Quando la coltivazione domestica di stupefacenti non costituisce reato

Quando la coltivazione domestica di stupefacenti non costituisce reato

Sommario1. Gli orientamenti contrapposti – 2. Il principio di offensività – 3. Il principio di offensività nel reato di coltivazione di piante stupefacenti – 4. La tipicità del reato di coltivazione di sostanze stupefacenti – 5. La soluzione prospettata dalle Sezioni Unite

 

 

1. Gli orientamenti contrapposti

Con la sentenza n. 12348/2020 le Sezioni Unite sono intervenute a dirimere un contrasto interpretativo circa le condizioni necessarie a configurare il reato di coltivazione di sostanze stupefacenti.

Al riguardo due sono gli orientamenti che si sono contrapposti.

Secondo il primo indirizzo, perché si configuri il reato di coltivazione di piante stupefacenti, è necessario che la pianta, conforme al tipo botanico vietato, sia idonea a giungere a maturazione e a produrre sostanze ad effetto stupefacente, senza che a nulla rilevi la quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza (in particolare si ricorda la sentenza n. 22459 del 15.03.2013 in cui si è sostenuto che già dalla messa a dimora dei semi è ravvisabile l’attività penalmente rilevante di coltivazione di sostanze stupefacenti; cfr. fra le altre Cass. Pen., sez. III, sent. 31.01.2013, n. 21120; Cass. Pen., sez. VI, sent. 09.01.2014, n. 6753; Cass. Pen., sez. VI, sent. 10.02.2016, n. 10169; Cass. Pen., sez. VI, sent. 10.05.2016 n. 25057; Cass. Pen., sez. IV, sent. 23.11.2016, n. 53337; Cass. Pen., sez. VI, sent. 22.11.2016, n. 52547; Cass. Pen., sez. VI, sent. 28.04.2017, n. 35654; Cass. Pen., sez. IV, sent. 21.05.2019, n. 27213) .

Ad avviso del secondo indirizzo, invece, non è sufficiente che la pianta, conforme al tipo botanico vietato, abbia raggiunto la soglia minima drogante. Si richiede infatti un quid pluris, ossia che tale attività sia concretamente idonea a ledere la salute pubblica e a favorire la circolazione della droga, alimentandone il mercato (cfr. fra le altre Cass. Pen., sez. IV, sent. 17.02.2011, n. 25674; Cass. Pen., sez. III, sent. 09.05.2013, n. 23082; Cass. Pen., sez. VI, sent. 10.11.2015, n. 5254; Cass. Pen., sez. VI, sent. 08.04.2018, n. 33835; Cass. Pen., sez. IV, sent. 19.01.2016, n. 3787).

2. Il principio di offensività

La questione ruota attorno all’individuazione dei confini dell’offensività della condotta di coltivazione di piante stupefacenti, tracciati i quali si potrà individuare il discrimen fra ciò che è consentito dall’ordinamento e ciò che non lo è.

Com’è noto, secondo il principio di offensività sono punibili penalmente esclusivamente quelle condotte idonee ad offendere un bene giuridico tutelato dall’ordinamento.

Come affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 109/2016, il principio di offensività opera su un duplice piano.

Il primo è quello astratto e si rivolge al legislatore, il quale, in virtù del principio dell’extrema ratio alla base del sistema penale, deve limitare il proprio intervento a quei fatti che astrattamente risultano offensivi di beni o interessi ritenuti meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento.

Il secondo invece, la cd. offensività in concreto, opera nel momento dell’applicazione della norma e ha come suo destinatario il Giudice. Quest’ultimo, infatti, è tenuto a qualificare come reati soltanto quei fatti idonei ad offendere in concreto i beni giuridici.

3. Il principio di offensività nel reato di coltivazione di piante stupefacenti

Il principio di offensività applicato alla materia degli stupefacenti è stato oggetto di numerosi interventi della Corte Costituzionale (cfr. fra le altre Corte Cost. sent. 443/1994; Corte Cost. sent. 296/1996; Corte Cost. sent. 109/2016).

In particolare, si rammenta la sentenza n. 360/1995 in cui la Corte Costituzionale ha affermato che la coltivazione di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti è una condotta pericolosa perché “idonea ad attentare al bene della salute dei singoli per il solo fatto di arricchire la provvista esistente di materia prima e quindi di creare potenzialmente più occasioni di spaccio di droga; tanto più che – come già rilevato – l’attività produttiva è destinata ad accrescere indiscriminatamente i quantitativi coltivabili“.

Proprio in virtù di tale rischio, la coltivazione di piante stupefacenti si configura come un reato di pericolo presunto: sottesa alla previsione incriminatrice, sta una valutazione prognostica di potenziale aggressione al bene giuridico protetto (offensività in astratto).

Toccherà poi al Giudice verificare se la condotta è idonea a ledere il bene giuridico della salute (offensività in concreto).

Un problema da non sottovalutare attiene al grado di sviluppo raggiunto dalla coltivazione al momento di tale accertamento.

Detto altrimenti, se la condotta fosse ritenuta inoffensiva ogniqualvolta che al momento dell’accertamento venisse rinvenuta una minima quantità di principio attivo, si correrebbe il rischio (paradossale) di ritenere irrilevante sul piano penalistico una coltivazione di grandi dimensioni con numerose piante per il sol fatto che si trovi all’inizio del processo di maturazione (cfr. sul punto Cass. Pen., sez. III, sent. 16.05.2013, n. 21120).

È perciò necessario che l’accertamento tenga conto del grado di sviluppo raggiunto dalla coltivazione.

Dunque, se il ciclo delle piante si è completato, si deve valutare la quantità di principio attivo necessario a produrre l’effetto drogante.

Se, invece, l’accertamento avviene in un momento precedente, è necessario appurare che la pianta corrisponda al tipo botanico vietato e che la coltivazione si svolga in condizioni tali da poterne prefigurare il positivo sviluppo.

Come affermato dalla sentenza in esame (Cass. Pen., S.U., sent. 14.04.2020, n. 12348), “Sul piano dell’offensività, deve dunque concludersi che il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficiente la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e produrre sostanza stupefacente. e per coltivazione dovrà intendersi l’attività svolta dall’agente in ogni fase dello sviluppo della pianta, dalla semina al raccolto“.

Soltanto tramite un accertamento così diversificato, si evita il rischio che il momento in cui viene condotta la verifica possa influire sull’effettiva sussistenza del reato.

4. La tipicità del reato di coltivazione di sostanze stupefacenti

Sotto il profilo della tipicità che, secondo la teoria tripartita costituisce uno degli elementi del reato insieme all’antigiuridicità e alla colpevolezza, la Suprema Corte di Cassazione ha innanzitutto rilevato che la pianta dev’essere conforme al tipo disciplinato nella fattispecie astratta e dev’essere idonea a produrre sostanze stupefacenti.

Stante la natura di reato di pericolo presunto, “nell’ottica garantista di un corretto bilanciamento fra ampiezza e anticipazione della tutela” (Cass. pen., S.U., sent. 16.04.2020, 12348), la Corte di Cassazione ha ritenuto opportuno interpretare in modo restrittivo la nozione di coltivazione, non essendo possibile ricondurre ogni tipo di coltivazione nei confini di ciò che è penalmente rilevante.

Da un lato avremo quindi quella coltivazione di minime dimensioni finalizzata esclusivamente al consumo personale e caratterizzata da una produttività molto ridotta non in grado di aumentare la provvista di stupefacenti (condotta lecita), dall’altro una coltivazione dotata di una produttività non stimabile a priori con sufficiente grado di precisione (condotta illecita).

Il discrimen è dato dal concetto di produttività prevedibile.

I parametri – tutti necessariamente compresenti – per poter ricondurre la coltivazione nei confini della liceità sono i seguenti: la minima dimensione della coltivazione, il suo svolgimento in forma domestica e non in forma industriale, la rudimentalità delle tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, la mancanza di indici di un inserimento dell’attività nell’ambito del mercato degli stupefacenti, l’oggettiva destinazione di quanto prodotto all’uso personale esclusivo del coltivatore.

Chiaro è che la mera intenzione soggettiva di soddisfare esigenze di consumo personale non è di per sé sufficiente ad escludere la rilevanza penale della coltivazione.

Da ciò si evince che l’irrilevanza penale della coltivazione di minime dimensioni non è da rintracciarsi nella sua assimilazione alla nozione della detenzione e al regime giuridico che ne consegue, bensì alla sua non riconducibilità alla definizione di coltivazione come attività penalmente rilevante.

5. La soluzione prospettata dalle Sezioni Unite

Riassumendo, secondo la Cassazione è lecita, in quanto non tipica, la coltivazione domestica a fine di autoconsumo, e la coltivazione industriale che, all’esito del completo sviluppo delle piante, non produca sostanza stupefacente, in quanto condotta priva di offensività in concreto.

Rimane soggetta al regime sanzionatorio di cui all’art. 75 DPR 309/90 la detenzione di sostanza stupefacente ad uso personale – anche se ottenuta tramite una coltivazione domestica penalmente lecita – nel caso in cui da tale coltivazione sia derivata una sostanza stupefacente dotata di efficacia drogante.

Si sottolinea che l’art. 75 non viene applicato al soggetto agente nella sua qualità di coltivatore, bensì di detentore. Difatti, l’art. 75 non si riferisce in nessun caso alla coltivazione (nemmeno a quella penalmente rilevante).

Nel caso di coltivazione penalmente illecita, che non rispetti quindi le condizioni di cui sopra, si potrà ritenere configurato il reato di cui all’art. 73 DPR 309/1990, con la possibilità di applicare l’art. 131 bis c.p. (in caso di particolare tenuità del fatto) o, in via alternativa, il quinto comma dell’art. 73 DPR 309/1990 (se in presenza dei presupposti per ritenere la minore gravità del fatto).

In conclusione, “Il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente; devono però ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore”.


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Gaia Gagliardi

Laureata nel gennaio 2018 presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano (votazione 110) con una tesi dal titolo "La responsabilità penale dello psichiatra tra obblighi di protezione e obblighi di controllo" (Relatore Prof. G. Forti), ha svolto la pratica forense presso il foro di Milano, specializzandosi in diritto penale.  Ha conseguito un master di secondo livello in diritto penale dell'impresa, discutendo un elaborato finale dal titolo "La fenomenologia della manipolazione del mercato: il pump and dump". Nel dicembre 2021 ha conseguito l'abilitazione all'esercizio della professione forense presso la Corte d'Appello di Milano e attualmente è iscritta all'Albo degli Avvocati di Piacenza.

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