diritto della concorrenza a livello pubblicistico[33].

Relativamente al nesso eziologico tra il fatto illecito e il danno-conseguenza, la giurisprudenza di legittimità ha costantemente riconosciuto che il giudice può desumere la sua esistenza anche attraverso criteri di alta probabilità logica o per il tramite di presunzioni[34]. Appare evidente che, soprattutto nelle azioni follow-on, l’autore della violazione ha un onere probatorio stringente per smentire la sussistenza del nesso (qualora fosse accertato il fatto illecito ed il danno), in quanto deve provare fatti o comportamenti specifici idonei ad interromperlo[35].

A seconda della diversa tipologia di illecito, ovvero di sfruttamento o escludente (tanto nel caso di intese che di abuso di posizione dominante), si prospettano due diversi metodi di ricostruzione controfattuale per desumere la sussistenza del nesso causale (e del danno) in materia: l’uno di comparazione e l’altro di simulazione.

Nel primo caso, occorre aver riguardo al mercato di riferimento o a mercati geograficamente diversi ma omogenei o ancora a mercati di prodotti diversi ma con caratteristiche simili, in relazione ai quali devono determinarsi alcuni parametri (c.d. variabili economiche rilevanti, quali prezzi, volumi di vendite, quote di mercato e così via) atti a ricostruire lo scenario ipotetico dal quale prendere le mosse, per metterlo poi a confronto con le circostanze reali del caso concreto, quali ad esempio il prezzo effettivamente corrisposto dal danneggiato-attore. Con la simulazione, invece, si muoverà dalle caratteristiche del mercato reale di riferimento e da indici del suo probabile andamento in assenza della perturbazione della concorrenza, basandosi su elementi di organizzazione industriale  ovvero di analisi finanziaria.

Peraltro, ai sensi dell’art. 14, comma II, D.Lgs. 3/2017, il danno e, dunque, il nesso causale, in caso di cartello accertato da un’autorità di concorrenza o dal giudice si presumono iuris tantum (potendo l’autore della violazione fornire prova contraria).

Analoga presunzione è stata posta dal menzionato provvedimento in tema di trasferimento del sovrapprezzo sugli acquirenti indiretti; nel caso in cui sia un acquirente indiretto a chiedere il risarcimento del danno, il sovrapprezzo è infatti presunto se lo stesso è in grado di dimostrare che l’autore originario della violazione ha commesso una violazione del diritto della concorrenza, che quest’ultima violazione ha effettivamente determinato un sovrapprezzo per l’acquirente diretto, e che l’acquirente indiretto ha acquistato beni o servizi oggetto della violazione[36].

L’art. 9 del D.Lgs. n. 3/2017 ha inoltre operato importanti deroghe all’art. 2055 c.c. in tema di responsabilità solidale, ponendo una disciplina speciale per le piccole e medie imprese (PMI) e per quelle beneficiarie dell’immunità in sede pubblicistica[37].

In particolare, relativamente alla PMI, il decreto ha stabilito che la stessa, qualora abbia violato il diritto della concorrenza, è responsabile in solido (con le altre imprese cui è imputabile il danno) solo nei confronti dei propri acquirenti diretti e indiretti, se la sua “quota nel mercato rilevante è rimasta inferiore al cinque per cento per il tempo in cui si è protratta la violazione” e se “l’applicazione delle ordinarie regole in materia di responsabilità solidale determinerebbe un pregiudizio irreparabile per la sua solidità economica e la totale perdita di valore delle sue attività”. Tale limitazione di responsabilità viene tuttavia meno allorquando i danneggiati diversi dagli acquirenti diretti e indiretti della PMI non hanno potuto ottenere l’integrale risarcimento del danno dalle altre imprese coinvolte, ovvero ove “la PMI ha svolto un ruolo di guida nella violazione del diritto della concorrenza o costretto altre imprese a parteciparvi” o ancora “quando risulta accertato che la PMI ha commesso in precedenza una violazione del diritto della concorrenza”.

Anche riguardo l’impresa beneficiaria dell’immunità il decreto ha limitato la sua responsabilità solidale nei confronti dei suoi soli acquirenti o fornitori diretti o indiretti, ad eccezione del caso in cui gli altri soggetti danneggiati   non hanno potuto ottenere l’integrale risarcimento del danno dalle altre imprese coinvolte nella stessa violazione del diritto antitrust.

Il diritto al risarcimento del danno da violazioni antitrust si prescrive nel termine di cinque anni, decorrente dalla cessazione della violazione o (se successiva) dalla conoscenza, o dalla ragionevole conoscibilità, da parte dell’attore, della condotta e del fatto che tale condotta costituisce una violazione del diritto della concorrenza, del fatto che la violazione del diritto della concorrenza gli ha cagionato un danno e dell’identità dell’autore della violazione[38].

In tema di responsabilità solidale, l’art. 9 co. 4 D.Lgs. n. 3/2017, ha invece stabilito che il termine di prescrizione inizia a decorrere nei confronti delle imprese che possono beneficiare della limitazione della responsabilità ex art. 9 cit., dal momento in cui risulta accerto che i soggetti danneggiati diversi dai loro acquirenti (o fornitori) diretti o indiretti non possano ottenere il ristoro dell’intero pregiudizio subito dalle altre imprese coinvolte nella violazione.

3. Il private enforcement antitrust alla luce della direttiva 104/2014/UE e del D. Lgs. n. 3/17

Come già anticipato nell’introduzione della presente dissertazione, la ratio della direttiva europea 104/2014/UE – recepita in Italia con il D.Lgs. n. 3 del 2017 – è quella di uniformare i regimi degli Stati membri in materia di risarcimento del danno antitrust e di potenziare al tempo stesso l’enforcement antitrust privato, armonizzandolo con il lato pubblico.

Prima che fosse emanata la citata direttiva le disposizioni nazionali presentavano scarsa uniformità in materia; l’inesistenza di misure di  armonizzazione a livello europeo ha prodotto incertezze e disuguaglianze, non solo sul piano processuale ma anche su quello sostanziale.

Le marcate differenze fra le legislazioni nazionali hanno in particolare esposto le imprese a rischi diversi ed i danneggiati ad una tutela differenziata a seconda dello Stato del foro, con conseguenze negative anche sulla concorrenza medesima.

Il descritto approccio disallineato da parte degli Stati membri ha creato, per lungo tempo, soprattutto gravi problemi di certezza del diritto. Sotto tale aspetto, la Corte di Giustizia, specialmente a partire dalle sentenze “Courage”[39] e “Manfredi”[40], aveva in più occasioni rammentato che in mancanza di una disciplina comunitaria in materia, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro designare i giudici competenti e stabilire le modalità procedurali dei ricorsi, purché dette modalità non siano meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna (principio di equivalenza) né rendano praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività).

Nel ragionamento della Corte, rendere effettivamente operanti i principi di equivalenza ed effettività attraverso la predisposizione di strumenti idonei, rafforzerebbe il principio di certezza del diritto ed il carattere operativo delle stesse regole di concorrenza europee e nazionali.

I giudici europei, inoltre, hanno posto l’accento sulla necessità di elaborare criteri di liquidazione del danno efficaci e che possano garantire il pieno ristoro dei danni prodotti dalla violazione delle norme antitrust, nell’ambito di azioni fondate tanto sulle regole di concorrenza comunitarie che nazionali.

Con la direttiva 2014/104/UE il Legislatore europeo ha inteso recepire le indicazioni fornite dalla Corte di Giustizia, intervenendo specialmente sull’effettività della tutela giurisdizionale[41], e tentando il ravvicinamento delle norme nazionali che regolano le azioni in esame, in modo da garantire condizioni normative più uniformi per imprese e danneggiati.

Facendo propri i principi della direttiva, il decreto legislativo n. 3/2017  ha innovato la disciplina del risarcimento del danno conseguente ad una violazione antitrust sotto un profilo sostanziale e procedurale (come in parte già anticipato nel paragrafo precedente). Gli interventi più rilevanti hanno in particolare riguardato quei profili che, più di altri, hanno costituito un ostacolo all’esercizio dell’azione di risarcimento in materia, come l’accesso e l’esibizione delle prove. Scopo di molte innovazioni è infatti quello di ridurre l’asimmetria informativa tra l’autore dell’illecito e il danneggiato, e di agevolare l’onere della prova a quest’ultimo.

In proposito, una fondamentale novità è costituita dall’approccio comune[42] circa gli effetti delle decisioni definitive delle autorità nazionali garanti della concorrenza, nell’ottica di un maggiore coordinamento tra la sfera privata e quella pubblica del diritto antitrust.

Sul punto, nell’ambito del D.Lgs. n. 3/17, vengono in rilievo due tipologie di prove, ovvero vincolanti e privilegiate; in particolare, l’art. 7[43] del decreto menzionato statuisce che le violazioni antitrust constatate da decisioni dell’AGCM si ritengono definitivamente accertate, quanto alla natura della violazione e alla sua portata materiale, personale, temporale e territoriale, ma non invece per quanto attiene il nesso di causalità e l’esistenza del danno. Si tratta dunque di prove vincolanti per il giudice, seppur entro i delineati confini[44]. Le decisioni definitive delle autorità di concorrenza degli altri Stati membri, invece, valgono come prove privilegiate (per le quali è ammessa prova contraria) potendo il giudice valutarle come prove della natura e della portata (materiale, personale, temporale e territoriale) della violazione, “unitamente” ad altri mezzi di prova.

La scelta legislativa di conferire carattere di prove vincolanti e privilegiate alle citate decisioni è chiaramente volta ad alleggerire l’onere della prova in capo al danneggiato, in virtù della definitività dell’accertamento dell’infrazione (essendo le decisioni di un’autorità non più soggette ad impugnazione poiché, ad es., non sono state impugnate nei termini o poiché, se impugnate, l’eventuale provvedimento negativo del giudice del ricorso è passato in giudicato).

Al fine di riequilibrare la posizione probatoria della parte danneggiata sono poi state elaborate precise modalità di accesso a documenti in possesso di autorità garanti della concorrenza o di terzi, attraverso un bilanciamento di interessi volto ad evitare di trasformare le esigenze di tutela in una indiscriminata e generalizzata divulgazione di informazioni “sensibili”[45].

In particole, secondo l’attuale disciplina, laddove una parte faccia richiesta di esibizione di prove, il giudice nazionale può ordinarne la divulgazione solo a seguito di un rigoroso controllo sotto il duplice profilo della necessità e proporzionalità di tale misura. Dai criteri di proporzionalità e necessità consegue che il tentativo di limitare l’asimmetria informativa non può costituire il veicolo per realizzare una indiscriminata divulgazione delle prove incluse nel fascicolo di un’autorità garante della concorrenza, o nella disponibilità di terzi. Il diritto di ottenere la divulgazione delle prove ritenute rilevanti a sostegno della domanda spiegata in giudizio viene riconosciuto, infatti, purché la misura richiesta sia fondata su fatti e prove ragionevolmente disponibili, a carico di terzi ovvero incluse nel fascicolo di un’autorità garante della concorrenza, laddove tali prove non possano essere ragionevolmente ottenute aliunde.

Il corretto bilanciamento di interessi permette di preservare così il principio di riservatezza, soprattutto laddove le prove richieste possano contenere segreti aziendali o altre informazioni riservate, tali da dover essere adeguatamente protetti. Una divulgazione “ampia” potrebbe anche rischiare di compromettere la strategia di indagine di un’autorità garante della concorrenza, potendo generare un effetto negativo sulla cooperazione tra  le imprese e le autorità medesime.

A quest’ultimo proposito, è stato espressamente esclusa la divulgazione di prove e documenti relativi a programmi di clemenza e procedure di transazione, al fine di non dissuadere le imprese dal collaborare con le autorità di concorrenza.

Sotto altro profilo, l’art. 3 del D.Lgs. n. 3/2017[46] ha previsto che l’esibizione possa essere ordinata dal giudice su istanza motivata della parte, contenente l’indicazione dei fatti e delle prove “ragionevolmente” disponibili dalla controparte o dal terzo, purché sufficienti a sostenere la plausibilità della domanda[47].Il giudice è tenuto, poi, a valutare la portata e i costi dell’esibizione, in specie per i terzi interessati, soprattutto se le prove di cui è richiesta l’esibizione contengono informazioni che non devono essere divulgate.

Nell’ipotesi in cui l’ordine di esibizione contenga informazioni riservate (di natura personale, commerciale, industriale e finanziario relative a persone ed imprese, nonché segreti commerciali), il giudice deve infatti disporre specifiche misure di tutela, quali, l’obbligo del segreto, la possibilità di non rendere visibili le parti riservate di un documento, la conduzione di audizioni a porte  chiuse, la limitazione  del  numero  di  persone autorizzate a  prendere  visione  delle  prove, il conferimento  ad esperti dell’incarico di redigere sintesi delle informazioni, in forma aggregata o in altra forma non riservata. Al fine di preservare il principio del contraddittorio con tutte le garanzie che ne discendono, è fatto salvo il diritto della parte o del terzo, nei cui confronti è richiesta l’esibizione, di “essere sentiti”, al fine di sollevare eventuali questioni di riservatezza. Resta, ad ogni modo, ferma la segretezza delle comunicazioni tra clienti e legali incaricati di assisterli.

L’art. 4 D.Lgs. n. 3/2017 ha posto una speciale disciplina nell’ipotesi in cui la misura dell’esibizione delle prove abbia ad oggetto elementi contenuti nel fascicolo di un’autorità garante della concorrenza (ex art. 1 L n. 3/17). La norma, in particolare, ha stabilito che il giudice può ordinare l’esibizione dei documenti contenuti nel fascicolo un’autorità garante della concorrenza a conclusione del relativo procedimento e, solo eccezionalmente, nell’ambito di un procedimento ancora in corso.

Nel valutare la proporzionalità dell’ordine in esame, il giudice deve tener conto del grado di specificità della richiesta, dell’attinenza rispetto all’azione promossa e di eventuali esigenze di salvaguardia dell’efficace applicazione pubblicistica del diritto della concorrenza, potendo dunque negare l’esibizione nel caso di inosservanza dei descritti requisiti.

Il regime di acquisizione delle prove nella disponibilità delle autorità subisce una differenziazione a seconda che le stesse rientrino nella cosiddetta lista bianca, grigia o nera.

Con riferimento alle prove relative a procedimenti conclusi, la loro acquisizione non è vincolata a particolari limiti, potendo acquisirsi le informazioni rese nell’ambito di un procedimento di un’autorità garante della concorrenza, quelle che l’autorità garante della concorrenza ha redatto e comunicato alle parti nel corso del suo procedimento, ed infine le proposte di transazione che sono state revocate (c.d. lista bianca).

Al contrario, come sopra esposto, l’acquisizione di elementi probatori aventi ad oggetto dichiarazioni legate ad un programma di clemenza ovvero a proposte di transazioni non revocate, è sempre esclusa (c.d. lista nera)[48].

Le categorie di prove che non rientrano in quelle sopra citate (c.d. lista grigia) possono invece essere acquisite anche prima della conclusione del procedimento da parte dell’autorità.

L’art. 6 D.Lgs. n. 3/2017 pone infine sanzioni amministrative a carico della parte e del terzo in caso di rifiuto ingiustificato o di inottemperanza dell’ordine di esibizione del giudice, di distruzione di prove rilevanti, e di abuso di informazioni ottenute tramite l’accesso al fascicolo di un’autorità.

I commi 6 e 7 dell’articolo menzionato, al fine di scoraggiare condotte fraudolente e dissimulatorie, rispettivamente dispongono che “se la parte rifiuta senza giustificato motivo di rispettare l’ordine di esibizione del giudice a norma dell’articolo 3 o non adempie allo stesso, ovvero distrugge prove rilevanti ai fini del giudizio di risarcimento, il giudice, valutato ogni elemento di prova, può ritenere provato il fatto al quale la prova si riferisce”, e che, “se la parte utilizza prove in violazione dei limiti di cui all’articolo 5, il giudice può respingere in tutto o in parte le domande e le eccezioni alle quali le prove si riferiscono”.

4. Private enforcement antitrust e nuova azione di classe

L’art. 1 del D.Lgs. n. 3/2017 riconosce espressamente la possibilità di esperire, nell’ambito di azioni risarcitorie in materia di violazioni di norme antitrust , l’azione di classe di cui all’articolo 140-bis del codice del  consumo (D.Lgs. n. 206/2005)[49][50].

Tale estensione inconfutabilmente favorisce un irrobustimento del principio di tutela giurisdizionale effettiva a favore dei soggetti che hanno subito un danno a causa di una violazione del diritto della concorrenza nazionale o europeo, e la salvaguardia, al tempo stesso, del principio di economia processuale.

Tuttavia, occorre considerare che l’effetto “rafforzativo” del diritto della concorrenza da parte dell’azione di classe consumeristica è stato sino ad oggi alquanto limitato (come lo è stato, del resto, per altri ambiti).

Infatti, da un punto di vista soggettivo, la stessa può essere esperita a salvaguardia di diritti individuali omogenei (e di interessi collettivi) soltanto di consumatori e utenti ex art. 3 co. 1 lett. a)  D.Lgs. n. 206/2005, ovvero a tutela di quelle persone fisiche che agiscono “per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta”. Lo strumento in esame preclude dunque la protezione dei diritti individuali omogenei di tutti quei soggetti, persone fisiche o giuridiche, che agendo nell’ambito di un’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale, abbiano subito un danno da un’impresa (anche derivante da comportamenti anticoncorrenziali).

Inoltre, sotto un profilo oggettivo, per gli stessi consumatori e utenti l’utilizzo della class action disciplinata dal codice del consumo non è stato finora agevole, soprattutto se si considera il rigido sistema delle adesioni, l’assenza di incentivi economici per la proposizione dell’azione nonché le difficoltà probatorie incombenti su parte attrice  occasionate, in special modo, dalle asimmetrie informative tra danneggiati (difficoltà attenuate in materia di risarcimenti antitrust con l’introduzione del D.Lgs. n. 3/17).

La necessità di un sistema di ricorso collettivo (anche in materia di concorrenza) teso a superare le inefficienze procedurali delle legislazioni degli Stati membri ed a garantire adeguata tutela non solo a consumatori ma anche a piccole imprese (i soggetti più scoraggiati alla proposizione di rimedi risarcitori in virtù della frequente tenuità dei danni subiti) , era già stata palesata dalla Commissione negli anni passati[51].

Solo di recente, con la L. n. 31/2019, il legislatore italiano ha apportato profonde modifiche alla disciplina dell’istituto in oggetto[52], al fine di superare i limiti dell’azione consumeristica risarcitoria sopra succintamente visti[53].

Nello specifico, l’art. 1 della legge introduce una nuova disciplina organica dell’azione di classe risarcitoria, che verrà integralmente trasposta nel codice di procedura civile al nuovo Titolo VIII-bis, rubricato “dei procedimenti collettivi”[54]; contestualmente all’entrata in vigore della legge verrà infatti abrogato l’art. 140 bis del codice del consumo (oltre agli artt. 139 e 140)[55].

Le novità hanno riguardato molteplici profili procedurali, quali ad es. la legittimazione attiva, il sistema delle adesioni, il regime probatorio e la previsione di compensi speciali per la nuova figura del rappresentante degli aderenti e per l’avvocato del ricorrente.

L’intervento legislativo rappresenta senza dubbio una innovazione (forse anche discutibile) per l’intero ordinamento giuridico, le cui applicazioni concrete potrebbero estendersi ad ogni ambito di azione di un’impresa (per l’accertamento tanto della responsabilità contrattuale che aquiliana).

Per quanto più strettamente concerne il diritto della concorrenza, occorre rilevare che la nuova azione di classe appare conferire maggiore effettività al diritto della concorrenza, in virtù della sua portata deterrente. Infatti, come meglio si vedrà in seguito, l’applicazione della disciplina della nuova azione di classe, specialmente se applicata unitamente al D.Lgs. n. 3/17, può comportare notevoli vantaggi per la parte attrice, soprattutto sotto l’aspetto probatorio (e, di riflesso, considerevoli svantaggi per le imprese convenute).

Si osserva sin da ora che qualora venissero in essere delle  antinomie tra le norme contenute nel D.Lgs n. 3/2017 e quelle di cui alla L. n. 31/2019, gli eventuali contrasti dovrebbero essere risolti in favore del primo strumento, atteso il suo carattere di specialità rispetto alla nuova disciplina in esame.

Tanto premesso, di seguito verranno esaminati gli aspetti salienti e maggiormente innovativi della nuova azione di classe nonché i suoi eventuali punti di connessione con il D.Lgs. n. 3/17.

Ebbene, il profilo maggiormente innovativo è senza dubbio rappresentato dalla circostanza che l’azione di classe perderà l’attuale connotazione consumeristica, in quando potrà essere esperita a tutela di diritti individuali omogenei (ma non più di interessi collettivi) di qualsiasi soggetto giuridico[56].

L’estensione della legittimazione ad agire permetterà dunque l’utilizzo dello strumento di tutela collettiva a tutte le persone fisiche o giuridiche (ad es. imprese) che abbiano subìto un pregiudizio a seguito di condotte lesive poste in essere da altre imprese o anche da enti gestori di servizi pubblici o di pubblica utilità (in presenza del requisito di legge, appunto, dell’omogeneità dei diritti).

La nuova azione potrà essere promossa da ciascun componente della classe ed anche da un’organizzazione o un’associazione senza scopo di lucro i cui obiettivi statutari comprendano la tutela di diritti individuali omogenei, purché iscritte in un elenco pubblico istituito presso il Ministero della giustizia[57]. Diversamente da quanto previsto dall’art. 140 bis del Codice del Consumo, per il quale l’azione può essere promossa (oltre che da consumatori e utenti) anche attraverso un comitato o una associazione tout court, la nuova disciplina prescrive requisiti più stringenti sul punto, evidentemente al fine di scongiurare utilizzi strumentali della nuova azione, specialmente da parte di soggetti attivi sul mercato.

Sotto un profilo strettamente oggettivo, la nuova disciplina non opera alcuna limitazione, diversamente da quanto previsto attualmente dal comma secondo dell’art. 140-bis, cod. cons.. Unica condizione ex art. 840 bis c.p.c., è che l’azione sia promossa nei confronti di imprese ovvero di enti gestori di servizi pubblici o di pubblica utilità “relativamente ad atti e comportamenti posti in essere nello svolgimento delle loro rispettive attività”.

Un indubbio passo verso la celerità del procedimento è dato dall’obbligo del rito sommario di cognizione di cui agli articoli 702-bis e seguenti c.p.c.[58], seppur integrato, e talvolta derogato, dalla nuova disciplina[59]. La competenza, tuttavia, non appartiene al giudice monocratico bensì a quello collegiale presso la sezione specializzata in materia di impresa competente per il luogo ove ha sede la parte resistente[60] (la competenza delle suddette sezioni specializzate sarebbe ad ogni modo rimasta ferma in materia di risarcimento del danno derivante dalla violazione del diritto della concorrenza nazionale ed europeo, in virtù del D.Lgs n. 168/2003).

Per effetto della  L. n. 31/2019 verrà dunque a determinarsi una differenziazione di rito in materia di risarcimenti causati da violazioni del diritto antitrust, ovvero ordinario o sommario, a seconda che azione sia proposta, rispettivamente, in maniera individuale o collettiva. Tale disciplina differenziata, seppur giustificata dalla natura dell’azione collettiva, potrebbe comunque esporsi a rischi di illegittimità costituzionale soprattutto per violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost..

Quanto alla struttura del procedimento, la legge opera un disegno sui generis per l’ordinamento giuridico italiano.

Una delle caratteristiche più singolari è infatti rappresentata dalla circostanza che l’adesione[61] può avvenire in due fasi diverse del giudizio, ovvero dopo l’emanazione dell’ordinanza di ammissibilità dell’azione di classe e dopo l’emanazione della sentenza che accoglie l’azione medesima.

Tuttavia, a prescindere dal momento dell’adesione, gli aderenti potranno vedere accertati i loro diritti solo dopo l’emanazione della sentenza[62]. Esclusivamente il proponente, rectius ricorrente, se diverso da un’organizzazione o da un’associazione ex art. 840 bis c.p.c., può ottenere l’accertamento della sua domanda risarcitoria attraverso la sentenza che accoglie l’azione.

Salva quest’ultima eccezione, la fase che conduce all’emanazione della sentenza che accoglie l’azione è infatti sostanzialmente volta a stabilire l’ammissibilità dell’azione medesima[63] e ad accertare il fatto che il resistente, con la condotta addebitatagli dal ricorrente, ha leso diritti individuali omogenei.

Quanto ai diritti degli aderenti, solo successivamente all’accoglimento dell’azione[64] e alla conclusione della “seconda” procedura di adesione[65], la nuova figura del giudice delegato potrà condannare con decreto motivato il resistente al pagamento delle somme o delle cose dovute a ciascun aderente a titolo di risarcimento o di restituzione, qualora accolga in tutto o in parte la domanda di adesione.

Riguardo il giudice delegato, la sua figura assume dunque particolare importanza nella fase successiva all’emanazione della sentenza che accoglie l’azione, unitamente alla figura del rappresentante degli aderenti, entrambi nominati dal tribunale con la sentenza che accoglie l’azione.

Mentre il giudice delegato è il dominus dell’intera fase successiva alla sentenza, il rappresentante degli aderenti, invece, rappresenta gli aderenti e compie nel loro interesse tutti gli atti, di natura sia sostanziale sia processuale, relativi al diritto individuale omogeneo esposto nella domanda di adesione[66]; predispone inoltre il c.d. “progetto dei diritti individuali omogenei degli aderenti” di cui all’art.840-octies c.p.c., il quale costituirà la principale base decisoria sui diritti degli aderenti per il giudice delegato.

Un’importante prescrizione della nuova legge consiste nell’obbligo di pubblicazione degli atti più importanti del procedimento nell’area pubblica del portale dei servizi telematici gestito dal Ministero della giustizia, al fine di assicurare la massima partecipazione e l’agevole reperibilità delle informazioni.

La procedura di adesione potrà concludersi nelle ipotesi previste dall’art. 840-quinquiesdecies c.p.c.[67].

La L. n. 31/2019, pur non introducendo danni c.d. punitivi[68] a favore di aderenti e ricorrenti, ha introdotto compensi speciali[69] per talune figure professionali che operano nel procedimento.

In particolare, l’art. 840-novies c.p.c. pone una disciplina speciale (rispetto a quella generale in materia di spese di giustizia) sui compensi del rappresentante comune degli aderenti e dell’avvocato che ha difeso il ricorrente fino alla sentenza che accoglie l’azione (c.d. quota lite)[70].

La nuova norma ha infatti stabilito che il giudice delegato, con il decreto di condanna del resistente di cui all’art. 840-octies c.p.c., possa condannare il convenuto a corrispondere ai soggetti sopra richiamati un compenso calcolato sull’importo complessivo dovuto a tutti gli aderenti, ed in maniera inversamente proporzionale al numero degli aderenti stessi (le percentuali fissate dalla norma potranno tuttavia essere modificate con decreto del Ministro della giustizia) .

Il compenso del rappresentante degli aderenti così determinato potrà essere aumentato o diminuito dal giudice delegato in misura non superiore al cinquanta per cento sulla base della complessità dell’incarico, della qualità dell’opera prestata, della sollecitudine con cui sono state condotte le attività, dell’eventuale ricorso all’opera di coadiutori, ed infine del numero degli aderenti.

Il compenso dell’avvocato, invece, sulla base dei medesimi criteri appena visti, potrà solo essere ridotto in misura non superiore al cinquanta per cento.

Per quanto concerne gli eventuali difensori degli aderenti, si applicheranno le disposizione del decreto di cui all’art. 13 L. n. 247/2012.

Quanto al regime probatorio, preliminarmente si evidenzia che spetta al ricorrente provare l’ammissibilità dell’azione e la condotta illecita del convenuto, oltre agli elementi che costituiscono il fondamento della sua eventuale domanda risarcitoria. Gli aderenti, invece, possono solo esporre i fatti costituenti le ragioni della domanda di adesione, attraverso mezzi di prova esclusivamente documentali[71].

Ciò premesso, la L. n. 31/2019, poiché volta a stimolare l’utilizzo dell’azione di classe anche attraverso la riduzione dell’asimmetria informativa e dell’onere probatorio gravante sui danneggiati, riprende principi che in tema di prove ispirano il D.Lgs n. 3/2017, specialmente in tema  di accesso alla prova.

L’art. 840-quinquies c.p.c. pone infatti una speciale e dettagliata disciplina in materia di ordine di esibizione di prove, quasi identica alla disposizione di cui all’art. 3 D.Lgs n. 3/2017. L’unica differenza è di ordine soggettivo; l’ordine di esibizione di cui alla  L. n. 31/2019 potrà infatti essere impartito su istanza del solo ricorrente e nei soli confronti della controparte processuale, diversamente da quanto stabilito dall’art. 3 D.Lgs n. 3/2017, secondo il quale destinatari dell’ordine possono essere anche i terzi. Attesa la specialità del D.Lgs n. 3/2017, resteranno salve le sue disposizioni in materia nonché quelle in tema di esibizione delle prove contenute nel fascicolo di un’autorità garante della concorrenza[72].

Una disciplina analoga a quella posta dall’art. 6 D.Lgs n. 3/2017 è stata inoltre prevista dal citato art. 840-quinquies c.p.c. in tema di sanzioni amministrative. La nuova norma, in particolare, prevedere delle elevate sanzioni pecuniarie a carico della parte che rifiuta senza giustificato motivo di rispettare l’ordine di esibizione del giudice o non adempie allo stesso, nonché alla parte o al terzo che distrugge prove rilevanti ai fini del giudizio. Il trattamento sanzionatorio è tuttavia più mite rispetto a quello previsto dall’art. 6 D.Lgs n. 3/2017 per i medesimi soggetti e per le stesse ipotesi astratte[73]. Anche la parte o il terzo che dovesse distruggere prove rilevanti ai fini del giudizio potrà essere esposto ad un trattamento differenziato a seconda che si tratti di azioni di classe fondate sul diritto della concorrenza o meno. Tali disparità sanzionatorie, soprattutto in relazione al terzo nell’ipotesi di distruzione di prove rilevanti, potrebbe prestare il fianco a sindacati di costituzionalità.

Una indiscussa novità, anche rispetto al D.Lgs n. 3/2017, è la possibilità per il tribunale di accertare la responsabilità del resistente avvalendosi di dati statistici e di presunzioni semplici. Tale norma, contenuta nell’art. 840-quinquies c.p.c., si estenderà agli elementi costitutivi della responsabilità. Il legislatore sembrerebbe dunque che abbia inteso derogare al requisito posto dall’art. 2729, co. 2, c.c. in tema di presunzioni semplici.

Il D.Lgs n. 3/2017, seppur innovativo sotto plurimi aspetti, non contiene una norma di natura analoga a quella contenuta nell’articolo 840-quinquies c.p.c. sopra menzionato e, pertanto, sul tema continueranno ad applicarsi alle azioni individuali le regole ordinarie (così come interpretate dalla giurisprudenza in relazione al diritto antitrust). Tale circostanza potrebbe rischiare di determinare un ingiustificato trattamento differenziato delle controversie promosse ex L. n. 31/2019 (e  D.Lgs n. 3/2017) rispetto a quelle individuali instaurate solamente in virtù del decreto.

La L. n. 31/2019 pone una disciplina speciale in tema di sospensione del procedimento, che può essere disposto nella fase del giudizio relativa al sindacato di ammissibilità dell’azione (disciplina pone problemi di coordinamento con l’ipotesi di sospensione exLgs n. 3/2017).

In particolare, l’art. 840-ter c.p.c. stabilisce che il giudicante può decidere di sospendere il giudizio di ammissibilità quando sui fatti rilevanti ai fini del decidere è in corso un’istruttoria davanti a un’autorità indipendente ovvero un giudizio davanti al giudice amministrativo, salva l’applicazione del D.Lgs n. 3/2017. A quest’ultimo riguardo, il legislatore sembra riferirsi all’ipotesi di sospensione contemplata dell’art. 4, co. 8 del decreto, ai sensi del quale la stessa può avvenire se sui fatti rilevanti ai fini del decidere è in corso un procedimento davanti a un’autorità garante della concorrenza e debbano acquisirsi categorie di prova rientranti nella c.d. “lista bianca”, ove la loro acquisizione immediata comprometterebbe l’efficacia dell’applicazione a livello pubblicistico del diritto della concorrenza[74].

La sospensione ex L. n. 31/2019 ha una porta soggettiva[75] più ampia rispetto a quella ex art. 4 D.Lgs n. 3/2017, giacché la prima potrà essere disposta ove un’istruttoria sia pendente dinanzi alle altre autorità indipendenti (ovvero un giudizio sia in corso dinanzi davanti al giudice amministrativo), diversamente dalla seconda, che può trovare applicazione solo allorquando un procedimento sia in corso dinanzi a un’autorità garante della concorrenza.

Alla luce della formulazione legislativa appare che entrambe le ipotesi di sospensione possano trovare applicazione nelle controversie collettive in materia di risarcimenti antitrust (l’art. 4 D.Lgs n. 3/2017 trova così applicazione allorquando il procedimento sia pendente dinanzi davanti a un’autorità garante della concorrenza, mentre l’art. 840-ter c.p.c. troverà applicazione nel caso in cui un’istruttoria sia pendente dinanzi ad altre autorità indipendenti).

In conclusione, alla luce di tutto quanto sopra illustrato, è possibile affermare che la L. n. 31/2019 accorda in generale nuovi e/o maggiori strumenti di tutela in capo ai soggetti danneggiati da un comportamento illecito di un’impresa o di un ente gestore di servizi pubblici o di pubblica utilità.

Relativamente al diritto della concorrenza, l’applicazione congiunta della legge sopra citata e del D.Lgs n. 3/2017 comporterà, a giudizio di chi scrive, un aumento della sua efficacia deterrente.

Si dubita tuttavia che il nuovo strumento possa trovare una diffusione comparabile con la class action statunitense, soprattutto per la mancata previsione di danni punitivi a favore di aderenti e ricorrenti[76].

Ad ogni modo, se la modifica della disciplina dell’azione collettiva si è resa necessaria sin dai primi tempi di vigenza del codice del consumo, la L. n. 31/2019 (benché abbia accolto, almeno in parte, gli auspici della Commissione europea) non è tuttavia esente da criticità.

In effetti, dall’esame della nuova disciplina  risultano profili di un giudizio “atipico” potenzialmente in contrasto con alcuni principi dell’ordinamento giuridico italiano.

In particolare, L. n. 31/2019 sembrerebbe creare un’ingiustificata discriminazione, sul piano della tutela, tra i soggetti che accedono al giudizio individuale e quelli che scelgono di promuovere un’azione collettiva (anche in materia di risarcimenti dipendenti da violazioni del diritto della concorrenza, come si è visto sopra).

Dubbi promanano della condanna, prevista nell’ambito della speciale disciplina sull’ordine di esibizione, al pagamento di una sanzione amministrativa in favore della Cassa delle ammende .

I rilievi critici potrebbero infatti discendere dal mancato coordinamento con la disciplina posta dal D.Lgs n. 3/2017, come sopra esposto, ed anche con la disciplina ordinaria prevista nel codice di procedura civile all’art. 210 c.p.c. in tema di ordine di esibizione[77].

 

 

 


[1] La necessità di una ingerenza pubblica per la “tutela” del mercato, non era tuttavia sconosciuta nel passato; ex multis,  con la Lex Iulia de Annona del 18 a.c. circa, i romani criminalizzarono quelle condotte private volte a determinare artificiosamente un aumento dei prezzi “naturali” di beni alimentari. Analoga ratio ispirava le norme contenute in un provvedimento di Zenone del 486 d.c..
Successivamente all’epoca romana e sino all’età moderna, pur ammettendosi in linea generale l’esistenza di monopoli legali, rimane generalmente fermo in area europea il crimen monopolii, in ossequio al bisogno di prevenire il rialzo artificioso dei prezzi (oltre quello “giusto”), soprattutto di beni di prima necessità. Nei sistemi di common law, ad esempio, sempre nell’ottica del contenimento dei prezzi, vennero penalizzate (già a partire dal medioevo) le fattispecie di forestalling, regrating, ed engrossing. Siffatti istituti, unitamente alla dottrina del restraint of trade ed alla lotta del parlamento inglese ai monopoli legali ingiustificati del sedicesimo secolo, segnarono le radici per la nascita, seppur in un altro continente, del moderno diritto antitrust.
[2] Le quali sono sostanzialmente contenute nello Sherman Act e nella legislazione di settore emanata successivamente; a quest’ultimo riguardo, tra gli interventi normativi statunitensi più rilevanti, si rammentano il Clayton Antitrust Act ed il Federal Trade Commission Act, entrambi del 1914, il Robinson–Patman Act del 1936, il Celler–Kefauver Act del 1950 ed il Hart–Scott–Rodino Antitrust Improvements Act  del 1976.
[3] Inoltre, in funzione tanto preventiva che repressiva, sin dallo Sherman Act il Congresso statunitense ha imposto sanzioni penali a carico delle persone responsabili di violazioni dei precetti contenuti nella norme antitrust.
[4] Tra i quali soprattutto rilevano la peculiare disciplina procedurale della class action, l’ammissibilità dei punitive damages e il sistema dei compensi dei difensori.
[5] A parte le scarne disposizioni contenute nel codice civile del 1942, concernerti prevalentemente la concorrenza sleale tra imprese.
[6] Eloquenti del fatto che la Costituzione del 1948 non avesse quale paradigma economico la concorrenza sono soprattutto gli artt. 43 e 41 Cost., il quale ultimo, in particolare, pur riconoscendo che l’iniziativa economica privata è libera, sancisce tuttavia che la stessa “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” e che “la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.
[7] A livello di fonti primarie, già il Trattato istitutivo della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio del 1951 conteneva una pluralità di norme concernenti la concorrenza, come il Trattato istitutivo della Comunità economica europea del 1957, il quale, in particolare, statuiva al suo art. 3 che tra i fini della Comunità vi era anche “la creazione di un regime inteso a garantire che la concorrenza non sia falsata nel mercato comune”, ponendo inoltre una serie di ulteriori disposizioni in materia. Anche gli strumenti adottati successivamente ai Trattati menzionati intenderanno promuovere e tutelare la concorrenza.
L’esplosione di norme di diritto derivato in tema di concorrenza avvenne tuttavia solo successivamente all’adozione dell’Atto unico europeo del 1987. Attualmente, sempre a livello di fonti convenzionali, la più importante base giuridica del diritto antitrust europeo risiede negli artt. 101 e ss. del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea.
[8] Cfr. Reg. CE n. 1/2003.
[9] Soprattutto se accompagnato dall’attività dell’autorità pubblica.
[10] La nuova disciplina, la cui entrata in vigore era originariamente prevista per il 19/04/2020, è tuttavia solo parzialmente collimante con la Raccomandazione n. 396/2013.
[11] Il comma 2 dell’art. 2 L. 287/90 sancisce: “Sono vietate le intese tra imprese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante, anche attraverso attività consistenti nel:
a) fissare direttamente o indirettamente i prezzi d’acquisto o di vendita ovvero altre condizioni contrattuali;
b) impedire o limitare la produzione, gli sbocchi o gli accessi al mercato, gli investimenti, lo sviluppo tecnico o il progresso tecnologico;
c) ripartire i mercati o le fonti di approvvigionamento;
d) applicare, nei rapporti commerciali con altri contraenti, condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti, così da determinare per essi ingiustificati svantaggi nella concorrenza;
e) subordinare la conclusione di contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun rapporto con l’oggetto dei contratti stessi”.
[12] In maniera analoga l’art. 101, par. 1, così recita: “Sono incompatibili con il mercato interno e vietati tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato interno ed in particolare quelli consistenti nel:
a) fissare direttamente o indirettamente i prezzi d’acquisto o di vendita ovvero altre condizioni di transazione;
b) limitare o controllare la produzione, gli sbocchi, lo sviluppo tecnico o gli investimenti;
c) ripartire i mercati o le fonti di approvvigionamento;
d) applicare, nei rapporti commerciali con gli altri contraenti, condizioni dissimili per prestazioni equivalenti, così da determinare per questi ultimi uno svantaggio nella concorrenza;
e) subordinare la conclusione di contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari, che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun nesso con l’oggetto dei contratti stessi”.
[13] Cfr. Commissione 2011/C 11/01, Linee direttrici sull’applicabilità dell’articolo 101 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea agli accordi di cooperazione orizzontale.
[14] Cfr. Regolamento (UE) n. 330/2010 della Commissione, del 20 aprile 2010.
[15] Ai sensi del quale: “1. L’Autorità può autorizzare, con proprio provvedimento, per un periodo limitato, intese o categorie di intese vietate ai sensi dell’articolo 2, che diano luogo a miglioramenti nelle condizioni di offerta sul mercato i quali abbiano assetti tali da comportare un sostanziale beneficio per i consumatori e che siano individuati anche tenendo conto della necessità di assicurare alle imprese la necessaria concorrenzialità sul piano internazionale e connessi in particolare con l’aumento della produzione, o con il miglioramento qualitativo della produzione stessa o della distribuzione ovvero con il progresso tecnico o tecnologico. L’autorizzazione non può comunque consentire restrizioni non strettamente necessarie al raggiungimento delle finalità di cui al presente comma né può consentire che risulti eliminata la concorrenza da una parte sostanziale del mercato. 2. L’Autorità può revocare il provvedimento di autorizzazione in deroga di cui al comma 1, previa diffida, qualora l’interessato abusi dell’autorizzazione ovvero quando venga meno alcuno dei presupposti per l’autorizzazione. 3. La richiesta di autorizzazione è presentata all’Autorità, che si avvale dei poteri di istruttoria di cui all’articolo 14 e provvede entro centoventi giorni dalla presentazione della richiesta stessa”.
[16]Il quale dispone: “Tuttavia, le disposizioni del paragrafo 1 possono essere dichiarate inapplicabili:
– a qualsiasi accordo o categoria di accordi fra imprese,
– a qualsiasi decisione o categoria di decisioni di associazioni di imprese, e
– a qualsiasi pratica concordata o categoria di pratiche concordate,
che contribuiscano a migliorare la produzione o la distribuzione dei prodotti o a promuovere il progresso tecnico o economico, pur riservando agli utilizzatori una congrua parte dell’utile che ne deriva, ed evitando di:
a) imporre alle imprese interessate restrizioni che non siano indispensabili per raggiungere tali obiettivi;
b) dare a tali imprese la possibilità di eliminare la concorrenza per una parte sostanziale dei prodotti di cui trattasi”.
[17] Ai sensi del quale: “1. È vietato l’abuso da parte di una o più imprese di una posizione dominante all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante, ed inoltre è vietato:
a) imporre direttamente o indirettamente prezzi di acquisto, di vendita o altre condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose;
b) impedire o limitare la produzione, gli sbocchi o gli accessi al mercato, lo sviluppo tecnico o il progresso tecnologico, a danno dei consumatori;
c) applicare nei rapporti commerciali con altri contraenti condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti, così da determinare per essi ingiustificati svantaggi nella concorrenza;
d) subordinare la conclusione dei contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari che, per loro natura e secondo gli usi commerciali, non abbiano alcuna connessione con l’oggetto dei contratti stessi”.
[18] Il quale statuisce: “È incompatibile con il mercato interno e vietato, nella misura in cui possa essere pregiudizievole al commercio tra Stati membri, lo sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese di una posizione dominante sul mercato interno o su una parte sostanziale di questo.
Tali pratiche abusive possono consistere in particolare:
a) nell’imporre direttamente od indirettamente prezzi d’acquisto, di vendita od altre condizioni di transazione non eque;
b) nel limitare la produzione, gli sbocchi o lo sviluppo tecnico, a danno dei consumatori;
c) nell’applicare nei rapporti commerciali con gli altri contraenti condizioni dissimili per prestazioni equivalenti, determinando così per questi ultimi uno svantaggio per la concorrenza;
d) nel subordinare la conclusione di contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari, che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun nesso con l’oggetto dei contratti stessi”.
[19] Corte di Giustizia CE, C 27/76, sentenza del 14 febbraio 1978 (United Brands Company e United Brands Continentaal c. Commissione).
[20] Cfr. Corte di Giustizia UE, C 413/14, sentenza 6 settembre 2017 (Intel C. c. Commissione).
[21] Corte di Giustizia CE, C 85/97, sentenza 13 febbraio 1979 (Hoffman-La Roche & Co. AG c. Commissione).
[22] Cfr. Corte di Giustizia UE, C 280/08, sentenza 14 ottobre 2018 (Deutsche Telekom AG c. Commissione).
[23] Cfr. artt. 33 L. n. 287/90 e 18 D.lgs. n. 3/2017.
[24] Cfr. art. 3, par. 1.
[25] Cfr. art. 2, c 1 lett. c) e art. 10, comma I.
[26] Ai sensi dell’art. 2 D.Lgs. 3/2017 per “acquirente diretto” si intende una persona fisica, una persona giuridica o un ente privo di personalità giuridica che ha acquistato, direttamente dall’autore della violazione, beni o servizi, laddove per  “acquirente indiretto” si intende una persona fisica, una persona giuridica o un ente privo di personalità giuridica che ha acquistato non direttamente dall’autore della violazione, ma da un acquirente diretto o da un acquirente successivo, beni o servizi.
[27] L’art. 2600 c.c., così recita: “Se gli atti di concorrenza sleale sono compiuti con dolo o con colpa, l’autore è tenuto al risarcimento dei danni. In tale ipotesi può essere ordinata la pubblicazione della sentenza. Accertati gli atti di concorrenza, la colpa si presume”.
[28] Cfr. Cass. S.U., 4 febbraio 2005, n. 2207, per la quale l’attore è tenuto a provare anche la sussistenza dell’elemento soggettivo richiesto dall’art. 2043 c.c., dovendosi escludere l’applicabilità della presunzione di colpevolezza di cui all’art. 2600 c.c. alla materia antitrust.
[29] Cfr. art. 3 dir. 104/2014/UE.
[30] Si ritiene che la chance costituisca infatti un autonomo bene già presente nel patrimonio del danneggiato. In particolare, la Suprema Corte afferma che “la perdita di chance, consistente nella privazione della possibilità di sviluppi o progressioni nell’attività lavorativa, costituisce un danno patrimoniale risarcibile, qualora sussista un pregiudizio certo (anche se non nel suo ammontare) consistente non in un lucro cessante, bensì nel danno emergente da perdita di una possibilità attuale” Cass., sez. III, 21 luglio 2003, n. 11322. Ne consegue che la chance è anch’essa una entità patrimoniale giuridicamente ed economicamente valutabile, la cui perdita produce un danno attuale e risarcibile.
[31] V. artt. 10,11, 12 e 13.
[32] V. art. 11 D.Lgs. n. 3/17.
[33] L’art. 14, comma 3, D.Lgs. n. 3/2017, così recita: “Il giudice può chiedere assistenza all’Autorità Garante della concorrenza formulando specifiche richieste  sugli  orientamenti  che riguardano la  quantificazione  del  danno.  Salvo  che  l’assistenza risulti non appropriata in relazione alle esigenze  di  salvaguardare l’efficacia dell’applicazione a  livello  pubblicistico  del  diritto della concorrenza, l’autorità garante presta l’assistenza  richiesta nelle forme  e  con  le  modalità che  il  giudice  indica  sentita l’autorità medesima”.
[34] Cfr., Cass., sez. III, 23.2.2007, n. 2305.
[35] Cfr. Cass. 2011/11610; in senso conforme, Cass. 2014/11904. V. inoltre Cass. 2014 n. 11904, sul tipo di prova che deve offrire l’autore della violazione, non essendo sufficienti semplici presunzioni (ovvero la prova di fatti sopravvenuti estranei all’illecito, idonei a determinare da soli l’aumento del prezzo).
[36] Cfr. art. 12 D.Lgs. n. 3/17.
[37] Sull’immunità in oggetto v. art. 15, co. 2 bis L. n. 287/1990.
[38] La prescrizione, inoltre, ai sensi dell’art. 8,co. 2 D.Lgs. n. 3/2017 “rimane sospesa quando l’autorità garante della concorrenza avvia un’indagine o un’istruttoria in relazione alla violazione del diritto della concorrenza cui si riferisce l’azione per il diritto al risarcimento del danno. La sospensione si protrae per un anno dal momento in cui la decisione relativa alla violazione del diritto della concorrenza è divenuta definitiva o dopo che il procedimento si è chiuso in altro modo”.
[39] Cfr. Corte di Giustizia CE, C 453/99, sentenza  del 20 settembre 2001 (Courage Ltd c. Bernard Crehan e Bernard Crehan c. Courage Ltd e altri). La vicenda prende avvio dalla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Court of Appeal England&Wales, Civil Division, a norma dell’art. 234 CE. In particolare il rinvio, sottoponeva al vaglio della Corte ben quattro questioni pregiudiziali attinenti all’interpretazione dell’art. 85 del Trattato CE (divenuto ora l’art. 105 TFUE), e di altre disposizioni del diritto comunitario.
Più nello specifico il caso inerisce la gestione di una public house, da tutti meglio conosciuta come pub. Il sig. Crehan, titolare di una public house, aveva concluso un contratto di fornitura con un produttore di birra; convenuto in giudizio da quest’ultimo per il mancato pagamento delle forniture, aveva eccepito la nullità del contratto di fornitura per violazione dell’Articolo 81 del Trattato CE. Il sig. Crehan lamentava infatti di essere stato danneggiato dai prezzi d’acquisto delle forniture di birra, in quanto la Courage applicava prezzi più bassi ai gestori di pub indipendenti mentre aveva mantenuto fermi quelli applicati agli esercenti locatari IEL vincolati alla stessa da una clausola di esclusiva. Secondo il convenuto la perdita di profitto che derivava ai locatari IEL da tale pratica era tale da non poter permettere la prosecuzione dell’attività. In sintesi, la Corte di Giustizia ha stabilito che un contraente ha diritto ad ottenere il risarcimento dei danni subiti a seguito dell’esecuzione di un contratto che viola l’articolo 81. Unico limite alla pretesa risarcitoria dell’attore è che questi non deve avere avuto un ruolo significativo nella restrizione della concorrenza.
[40] Cfr. Corte di Giustizia CE, cause riunite C-295/04 e C-298/04, sentenza del 13 luglio 2006, (Manfredi e altri c. Lloyd Adriatico Assicurazioni e altri). Tale provvedimento è relativo ad una questione pregiudiziale sollevata dal GdP di Bitonto (il quale, all’esito del giudizio, con sentenza 1/05/2007, ha inflitto danni punitivi alle parti convenute, liquidando, pur in mancanza di domanda espressa, una somma pari al doppio dei premi pagati all’impresa assicuratrice convenuta, in virtù di contratti conclusi in attuazione di un’intesa anticoncorrenziale illecita, dichiarando in sentenza che in caso di azione di danni per violazione della disciplina antitrust, il giudice deve liquidare il danno con criteri idonei a garantire un effetto deterrente nei confronti della parte convenuta).
In tale occasione la Corte di Giustizia ha precisato che: “il risarcimento esemplare o punitivo può essere certamente riconosciuto nell’ambito di azioni nazionali analoghe alle azioni fondate sulle regole comunitarie di concorrenza, sebbene il diritto comunitario non osti a che i giudici nazionali vigilino affinché la tutela dei diritti garantiti dall’ordinamento giuridico comunitario non comporti un arricchimento senza causa degli aventi diritto (…)”. In particolare, la Corte ha osservato che: “ (…) D’altro lato, dal principio di effettività e dal diritto del singolo di chiedere il risarcimento del danno causato da un contratto o da un comportamento idoneo a restringere o a falsare il gioco della concorrenza discende che le persone che hanno subìto un danno devono poter chiedere il risarcimento non solo del danno reale (damnum emergens), ma anche del mancato guadagno (lucrum cessans), nonché il pagamento degli interessi”.
[41] Riguardo al principio di effettività, l’art. 4 della direttiva statuisce espressamente che “il diritto al risarcimento previsto dal diritto dell’Unione per i danni derivanti dalle violazioni del diritto della concorrenza dell’Unione e nazionale richiede che ciascuno Stato membro disponga di norme procedurali che garantiscano l’effettivo esercizio di tale diritto. La necessità di mezzi di ricorso procedurali efficaci deriva anche dal diritto a una tutela giurisdizionale effettiva come previsto all’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, del trattato sull’Unione europea (TUE) e all’articolo 47, primo comma, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Gli Stati membri dovrebbero assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione”. Cfr. invece l’art. 3 quando al diritto a un pieno risarcimento.
[42] L’art. 9 della direttiva 2014/104/UE ha statuito infatti che la constatazione definitiva da parte delle autorità nazionali di concorrenza (o del giudice del ricorso) di una violazione degli artt. 101 o 102 TFUE o del diritto nazionale della concorrenza deve essere ritenuta definitivamente accertata nell’ambito delle azioni di risarcimento promosse dinanzi ai giudici nazionali, anche di Stati membri diversi da quelli in cui la constatazione è avvenuta, quantomeno come prova prima facie della sussistenza del fatto illecito.
[43] L’art. 7 D.Lgs. n. 3/2017 sancisce sull’argomento: “1. Ai fini dell’azione per il risarcimento del danno si ritiene definitivamente accertata, nei confronti dell’autore, la violazione del diritto della concorrenza constatata da una decisione dell’autorità garante della concorrenza e del mercato di cui all’articolo 10 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, non più soggetta ad impugnazione davanti al giudice del ricorso, o da una sentenza del giudice del ricorso passata in giudicato. Il sindacato del giudice del ricorso comporta la verifica diretta dei fatti posti a fondamento della decisione impugnata e si estende anche ai profili tecnici che non presentano un oggettivo margine di opinabilità, il cui esame sia necessario per giudicare la legittimità della decisione medesima. Quanto previsto al primo periodo riguarda la natura della violazione e la sua portata materiale, personale, temporale e territoriale, ma non il nesso di causalità e l’esistenza del danno.  2. La decisione definitiva con cui una autorità nazionale garante della concorrenza o il giudice del ricorso di altro Stato membro accerta una violazione del diritto della concorrenza costituisce prova, nei confronti dell’autore, della natura della violazione e della sua portata materiale, personale, temporale e territoriale, valutabile insieme ad altre prove. 3. Le disposizioni del presente articolo lasciano impregiudicati le facoltà e gli obblighi del giudice ai sensi dell’articolo 267 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea”.
[44] Peraltro, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione avevano già riconosciuto al provvedimento sanzionatorio dell’Autorità il valore di prova privilegiata in grado di operare come presunzione semplice, suscettibile di prova contraria da parte del convenuto attraverso qualsiasi mezzo di prova ammesso. V. Cass., Sez. Un., 13 febbraio 2009, n. 3640; idem Cass., 5 ottobre 2010, n. 20665 e Cass., 10 maggio 2011, n. 10211.
[45] Cfr. artt. 5, 6, 7 e 8 direttiva 104/2014/UE.
[46] Ai sensi del quale: “nelle azioni per il risarcimento del danno a causa di una violazione del diritto della concorrenza,  u istanza motivata della parte, contenente l’indicazione di fatti e prove ragionevolmente disponibili dalla controparte o dal terzo, sufficienti a sostenere la plausibilità della domanda di risarcimento del danno o della difesa, il giudice può ordinare alle parti o al terzo l’esibizione delle prove rilevanti che rientrano nella loro disponibilità a norma delle disposizioni del presente capo. 2. Il giudice dispone a norma del comma 1 individuando specificatamente e in modo circoscritto gli elementi di prova o le rilevanti categorie di prove oggetto della richiesta o dell’ordine di esibizione. La categoria di prove è individuata mediante il riferimento a caratteristiche comuni dei suoi elementi costitutivi come la natura, il periodo durante il quale sono stati formati, l’oggetto o il contenuto degli elementi di prova di cui è richiesta l’esibizione e che rientrano nella stessa categoria. 3. Il giudice ordina l’esibizione, nei limiti di quanto è proporzionato alla decisione e, in particolare: a) esamina in quale misura la domanda di risarcimento o la difesa sono sostenute da fatti e prove disponibili che giustificano l’ordine di esibizione; b) esamina la portata e i costi dell’esibizione, in specie per i terzi interessati; c) valuta se le prove di cui è richiesta l’esibizione contengono informazioni riservate, in specie se riguardanti terzi. 4. Quando la richiesta o l’ordine di esibizione hanno per oggetto informazioni riservate, il giudice dispone specifiche misure di tutela tra le quali l’obbligo del segreto, la possibilità di non rendere visibili le parti riservate di un documento, la conduzione di audizioni a porte chiuse, la limitazione del numero di persone autorizzate a prendere visione delle prove, il conferimento ad esperti dell’incarico di redigere sintesi delle informazioni in forma aggregata o in altra forma non riservata. Si considerano informazioni riservate i documenti che contengono informazioni riservate di carattere personale, commerciale, industriale e finanziario relative a persone ed imprese, nonché i segreti commerciali. 5. La parte o il terzo nei cui confronti è rivolta la istanza di esibizione hanno diritto di essere sentiti prima che il giudice provveda a norma del presente articolo. 6. Resta ferma la riservatezza delle comunicazioni tra avvocati incaricati di assistere la parte e il cliente stesso”.
[47] L’ordine di esibizione previsto dal D.Lgs. n. 3/2017 presenta profili parzialmente diversi rispetto a quello previsto dall’art. 210 c.p.c., in quanto i requisiti di ammissibilità del primo appaiono meno rigidi del secondo. Infatti, l’ordine di esibizione ex D.Lgs. n. 3/2017 è ammissibile nel caso in cui sia “ragionevole” supporre l’esistenza di prove nella disponibilità della controparte o dei terzi (e queste siano idonee a “sostenere la plausibilità” della domanda); diversamente l’istanza ex art. 210 c.p.c., necessita di specifiche indicazioni sull’esistenza e sul contenuto del documento o di altra cosa di cui è chiesta l’esibizione, e tale circostanza ha reso l’esperimento dell’istanza in oggetto poco agevole in materia. Peraltro, la necessità di elasticità dei requisiti di ammissibilità della richiesta di esibizione è stata, per così dire, vaticinata anche dalla Corte di Cassazione in tempi recenti (Cfr. Cass. civ., sez. I, 4 giugno 2015, n. 11564), la quale suggeriva una interpretazione estensiva delle condizioni stabilite dal codice di procedura civile in tema di esibizione di documenti, richiesta di informazioni e consulenza tecnica d’ufficio.
[48] In tali ipotesi il giudice, su istanza motivata dell’attore, può chiedere assistenza all’autorità garante della concorrenza affinché acceda a tali prove al fine di garantire che il loro contenuto corrisponda alle definizioni di cui all’articolo 2, comma 1, lettere n) e p) del decreto.
[49] Tale possibilità è del resto contemplata anche dallo stesso art. 140-bis cit. al suo secondo comma (così come modificato dall’articolo 6, comma 1, lettera e, del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla Legge 24 marzo 2012, n. 27).
[50] Giova precisare sin da ora che per effetto dell’art. 6 co. 2 L. n. 31/2019, il richiamo all’azione di classe di cui al D.Lgs. n. 206/2005, compiuto dal D.Lgs. n. 3/17, si intenderà effettuato alla nuova azione di classe di cui alla medesima L. n. 31/2019, a partire dalla sua entrata in vigore.
[51] Cfr. CE, Libro Bianco, in materia di azioni di risarcimento del danno per violazione delle norme antitrust comunitarie, del 2.4.2008 e, in relazione al ricorso collettivo in generale, la già citata Raccomandazione n. 396/2013.
In relazione al Libro Bianco del 2008, in particolare, la Commissione proponeva di introdurre due diverse tipologie di azioni collettive, l’una di gruppo, l’altra rappresentativa; mentre l’azione di gruppo può essere proposta da due o più soggetti che abbiano sofferto un danno a causa della medesima violazione, quella rappresentativa può essere invece proposta esclusivamente dalle associazioni maggiormente rappresentative nell’interesse di tutti i membri della “classe”.
[52] Ed a quello dell’azione inibitoria collettiva, che tuttavia non sarà oggetto di trattazione in questa sede.
[53] Come già anticipato nell’introduzione, l’entrata in vigore delle disposizioni contenute nel provvedimento menzionato era originariamente posticipata a dodici mesi dalla sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale ex art. 7 L. n. 31/2019. Attualmente, l’entrata in vigore della nuova disciplina, per effetto dell’art. 8 D.L. n. 162/2019, è prevista per il 19 novembre 2020. Quanto ai rapporti intertemporali tra la “vecchia” e la “nuova” disciplina, l’articolo citato prevede in particolare che “le disposizioni della presente legge si applicano alle condotte illecite poste in essere successivamente alla data della sua entrata in vigore. Alle condotte illecite poste in essere precedentemente continuano ad applicarsi le disposizioni vigenti prima della medesima data di entrata in vigore”.
[54] Verrà inoltre aggiunto il Titolo V-bis nelle disposizioni di attuazione del codice: cfr. art. 2 L. n. 31/2019.
[55] V. art. 5 L. n. 31/2019.
[56] Cfr. ll nuovo art. 840 bis c.p.c., di cui all’art. 1 L. n. 31/2019.
[57] Cfr. ll nuovo art. 196-ter delle disposizioni di attuazione del c.p.c., di cui all’art. 2 L. n. 31/2019  “Elenco delle organizzazioni e associazioni legittimate all’azione di classe –  Con decreto del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, previo parere delle Commissioni parlamentari competenti, sono stabiliti i requisiti per l’iscrizione nell’elenco di cui all’articolo 840-bis, secondo comma, del codice, i criteri per la sospensione e la cancellazione delle organizzazioni e associazioni iscritte, nonché’ il contributo dovuto ai fini dell’iscrizione e del mantenimento della stessa. Il contributo di cui al presente comma è fissato in misura tale da consentire comunque di far fronte alle spese di istituzione, di sviluppo e di aggiornamento dell’elenco. I requisiti per l’iscrizione comprendono la verifica delle finalità programmatiche, dell’adeguatezza a rappresentare e tutelare i diritti omogenei azionati e della stabilità e continuità delle associazioni e delle organizzazioni stesse, nonché’ la verifica delle fonti di finanziamento utilizzate. Con il medesimo decreto sono stabilite le modalità di aggiornamento dell’elenco». 2. Il decreto previsto dall’articolo 196-ter delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile, introdotto dal comma 1 del presente articolo, e’ adottato entro centottanta giorni dalla data di pubblicazione della presente legge”.
[58] Cfr.art. 840-ter c.p.c..
[59] Il nuovo art. 840-ter c.p.c. dispone inoltre che l’azione si propone con ricorso (diversamente dall’art. 140-bis D.Lgs. n. 206/2005, che prescrive l’utilizzo dell’atto di citazione), il quale, unitamente al decreto di fissazione dell’udienza, dovrà essere pubblicato nell’area pubblica del portale dei servizi telematici gestito dal Ministero della giustizia entro dieci giorni dal deposito del decreto medesimo. La data di pubblicazione del ricorso è di particolare rilevanza in quanto, per effetto del nuovo art. 840-quater c.p.c., decorsi sessanta giorni dalla stessa non possono essere proposte ulteriori azioni di classe sulla base dei medesimi fatti e nei confronti del medesimo resistente (tranne nelle ipotesi disciplinate dal medesimo articolo).
[60] Crf. art. 840-ter citato.
[61] La quale dovrà avvenire secondo le modalità stabilite dall’art. 840-septies c.p.c.
[62] L’adesione all’azione, ex  art. 840-quinquies c.p.c., .non comporterà infatti l’assunzione della qualità di parte, la quale resterà in capo ai soli proponenti. Gli aderenti hanno comunque diritto ad accedere al fascicolo informatico e a ricevere tutte le comunicazioni a cura della cancelleria.
[63] L’art. 840-ter c.p.c. stabilisce che entro il termine di trenta giorni dalla prima udienza il tribunale dovrà decidere con ordinanza sull’ammissibilità della domanda.
In maniera del tutto analoga a quanto sancito dall’art. 140-bis, co. 6 D.Lgs. n. 206/2005, il nuovo art. 840-ter c.p.c. prevede delle ipotesi speciali di inammissibilità della domanda proposta in primo grado, la quale potrà essere dichiarata inammissibile quando è manifestamente infondata, quando il giudice non ravvisa omogeneità dei diritti individuali; quando il ricorrente versa in stato di conflitto di interessi nei confronti del resistente, ed infine quando il ricorrente non appare in grado di curare adeguatamente i diritti individuali omogenei fatti valere in giudizio.
L’art. 840-ter c.p.c. ammette espressamente la possibilità di riproporre l’azione dichiarata inammissibile quando si siano verificati mutamenti delle circostanze o vengano dedotte nuove ragioni di fatto o di diritto. L’ordinanza che decide sull’ammissibilità dell’azione di classe, invece, è reclamabile secondo le medesime modalità stabilite dall’art. 140-bis, co. 7 D.Lgs. n. 206/2005; unica novità è costituita dal fatto che il giudice di appello dovrebbe decidere entro trenta giorni dal deposito del ricorso introduttivo del reclamo, in luogo degli attuali quaranta giorni.
L’ordinanza di ammissibilità stabilisce il primo momento a parte dal quale è possibile l’adesione all’azione da parte dei soggetti portatori di diritti individuali omogenei (nel termine non inferiore a sessanta giorni e non superiore a centocinquanta giorni dalla pubblicazione dell’ordinanza medesima). I caratteri dei diritti individuali omogenei dei soggetti legittimati ad aderire sono determinati del giudice con l’ordinanza medesima. L’adesione in tale fase avviene secondo le modalità, in quanto compatibili, stabilite dall’art. 840-septies c.p.c..
[64] Sul contenuto della sentenza cfr. art. 840-sexies c.p.c.
[65]  La “seconda” adesione può avvenire nel termine fissato dal tribunale in sentenza, non inferiore a sessanta giorni e non superiore a centocinquanta giorni dalla data di pubblicazione della sentenza.
[66] Infatti, seppur la domanda di adesione produce gli effetti della domanda giudiziale, la stessa può essere presentata anche senza l’assistenza di un difensore. L’istituzione della figura del rappresentante degli aderenti, che deve essere nominato tra i soggetti aventi i requisiti per la nomina a curatore fallimentare, sembra colmare la possibile assenza di una figura tecnica e professionale volta alla tutela dei diritti degli aderenti.
[67] Per quanto riguarda l’impugnazione della sentenza e del decreto del giudice delegato v. artt. 840-decies e. 840-undecies c.p.c..
[68] L’istituto del c.d. danno punitivo, affermatosi soprattutto negli Stati Uniti d’America, consiste in generale nella condanna dell’autore dell’illecito al pagamento di una somma superiore all’effettivo pregiudizio patito dal danneggiato. Si tratta, quindi, a tutti gli effetti, di una “punizione” a carico del danneggiante, diretta anche alla prevenzione di ulteriori condotte dannose.
L’introduzione di tale istituto nell’ordinamento italiano è stata sempre avversata dalla giurisprudenza in quanto ritenuto contrario all’ordine pubblico. In particolare, l’orientamento giurisprudenziale prevalente (cfr. Cass. n. 1183/2007; Cass. n. 11353/2010 e Cass. n. 8730/2011) riteneva che il risarcimento del danno, così come concepito in Italia, non  potesse essere intenso nel senso di “sanzione” e “punizione”, in quanto teso esclusivamente a ripristinare la sfera patrimoniale del danneggiato. I c.d. punitive damages, difettano infatti del requisito della corrispondenza tra il pregiudizio effettivamente subìto e il danno prodotto.
Nonostante ciò, parte della dottrina ha osservato, non senza critiche, che, benché i danni punitivi sono formalmente contrastati con l’ordinamento italiano, sono tuttavia presenti norme che prevedono il risarcimento in un’ottica, oltre che riparatoria, anche sanzionatoria.
Basti pensare, a titolo esemplificativo, al comma terzo dell’art. 96 c.p.c., a mente del quale “in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”.
Si tratta di un esempio in cui l’ordinamento non si limita a considerare la posizione del danneggiato, ma altresì quella del danneggiante, al fine di incidere come deterrente sulle future condotte abusive.
In linea di continuità con quanto osservato, anche parte della giurisprudenza, seppur minoritaria, ha riconosciuto la possibilità di collegare lo strumento del risarcimento del danno non soltanto alla funzione di riparazione del pregiudizio, ma anche a quella di deterrenza o prevenzione generale dei fatti illeciti nonché sanzionatoria (cfr. Cass. civ. n. 7613/2015).
Le considerazioni ora riportate hanno rappresentato un monito all’importante arresto delle Sezioni Unite, le quali, con sentenza n. 16601/2017, hanno riconosciuto la risarcibilità dei danni punitivi anche in Italia in sede di delibazione delle sentenze straniere e, di conseguenza, che al danneggiato possa attribuito un risarcimento ulteriore a carattere “sanzionatorio” rispetto a quello avente funzione riparatoria.
Nel dettaglio, la sentenza in parola ha operato una innovata interpretazione del concetto di ordine pubblico italiano alla luce dei principi dell’Unione Europea in tema di diritti fondamentali dell’uomo, quali, in posizione preminente, il principio di legalità e proporzionalità delle pene.
Pertanto, le Sezioni Unite, hanno attribuito alla responsabilità civile un ruolo “polifunzionale”, non più riparatoria e compensativa, ma anche punitiva e deterrente, al fine di rispondere in modo più efficace alla evoluzione del diritto e alle esigenze mutevoli della società. Più nello specifico, la Suprema Corte ha stabilito che in sede di riconoscimento delle sentenze straniere l’istituto dei danni punitivi non è ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano, purché la sentenza straniera sia stata emessa sulla base di una norma di legge che permetta la tipicità delle ipotesi di condanna, la loro prevedibilità e i limiti di natura quantitativa al risarcimento stesso. La ratio dei descritti limiti è agevolmente riconducibile alla esigenza espressa dal principio di legalità.
Tale arresto, unitamente ad alcuni interventi legislativi, sembrerebbero aprire le porte per un ingresso più generalizzato dei danni punitivi nel nostro ordinamento.
[69] Molti sono gli interrogativi sulla natura dei compensi in oggetto. Quel che è certo, è che il legislatore ha previsto forme speciali di compensi allo scopo di promuovere lo strumento dell’azione di classe, fornendo un impulso attraverso compensi svincolati dalle regole ordinarie.
In effetti, in passato i maggiori ostacoli all’esercizio dell’azione di classe erano costituiti proprio dagli eccessivi costi che il ricorrente e il suo difensore dovevano affrontare e che, nella maggior parte dei casi, non trovavano compensazione, considerato che spesso il danno subito può essere di esiguo valore.
[70] Tale disciplina si applica anche ai difensori che hanno difeso i ricorrenti delle cause riunite risultati vittoriosi (sulla riunione delle azioni di classe cfr. art. 840-quater c.p.c.).
[71] Cfr. artt. 840-septies e 840-octies c.p.c..
[72] Entrambe le norme prevedono se la parte rifiuta senza giustificato motivo di rispettare l’ordine di esibizione del giudice o non adempie allo stesso, ovvero distrugge prove rilevanti ai fini del giudizio di risarcimento, il giudice, valutato ogni elemento di prova, può ritenere provato il fatto al quale la prova si riferisce
[73] Occorre considerare che nell’ambito del D.Lgs n. 3/2017 sono previste ulteriori ipotesi sanzionatorie e la sanzione prevista per l’ inadempimento dell’ordine di esibizione del giudice si estende anche al terzo (atteso che per effetto del decreto l’ordine può essere impartito anche nei suoi confronti).
[74] In entrambe le ipotesi il procedimento giurisdizionale resterà ovviamente sospeso sino alla chiusura dei procedimenti delle autorità.
[75] La speciale ipotesi di sospensione prevista dal D.Lgs n. 3/2017, da un punto di vista oggettivo, può essere disposta solo in relazione alle categorie di prova di cui dell’art. 4, co. 4 del provvedimento medesimo. Limitazioni analoghe non operano invece rispetto alla disciplina della nuova azione di classe. La ratio di tale differenziazione di disciplina risiede del resto nella particolare funzione e natura delle autorità garanti della concorrenza rispetto alle altre autorità indipendenti.
[76] D’altronde, oltre alla loro dubbia compatibilità con l’ordinamento giuridico italiano, nell’ambito di azioni risarcitorie fondate sul diritto della concorrenza sarebbero comunque stati esclusi per effetto del D.Lgs n. 3/2017, ai sensi del quale il danno risarcibile a titolo di violazione di una norma antitrust non ha natura punitiva, ma esclusivamente compensativa, dal momento che non comporta alcuna sovra-compensazione, conducendo semplicemente al ripristino della situazione precedente alla verificazione del danno.
[77] Invero, l’art. 210 c.p.c. non prevede, al contrario della formulazione dell’art. 840 quinquies c.p.c., una sanzione connessa al rifiuto di esibire. Inoltre, ai sensi della disciplina ordinaria, il giudice, in caso di inadempimento dell’ordine può trarre, secondo la giurisprudenza prevalente, esclusivamente argomenti di prova. L’art. 840 quinquies c.p.c., stabilisce invece che “se la parte rifiuta senza giustificato motivo di rispettare l’ordine di esibizione del giudice o non adempie allo stesso, ovvero distrugge prove rilevanti ai fini del giudizio di risarcimento, il giudice, valutato ogni elemento di prova, può ritenere provato il fatto al quale la prova si riferisce”. Una disposizione analoga è prevista dall’art. 6 D.Lgs n. 3/2017; tuttavia, mentre quest’ultima norma speciale, applicabile sia alle controversie individuali che collettive, può trovare giustificazione nella particolare natura delle cause risarcitorie in ambito antitrust, la disciplina speciale contenuta nell’art. 840 quinquies c.p.c. appare invece creare eccessive differenziazioni rispetto alla disciplina ordinaria applicabile nelle controversie individuali.

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Marco Fazzari

Abilitato all'esercizio della professione forense, con varie esperienze in ambito del diritto amministrativo, civile e penale. Passione per il diritto europeo ed internazionale. L'attuale attività lavorativa è incentrata sul diritto antitrust.

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