Processo Cappato: la Corte Costituzionale sollecita il Parlamento ad intervenire

Processo Cappato: la Corte Costituzionale sollecita il Parlamento ad intervenire

L’attesa pronuncia della Corte Costituzionale del 23 ottobre 2018, avente ad oggetto la legittimità costituzionale del parziale disposto normativo di cui all’art. 580 c.p.., sollevata nel discusso processo Cappato, ha avuto un esito inaspettato. La Consulta, con il comunicato stampa del 24 ottobre 2018, rinvia la trattazione della causa all’udienza del 24 settembre 2019, con il precipuo obiettivo di consentire al Parlamento di intervenire con un’appropriata disciplina idonea a fornire adeguata tutela normativa per le questioni concernenti il fine vita. La predetta ordinanza è in attesa di deposito.

Per meglio far luce sulla questione, è opportuno ripercorrere brevemente le varie fasi che hanno contraddistinto il procedimento penale ove è stato sollecitato l’intervento della Consulta.

L’8 novembre 2017 inizia il processo a carico di Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, imputato per avere aiutato Fabiano Antoniani – meglio conosciuto come Dj Fabo – a raggiungere la Svizzera per sottoporsi al suicidio assistito.

E’ d’obbligo un ulteriore passo indietro. Fabiano Antoniani, reso paraplegico e cieco a seguito di un incidente d’auto avvenuto nel 2014, si rivolge a Cappato e alla sua associazione per realizzare il suo intento, ovvero quello di porre fine alle sue sofferenze.

La richiesta di aiuto viene accolta e il 27 febbraio 2017 Dj Fabo, accompagnato da Cappato, si reca in Svizzera, paese in cui riesce ad ottenere quanto invocato all’Italia ma sempre negato: il diritto a morire, realizzato mediante suicidio assistito. Il giorno seguente Cappato si autodenuncia alle autorità italiane, mettendo in pratica la cosiddetta disobbedienza civile, obiettivo perseguito dall’associazione Coscioni.

Sin dall’inizio, la pubblica accusa propende per l’assoluzione di Cappato richiamando, nella richiesta di archiviazione presentata nel maggio 2017, l’esistenza di un “diritto ad una morte dignitosa” in capo ad Antoniani, come causa di non punibilità dell’aiuto fornito dall’indagato. In subordine, l’organo inquirente richiede di inviare gli atti alla Corte Costituzionale per verificare la legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p.

Entrambe le richieste vengono rigettate dal giudice per le indagini preliminari il quale, in primo luogo, ordina l’imputazione coatta nei confronti del tesoriere, cui si addebita anche il fatto di aver “rafforzato il proposito suicidiario” di Dj Fabo. Secondariamente, il gip ritiene altresì infondata la questione relativa all’art. 580 c.p., reputando tale norma perfettamente coerente con il nostro sistema costituzionale.

Pertanto, si arriva alla fase processuale dinanzi alla Corte di Assise di Milano, durante la quale si procede, oltre all’esame dell’imputato, all’assunzione delle testimonianze rese dalla madre e dalla compagna di Dj Fabo. Entrambe le donne ripercorrono la vicenda cui hanno personalmente e costantemente partecipato, precisando a più riprese come la scelta di morire fosse da imputare unicamente alla volontà di Antoniani, il quale ha sempre sostenuto di preferire la morte piuttosto che rimanere in vita in condizioni per lui umilianti.

Sulla scorta della espletata istruttoria dibattimentale, la Corte di Assise assolve Marco Cappato per l’imputazione relativa all’istigazione al suicidio perché il fatto non sussiste: l’imputato non avrebbe, secondo la ricostruzione operata dall’organo giudicante, rafforzato il proposito di Dj Fabo di ricorrere alla morte.

Diverse le considerazioni della Corte per quanto riguarda l’aiuto al suicidio: difatti, per il restante capo di imputazione, sospende il giudizio e trasmette gli atti alla Corte Costituzionale in attesa del giudizio di costituzionalità sull’art. 580 c.p.

Segnatamente, viene sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito suicidiario, ritenendo tale incriminazione contrastante con i principi di cui agli artt. 3, 13 comma II, 25 comma II, 27 comma III Costituzione, che individuano la ragionevolezza della sanzione penale in funzione dell’offensività della condotta accertata.

In sostanza, i giudici milanesi, alla luce dei principi costituzionali dettati agli artt. 2, 13 comma I della Costituzione ed all’art. 117 della Costituzione, con riferimento agli artt. 2 e 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, ritengono che il suicidio rappresenti l’esercizio di una libertà dell’individuo. All’uomo deve essere riconosciuta la libertà di decidere quando e come morire e che, conseguentemente, solo le azioni che pregiudichino la libertà della sua decisione possano costituire offesa al bene tutelato dalla norma in esame.

Tuttavia la Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi circa la costituzionalità dell’art. 580 c.p., nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o rafforzamento del proposito di suicidio; nonché, in subordine, la porzione della medesima disposizione che prevede il trattamento sanzionatorio – della reclusione da 5 a 12 anni – anche per le condotte di agevolazione dell’esecuzione del suicidio che non incidano sul processo deliberativo dell’aspirante suicida, senza distinguere rispetto alla pena prevista per le condotte di istigazione, decide di astenersi.

Più precisamente, la Consulta invita l’organo legislativo ad intervenire con una disciplina appropriata.

Alla luce della dinamica processuale ripercorsa, sorgono spontanee alcune riflessioni.

Anzitutto, la questione inerente il “fine vita” è da sempre risultata ampiamente dibattuta. Si tratta di tematiche che coinvolgono non soltanto il profilo giuridico ma anche l’aspetto etico-morale, portando inevitabilmente allo scontro le varie forze politiche e legislative.

Il punto nodale di tale dibattito è che, nonostante le contrastanti opinioni in materia, il conflitto si traduce nel silenzio del legislatore causando un inevitabile vuoto normativo e di tutela.

Invero, se da un lato emerge pacificamente l’esistenza di un diritto alla vita[1], dall’altro appare controversa la questione inerente il fine vita: si può parlare di disponibilità del diritto alla vita? Esiste il diritto di morire?

Nondimeno, nel linguaggio comune non è infrequente una certa confusione tra eutanasia attiva e passiva, biotestamento, suicidio assistito, accanimento terapeutico: termini che spesso vengono utilizzati indistintamente ma che in realtà ineriscono concetti ben differenti tra loro.

La battaglia relativa al diritto a morire viene combattuta ormai da svariati anni: basti pensare ai numerosi casi di cronaca[2] che auspicavano un necessario intervento del legislatore, il quale non poteva rimanere indifferente dinanzi tali esigenze.

Ed è per tali ragioni che, nel dicembre 2017, data in cui il processo Cappato era in corso di svolgimento, il Parlamento approva le “norme in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento” – legge 219/2017, più conosciuta come legge sul biotestamento.

Tale intervento normativo, oltre a sancire la disciplina sul consenso informato circa gli accertamenti diagnostici ed i trattamenti sanitari cui sono sottoposti i pazienti, introduce l’istituto delle disposizioni anticipate di trattamento. Detto istituto prevede la possibilità che ogni soggetto, maggiorenne e capace di intendere e di volere, possa redigere delle disposizioni circa i trattamenti sanitari cui essere sottoposto in caso di eventuale futura incapacità di autodeterminarsi.

Indubbiamente, tale novella legislativa rappresenta una conquista significativa per i fautori del richiamato dibattito lasciando, tuttavia, ulteriori perplessità sulle tematiche inerenti il diritto a morire.

Per tutte queste ragioni, persino la Corte Costituzionale ha deciso di astenersi dalla pronuncia di un tema così importante, sollecitando l’intervento dell’organo che più risulta adatto a fornire delle risposte esaurienti: il Parlamento.

Il dibattito è ancora aperto, non rimane che attendere.


[1] Diritto alla vita indubbiamente riconosciuto e tutelato dal momento della nascita dell’individuo. In realtà, più controversa risulta l’esistenza di un diritto a nascere del concepito, alla luce delle posizioni della Chiesa e delle forze politiche conservatrici (contrarie all’utilizzo di contraccettivi nonché alla tanto discussa “pillola del giorno dopo”) le quali ritengono preminente tale diritto. Di contro, si registrano le difformi opinioni di chi, invece, ritiene prevalente l’esigenza di tutela della libertà morale della donna in stato di gravidanza. Ad ogni modo tale dibattito esula dalla trattazione del presente articolo e merita un doveroso ed apposito approfondimento in ulteriori sedi.
[2] Nel 20 dicembre del 2006, Piergiorgio Welby, attivista, giornalista, e co-presidente dell’Associazione Luca Coscioni, con l’aiuto del medico anestesista e dei suoi familiari e amici, sceglie di interrompere le cure e di spegnere il respiratore che lo tiene in vita, immobile a letto a causa della distrofia muscolare. Il 24 luglio 2007 è la volta di Giovanni Nuvoli, morto dopo aver messo in pratica lo sciopero della fame e della sete.
Tuttavia, il caso di cronaca che ha maggiormente mosso l’opinione pubblica è stato quello di Eluana Englaro, entrata in stato vegetativo permanente a seguito dell’incidente occorso. Il padre della donna, nominato quale tutore, riesce a vincere la battaglia legale che ha portato al decesso della donna nel 9 febbraio 2009, per disidratazione sopraggiunta a seguito dell’interruzione della nutrizione artificiale.

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