Reati culturalmente orientati con riferimento alla causa degli stessi  in relazione alla responsabilità penale

Reati culturalmente orientati con riferimento alla causa degli stessi in relazione alla responsabilità penale

Ci si soffermi sui reati “culturalmente orientati”, definendone le caratteristiche costitutive ed esaminando se ed in che misura la peculiare causa di tali reati assuma rilevanza nel quadro degli elementi costitutivi della fattispecie di responsabilità penale

La nozione di reato culturalmente orientato o motivato deriva dalla diversità di sistema di credenze di soggetti provenienti da un determinato luogo in rapporto al sistema penale vigente in un territorio diverso in cui questi soggetti giungono, in ragione di flussi migratori. La categoria in parola è composta da reati che sono costituiti da condotte incoraggiate dall’etnìa, cui l’agente appartiene e che sono considerate come reato nel territorio in cui l’agente è migrato. Emergono tre componenti: il motivo culturale (causa psicologica), coincidenza oggettiva fra motivazione psichica del comportamento e cultura osservata nel gruppo o comunità di appartenenza e divario fra culture.

Ci si è posti il problema se la peculiarità di questi reati possa portare a disconoscere una delle componenti della fattispecie penale, ossia l’antigiuridicità o la colpevolezza, ossia se sia possibile dar rilievo alla motivazione culturale del fatto per escludere il reato. Un ulteriore passaggio è il domandarsi se la rilevanza della motivazione del reato sia utilizzabile come paradigma per una riduzione della pena o per l’applicazione di una circostanza attenuante. Secondo un’impostazione, la motivazione etnica del fatto, coincidente con prassi collegati all’etnia di provenienza, deve esser ricondotta alla scriminante dell’esercizio di un diritto o del consenso dell’avente diritto.

La giurisprudenza di legittimità della Cassazione si è tendenzialmente opposto a tale indirizzo ed ha sostenuto che nel nostro ordinamento non possano trovare cittadinanza comportamenti che determino una violazione di diritti garantiti dalla Costituzione. Si potrà valutare l’eventuale configurabilità di circostanze attenuanti, per attenuare il trattamento sanzionatorio. Si è delineato un ulteriore orientamento, il quale si fonda sulla crescente importanza del principio di colpevolezza, inteso come giudizio di riprovevolezza per il fatto commesso e di meritevolezza della sanzione penale. Tale giudizio interviene in presenza di un fatto tipico, antigiuridico, doloso o colposo. Si enuclea un difetto di colpevolezza a causa dell’impossibilità comprovata dei soggetti agenti di conoscere della disposizione violata, con specifico riferimento all’ipotesi in cui questi soggetti risiedano nel territorio italiano da poco tempo. La mancata conoscenza della disposizione penale è in grado di escludere la colpevolezza (art. 5 cod. pen.) sotto il prisma dell’inevitabilità dell’errore sul precetto. Ciò può aver rilievo, in particolari, nei reati sessuali, volti alla protezione dei minori, in un contesto in cui in altre etnìe non vi è una protezione di consistenza coincidente. In alcune ipotesi, il soggetto agisce per conformarsi ai valori dominanti nell’etnìa di appartenenza, pur essendo consapevole che sta compiendo un reato. Può configurarsi un’inesigibilità della condotta, ove si riscontri che il soggetto non era nelle condizioni di discostarsi dall’obbligo di conformarsi al comportamento radicato nel gruppo di appartenenza. A capo Secondo un orientamento, è ipotizzabile una figura di incapacità di intendere e di volere, non derivante da una malattia, con conseguente inimputabilità del soggetto agente. Al riguardo, si è elaborata l’idea, secondo cui lo straniero, in ragione della peculiarità della propria etnìa, non sia in grado di percepire in modo adeguato le peculiarità di concezioni della realtà in alcuni casi del tutto differenti. Le diverse prospettive del multiculturalismo possono attuarsi all’interno del nostro sistema penale in conformità ai princìpi cardine del nostro ordinamento, quali, in particolare, quelli di rango costituzionale, dettati dagli artt. 2 e 3 Cost.. Tali princìpi costituiscono uno sbarramento all’introduzione nelle società civili di consuetudini, prassi, costumi che si propongono come “antistorici”, a fronte dei risultati ottenuti nel corso dei secoli per l’affermazione dei diritti inviolabili della persona, cittadino o straniero che sia. La categoria dei reati culturalmente orientati si collega alla funzione del diritto penale come presidio del principio di territorialità. In una società multietnica, non è possibile scomporre l’ordinamento in tanti statuti quante sono le etnìe che la compongono, non essendo compatibile con l’unicità dell’ordinamento giuridico l’ipotesi della convivenza in un unico contesto civile di culture tra esse confliggenti, nonostante l’innegabile fenomeno della migrazione. Occorre armonizzare le diverse istanze culturali al fine di garantirne la pacifica coesistenza e si può individuare nei princìpi di uguaglianza riconosciuti dall’art. 3 Cost. l’unica soluzione, costituzionalmente orientata, in grado di offrire un denominatore minimo comune per l’instaurazione di una società civile e multietnica. E’ essenziale, per la stessa sopravvivenza di tale società “globale”, che chiunque vi si inserisca adempia l’obbligo giuridico di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i princìpi che li regolano. Ciò esclude che possa riconoscersi in automatico la buona fede di chi, consapevole di essersi trasferito in un Paese ed in una società in cui convivono culture e costumi differenti dai propri, presume di avere il diritto, non riconosciuto da alcuna norma del diritto internazionale, di proseguire in condotte che, seppure ritenute lecite secondo le leggi vigenti nel Paese di provenienza e, comunque, accettabili secondo la propria formazione culturale, risultano oggettivamente incompatibili con le regole proprie della compagine sociale in cui ha scelto di vivere. Nella prassi giurisprudenziale italiana, si riscontrano oscillazioni applicative in ordine alla rilevanza attribuibile al fattore culturale in sede penale. Tali diversità di orientamenti giurisprudenziali sono riscontrabili, per la maggior parte, in relazione a molti reati artificiali, alludendosi con tale espressione a tutte quelle fattispecie incriminatrici caratterizzate da un basso, se non nullo, disvalore sociale, ossia da un disvalore offensivo non immediatamente percepibile, la cui illiceità penale risulta di conseguenza difficilmente conoscibile dal suo autore.

A fortiori, la difficoltà in relazione alla percezione del suddetto disvalore penale dei suddetti reati di “creazione legislativa”, è presente nel soggetto appartenente a un’etnìa differente. Il panorama giurisprudenziale in materia di reati culturali rivela l’esistenza di un dato dotato di una certa stabilità. Si allude alla tendenziale considerazione penalistica del fattore culturale in stretta correlazione con la natura e il livello di gravità del reato commesso, segnatamente nel senso che, in sede giudiziaria, la motivazione culturale dell’autore suole generare un aggravamento della risposta sanzionatoria quando l’offesa viene rivolta nei confronti di beni giuridici di natura personale considerati (dal nostro ordinamento) di rango primario. Le diminuzioni di pena, se non addirittura l’esclusione della punibilità in capo ad autori culturalmente motivati, quando intervengano, sono riscontrabili, di norma, nei soli casi in cui i beni giuridici offesi dalla condotta non siano ritenuti dotati di analogo spessore assiologico. Tradotto in termini politico-criminali, ciò significa che, in ambito giurisprudenziale, le ragioni della prevenzione generale e speciale prevalgono su quelle della retribuzione (id est: colpevolezza e proporzione) in caso di attacco a beni primari della vittima – la vita, la salute, la libertà personale e quella morale, la libertà di autodeterminazione sessuale – mentre il rapporto di gerarchia è suscettibile di invertirsi solo quando l’allarme sociale destato dal fatto di reato è minore, per non dire minimo o nullo, atteso che l’aggressione recata dall’autore culturalmente motivato non risulta rivolta verso beni di tale natura.

 In relazione a tali figure di reato – sul solco tracciato dalla storica sentenza n. 364 del 1988 della Corte costituzionale – entra in gioco l’errore di diritto scusabile, in quanto inevitabile, quale causa di esclusione della colpevolezza. Ad esempio, l’utilizzazione abusiva di radio ricetrasmittenti commessa da immigrati è stata giudicata alla stregua di condotte incolpevoli in ragione della ritenuta impossibilità, per i rispettivi autori, di comprendere la illiceità del loro comportamento. Dall’altro lato, tuttavia, non mancano decisioni, tramite le quali le medesime condotte appena esemplificate e parimenti poste in essere da immigrati sono state giudicate in senso diametralmente opposto e contestualizzate nell’alveo di una ignorantia iuris questa volta colpevole. Riguardo ai reati culturalmente motivati od orientati, le disomogeneità applicative concernono soprattutto i frequenti casi di sfruttamento di immigrati minorenni in attività di elemosina, astrattamente configurabili – in senso crescente di gravità – ora come impiego di minori nell’accattonaggio (ex art. 600-octies c.p.), ora come maltrattamenti in famiglia (ex art. 572 c.p.), ora come riduzione in schiavitù (ex art. 600 c.p.). Dall’esame della giurisprudenza in argomento, si può notare come condotte di sfruttamento di bambini immigrati costituite dal loro impiego in via continuativa in attività di vendita serale di fiori nei ristoranti talvolta non siano state neanche penalmente sanzionate, in quanto ritenute concretamente inoffensive. In altre ipotesi, madri rom sorprese a mendicare per strada in compagnia dei propri figli in tenera età sono state punite ora – e gravemente – come responsabili di fatti di riduzione in schiavitù, ora – più mitemente –come autrici di maltrattamenti in famiglia. Sicché l’impiego di minori nell’accattonaggio da parte di soggetti stranieri in tal senso culturalmente motivati, viene, in alcuni casi, stimato dai giudici come un fatto del tutto lecito perché inoffensivo, in altri viene reputato invece come un fatto penalmente illecito, in tal caso, “fluttuando” però pericolosamente tra l’art. 572 c.p. e l’art. 600 c.p. Va rilevato che, tuttavia, le condotte oggetto di giudizio molto spesso non rivelano sul piano empirico differenti modalità di realizzazione di spessore tale da giustificare variazioni applicative siffatte.

E’ anche possibile ravvisare dei modelli “misti” in cui coesistono norme ispirate alle due prospettive del multiculturalimo. Ciò accade anche nel nostro ordinamento, in cui sono ravvisabili norme ispirate sia al primo modello, quali la norma sulla repressione penale delle pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili (art. 583-bis cod. pen.), sia al secondo, come la previsione della circostanza aggravante di cui all’art. 3, comma 1, d.l. 26 aprile 1993, n. 122, conv. con modif. in l. 25 giugno 1993, n. 205, della finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso. Nella giurisprudenza di legittimità, è possibile rinvenire un orientamento sostanzialmente omogeneo che, dinanzi all’eterogeneità delle fattispecie criminose riconducibili alla categoria dei reati culturalmente orientati, opera di volta in volta un bilanciamento di interessi secondo il criterio, costituzionalmente e convenzionalmente orientato, della centralità della persona umana, quale principio unificatore in grado di armonizzare le differenti culture coesistenti nella nostra società. Alla luce di tale paradigma ermeneutico, qualora vengano in rilievo i c.d. delitti naturali, lesivi dei diritti fondamentali della persona (alla vita, all’integrità personale, alla libertà personale, alla libertà sessuale), si nega ogni rilevanza scriminante alle motivazioni di carattere cultuale o religioso, trattandosi di condotte il cui disvalore sociale, prima ancora che giuridico, è immediatamente percepibile da qualsiasi soggetto capace di intendere e di volere. In siffatto clima di contrastanti opinioni, non solo giuridiche, si registra il recente intervento del legislatore volte a decretare la rilevanza penale dell’infibulazione con la fattispecie incriminatrice di nuovo conio appena ricordata. L’art. 1 della legge 7/2006 racchiude, di fatto, le giustificazioni teleologiche del reato ex art. 583-bis c.p.. Il bene giuridico protetto è l’integrità della persona ed, in particolare, la salute delle donne e delle minori di età (nella generale categoria della incolumità individuale). Entrambe le previsioni integrano gli estremi di delitti comuni (“chiunque”).Quanto al soggetto passivo della condotta delittuosa, non può che trattarsi di una persona umana di sesso femminile poiché oggetto materiale della lesione sono, precipuamente, gli organi genitali femminili. Rimane estranea, dunque, dal reato in esame, la circoncisione maschile, l’evirazione e le altre lesioni cagionate agli organi genitali maschili: siffatte condotte saranno punibili ai sensi della previsione di cui all’art. 582 c.p., eventualmente nella forma aggravata ex art. 583, comma 2 o comma 3. Il differente regime giuridico non è irragionevole e neanche discriminatorio. Quanto alle lesioni in senso lato, infatti, che siano inferte agli organi genitali maschili (art. 582) o femminili (art. 583, 2° c.) è, in ogni caso, richiesto il prodursi di una malattia nel corpo o nella mente; quanto alle mutilazioni genitali (che non richiedono, ai fini della punibilità il prodursi della malattia), la norma non sarebbe applicabile agli uomini poiché afferisce a pratiche che riguardano esclusivamente gli organi genitali della donna. La diversità di regime sanzionatorio è razionalmente spiegabile e, pertanto, in sintonia con la Costituzione (art. 3 Cost.): nel delitto punito dall’art. 583bis, 2° comma , è presente un elemento specializzante significativo: la lesione deve essere arrecata al fine di menomare le funzioni sessuali. Si registra, dunque, un dolo specifico (nelle lesioni, invece, il dolo è generico). In ogni caso, la pena sancita equivale a quella prevista per le lesioni personali “gravi” cosicché, di fatto, il legislatore ha giudicato ope legis le condotte di cui al secondo comma dell’art. 583bis come lesioni aggravate. Occorre rilevare, ai fini della presente disamina, che anche riguardo alla fattispecie di maltrattamenti in famiglia si pongono questioni riguardanti la differenza di “cultura”. Pronunciandosi in tema di maltrattamenti, la Cassazione ha escluso la configurabilità di un consenso della vittima, anch’ella formatasi nel medesimo contesto sub-culturale del reo, che riconosce al capo-famiglia il potere di disporre validamente dei familiari e delle loro abitudini di vita, affermando che la soglia del consenso è rappresentata dal rispetto dei diritti inviolabili dell’uomo.

In definitiva, in tema di reati culturalmente orientati, il tasso di discrezionalità giudiziaria che si registra è sicuramente molto elevato. Ove il reato culturale coinvolga beni facenti capo direttamente alla vittima, ingenerando in tal modo un allarme sociale, l’autorità giudiziaria sfrutta, in alcuni casi, al massimo i varchi concessigli dalla legge sul versante della commisurazione in senso stretto e, in senso lato, della pena, giungendo di norma a considerare la motivazione culturale come un elemento aggravatore della pena o come un indice fattuale sintomatico di una maggiore intensità del dolo o di una maggiore capacità a delinquere dell’autore. Per converso, quando il reato culturale attinga interessi di natura non personale – ovvero anche di natura personale, ma non in maniera diretta – o beni giuridici la violazione dei quali non è tale da destare particolari reazioni in seno alla collettività nazionale, le decisioni giudiziarie si alternano. Un’alternanza decisionale, questa, solo raramente spiegabile alla luce delle peculiarità dei fatti concretamente oggetto di giudizio ed ascrivibile piuttosto – attesa, come si è già detto, l’agevole ricognizione di casi giudiziari assai simili, per non dire addirittura identici, decisi in senso antitetico o n maniera fortemente differenziata dagli organi giudiziari del nostro Paese – al diverso patrimonio culturale del singolo giudicante. Simili osservazioni inducono obiettivamente fondate perplessità e preoccupazioni se rapportate a un sistema penale saldamente imperniato sul principio di legalità. Il problema di politica criminale è che in un’ottica general-preventiva o special[1]preventiva, si giustifica un trattamento penale più severo del reo, in un’ottica retributiva, invece, il fattore culturale è un fattore di favore. In materia di reati culturali, le ragioni della retribuzione e con ciò le esigenze di una personalizzazione della responsabilità penale, nonché di una indispensabile proporzionalità tra fatto e sanzione possono acquisire, in sede di valutazione della possibile rilevanza del fattore culturale in sede penale, valenza prioritaria rispetto alle pur compresenti esigenze proprie della prevenzione, generale e speciale, le quali sono ambivalenti e di fatto mute con riguardo ai reati culturalmente orientati. In contrapposizione alle predette istanze retributive, forse più persuasivamente, si collocano le ragioni di tutela delle vittime di reati culturali, in considerazione del fatto che loro, anche e soprattutto a cagione della loro frequente condizione d’intrinseca debolezza, reclamano legittimamente il diritto di non vedersi discriminate a confronto con la generalità delle vittime di reati. La materia dei reati culturali abbisogna di una regolamentazione attenta a contemperare colpevolezza e proporzione, da un lato, e offensività dall’altro lato. In una prospettiva più generale, a necessitare realmente di un bilanciamento sono il principio di eguaglianza sostanziale e quello di eguaglianza formale. Occorrendo, in effetti, valutare attentamente, con riferimento all’autore del reato culturale, se e fino a che punto sia tollerabile la predisposizione in suo favore di un trattamento penale più mite rispetto a quello riservato a coloro i quali commettano un identico fatto di reato, ma senza una motivazione culturale.


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