Riflessioni sull’indebito oggettivo e soggettivo

Riflessioni sull’indebito oggettivo e soggettivo

Sommario: 1. L’indebito oggettivo: nozione e considerazioni generali. Cenni prodromici sul principio di causalità degli spostamenti patrimoniali nell’ordinamento italiano – 2. L’indebito soggettivo: nozione, interpretazione e applicazione giurisprudenziale. Complementarietà con la fattispecie di cui all’art. 1189 cod. civ. – 3. Rapporto tra azione di nullità e condictio. Cenni ai rapporti tra azione di ripetizione dell’indebito e altre azioni previste dall’ordinamento

 

di Luigi Antonio Beccaria[1]

Il presente contributo propone un’indagine, arricchita dai più recenti contributi dottrinali e giurisprudenziali, relativamente a un istituto disciplinato nella legislazione codicistica, ma assai più antico, ossia quello della ripetizione dell’indebito.

Tale istituto, come si vedrà, è intimamente vincolato al generale principio di causalità degli spostamenti patrimoniali.

Fatte le debite premesse, verrà analizzata nello specifico la disciplina della norma contenuta nell’art. 2033 cod. civ., declinandone in concreto e alla luce delle più recenti esperienze l’applicazione nel “diritto vivente”, che ha notevolmente allargato l’ambito applicativo della disposizione.

Successivamente verrà trattata la fattispecie dell’indebito soggettivo descritta dall’art. 2036 cod. civ., sottolineandone il collegamento necessario con l’ulteriore istituto del pagamento al creditore apparente di cui all’art. 1189 cod. civ., analizzando così il bilanciamento operato dal legislatore codicistico tra tutela dell’affidamento e speditezza dei traffici.

Da ultimo, si metterà in relazione l’azione de qua con l’azione generale di nullità e con l’azione di rivendicazione della proprietà, esaminandone, alla luce dei diversi orientamenti dottrinali sul punto, la possibilità di considerarle tra di loro sovrapponibili.

1. L’indebito oggettivo: nozione e considerazioni generali. Cenni prodromici sul principio di causalità degli spostamenti patrimoniali nell’ordinamento italiano

Come è ben noto, un principio cardine che informa il settore giuprivatistico sin dai tempi del diritto romano[2], verosimilmente anche in ragione della evidenza, particolarmente chiara nel caso de quo, secondo cui “Necessitas facit ius[3], è quello secondo cui ciascuno spostamento patrimoniale debba essere sorretto da una causa giustificativa, generalmente consistente in un atto o fatto generativo di un rapporto obbligatorio già sorto; l’obbligo integrante tale principio di causalità giuridica può discendere ex contractu (prima fonte tipica stabilita dall’art. 1173 cod. civ.) o ex delictu (seconda fonte disciplinata dalla predetta norma, che prevede l’insorgenza di un’obbligazione risarcitoria che trova la sua causa giustificativa nella commissione di un fatto illecito).

Si parla pertanto[4] di principio di causalità dei trasferimenti di proprietà o altri diritti, di talché, in assenza di un’idonea causa giustificativa a supporto dello scambio, il pagamento non genera l’effetto traslativo in capo all’accipiens.

Purtuttavia, le ipotesi sopra descritte, sebbene di gran lunga le più ricorrenti nella prassi, non esauriscono l’ambito genetico dei rapporti obbligatori; è proprio a una delle ipotesi residuali, quella della restituzione dell’indebito oggettivo e soggettivo, disciplinata dagli artt. 2033 e 2036 cod. civ. (fattispecie a loro volta che costituiscono specifiche ipotesi applicative del principio sancito dall’art. 2041 rubricato “azione generale di arricchimento“), che costituirà oggetto d’esame dell’odierno contributo.

Quanto al generale principio contenuto nell’art. 2041 cod. civ., propedeutico alla comprensione delle due fattispecie nelle quali si articola l’indebito, si rileva come esso, per giurisprudenza costante, sia definibile quale “norma di chiusura”, applicabile ogniqualvolta i patrimoni dei soggetti interessati subiscano una modifica in assenza di una giustificazione giuridica: si ha dunque un depauperamento a carico di un soggetto, e un corrispondente arricchimento in favore di un altro, non sorretto dalla cosiddetta “causa”, con azione avente natura generale e sussidiaria[5].

L’ingiustificato arricchimento ha pertanto le caratteristiche della generalità, atteso che, potenzialmente, è suscettibile di derivare da un numero illimitato di fatti giuridici; della sussidiarietà, in quanto è esperibile unicamente quando non sia esplicitamente prevista una tutela diversa e specifica a carico del danneggiato[6] (su questa caratteristica è tuttavia sorto un dibattito dottrinale del quale si dirà meglio infra); e infine (marcando così la differenza con quanto previsto dal combinato disposto tra gli artt. 1173 e 2043 cod. civ. in tema di insorgenza di vincoli obbligatori) trova il suo fondamento in un fatto di per sé lecito.

Chiarito il suddetto principio generale, si può iniziare la presente analisi sull’indebito vero e proprio muovendo dalla prima norma individuabile nell’ordine sistematico del Codice, l’art. 2033, rubricato sotto la voce “Indebito oggettivo“, ove si stabilisce che colui che ha eseguito un pagamento non dovuto abbia il diritto di ripetere ciò che ha pagato; avendo descritto la regola generale, occorre altresì richiamare brevemente l’eccezione costituita dalle obbligazioni naturali, fattispecie descritta dall’art. 2034 cod. civ., ai sensi del quale non è ammessa la ripetizione, in deroga alle norme sull’indebito, di quanto è stato spontaneamente prestato in esecuzione di doveri morali o sociali.
L’obbligazione naturale, priva del requisito della coercibilità (diversamente dalle obbligazioni cosiddette “civili”, qualunque ne sia la fonte) e provvista del requisito dell’irripetibilità (in modo evidentemente antitetico rispetto ai pagamenti dell’indebito ora in esame), è dunque fondata meramente su doveri di natura morale o sociale, che non generano un’obbligazione in senso stretto (difettando del requisito della coercibilità), e si possono riassumere, a titolo esemplificativo, nel pagamento di debiti prescritti,  dei debiti derivanti da attività ludiche non autorizzate dallo stato, ovvero ancora da prestazione contraria al buon costume (tale ipotesi è peraltro oggetto di specifica disciplina, all’art. 2035 cod. civ.)[7].

Al di là di queste specifiche fattispecie, regolamentate in modo diverso evidentemente in ragione della minor meritevolezza[8] loro accordata dall’ordinamento, l’azione a mezzo della quale colui che ha effettuato il pagamento non dovuto chiede in restituzione quanto pagato viene denominata, come si è visto, azione di ripetizione dell’indebito.

La medesima norma disciplina altresì come debba avvenire la corresponsione dei frutti e degli interessi[9] per colui che ha effettuato l’erroneo pagamento, adottando come criterio differenziale lo stato soggettivo psicologico di colui che ha ricevuto il pagamento, di talché, se egli era in mala fede[10], gli interessi e i frutti decorreranno dal giorno del pagamento, mentre se egli era in buona fede, gli interessi e i frutti decorreranno dal giorno della domanda.

Il formante giurisprudenziale (mutuando la celeberrima definizione di Rodolfo Sacco[11]) confermativo sul punto (ed esplicativo in ordine alla ratio legis cui detta previsione sussume) è assolutamente granitico.[12]

In sostanza, all’effettuazione di un pagamento non dovuto (dunque effettuato in assenza di un valido vincolo giuridico pregresso che abbia per contenuto oggettivo una prestazione e almeno due soggetti consistenti nel debitore e nel creditore, qualunque ne sia la causa genetica) consegue la nascita di un’obbligazione restitutoria (ossia avente ad oggetto quanto indebitamente attribuito con la prestazione non dovuta) in capo a colui che l’ha ricevuto; ciò in quanto la fattispecie dell’indebito oggettivo trova la sua realizzazione nel momento in cui si verifica il pagamento di un debito inesistente, non dovuto né da colui che ha eseguito la prestazione, né da altri, sicché il pagamento risulta privo di qualsivoglia causa giustificativa, che invece, come si è visto, deve necessariamente porsi a fondamento di qualunque spostamento patrimoniale inserito nella cornice ordinamentale; l’assenza di una causa solvendi costituisce pertanto presupposto per la ripetizione dell’indebito oggettivo descritto dall’art. 2033 cod. civ.

Si tratta pertanto di una fonte c.d. “atipica” delle obbligazioni, in relazione a quanto stabilito dall’art. 1173 cod. civ., al tempo stesso ulteriore e residuale rispetto alle due fonti tipiche che consistono nel contratto[13] e nel fatto illecito; il principio di atipicità delle fonti delle obbligazioni, tale per cui le stesse derivano da qualsiasi “atto” (rientrano in detto ambito gli atti coscienti e volontari, direttamente produttivi di conseguenze giuridiche, fra i quali si possono citare, a titolo meramente esemplificativo, le promesse unilaterali e i titoli di credito) e qualsiasi “fatto” (in cui invece la volontà del soggetto è irrilevante ai fini della produzione di conseguenze giuridiche: ne costituiscono esempi la gestione di affari altrui ex art. 2028 cod. civ., l’arricchimento senza causa e, per l’appunto, il pagamento dell’indebito) idoneo a produrle in conformità con l’ordinamento, costituisce una novità introdotta dal Codice Civile del 1942[14], atteso che detto principio non informava la precedente legislazione codicistica risalente al 1865.

La fattispecie di cui all’art. 2033 cod. civ. ha pertanto riguardo ai profili strettamente oggettivi del rapporto obbligatorio, prescindendo pertanto dal profilo soggettivo del creditore e del debitore; la giurisprudenza[15] ha tuttavia assimilato la nozione di indebito oggettivo con quella di indebito soggettivo ex persona creditoris (che ricorre quando il debito del solvens esiste, ma non verso colui al quale è stato effettuato il pagamento), il quale realizza gli estremi di una fattispecie pressoché identica a quella dell’indebito oggettivo, e pertanto a questa casistica dovrà essere applicata la disciplina di cui all’art. 2033 oggetto della presente analisi.

Va da sé che, in qualunque caso di indebito (tanto oggettivo quanto soggettivo: su questa seconda fattispecie si dirà più approfonditamente infra), vale il generale principio probatorio per cui affirmanti incumbit probatio[16].

Come si può desumere da quanto poc’anzi sintetizzato, l’ambito di applicazione della fattispecie de qua risulta assai ampio, in considerazione del fatto che, al netto di alcune divergenze interpretative di cui si darà conto più avanti, deve essere, almeno secondo una certa dottrina e giurisprudenza, qualificata come domanda di ripetizione dell’indebito (oggettivo) qualunque domanda avente ad oggetto la restituzione di somme pagate sulla base di un titolo inesistente[17], a prescindere dal fatto che l’inesistenza sia originaria[18], sopravvenuta (benché, come autorevolmente rilevato, di per sé la fattispecie descritta dalla norma sia formulata in relazione alla inesistenza originaria[19], sussistono tutti i presupposti per un’applicazione analogica: in proposito si veda anche la giurisprudenza richiamata infra) o anche parziale; ciò ha evidenti riverberi sotto profili giuridicamente e processualmente rilevanti come la maturazione della prescrizione della relativa azione[20].        

Altresì, l’applicazione giurisprudenziale del disposto contenuto all’art. 2033 cod. civ. ha ulteriormente esteso l’ambito applicativo della norma, non solo con riguardo al profilo cronologico e al profilo per così dire “quantitativo” (indebito sopravvenuto e non solo genetico; indebito parziale e non solo totale), ma anche relativamente all’ambito oggettivo in senso ampio: è stato così chiarito che il “pagamento” non debba avere per oggetto esclusivamente il denaro, ma deve intendersi dilatato a qualsivoglia prestazione scaturente da un vincolo obbligatorio, in quanto la ratio ispiratrice della legge è, per autorevole e condivisibile giurisprudenza, quella di fornire una completa tutela per ogni situazione ove si verifichi un’attribuzione patrimoniale, a prescindere dal suo contenuto concreto, sprovvista di un’idonea giustificazione[21].

2. L’indebito soggettivo: nozione, interpretazione e applicazione giurisprudenziale. Complementarietà con la fattispecie di cui all’art. 1189 cod. civ.

La seconda fattispecie di indebito espressamente prevista dall’ordinamento italiano è quella contenuta nell’art. 2036 cod. civ., rubricato sotto la voce “Indebito soggettivo“, ove si stabilisce che colui che ha pagato un debito altrui, credendosi debitore in base ad un errore scusabile, può chiedere in restituzione quanto ha pagato[22] in ragione di tale erronea rappresentazione della realtà, sempre che il creditore non si sia privato in buona fede del titolo o delle garanzie del credito.

La disciplina della restituzione dei frutti e della corresponsione degli interessi (rectius: la determinazione del dies a quo) è la medesima vista nell’indebito oggettivo, in quanto valgono per eadem ratio le medesime considerazioni svolte per la fattispecie di cui all’art. 2033 cod. civ.

Viene in rilievo la nozione di scusabilità dell’errore, ossia non causato da colpa (cioè da una condotta del solvens che non sia in alcun modo connotata da negligenza, imprudenza o imperizia per quanto attiene alla corretta individuazione dell’accipiens).

Non verrà pertanto integrata la fattispecie dell’ indebito soggettivo qualora un soggetto abbia pagato per un debito altrui ben sapendo di non essere debitore, non potendo considerarsi tale pagamento effettuato in situazione di errore; in questa ipotesi si dà luogo unicamente alla surrogazione del solvens nei diritti del creditore, secondo quanto stabilito dal terzo comma della norma in esame.[23]

Appare evidente che detta norma, coinvolgendo il soggetto del solvens e quello dell’ (apparente) accipiens, non possa essere letta ed approfondita senza parimenti prendere in considerazione quanto stabilito dall’art. 1189 cod. civ., preposto a disciplinare la fattispecie del pagamento al creditore apparente, secondo i lineamenti che seguono: colui che esegue il pagamento a chi appare legittimato a riceverlo in base a circostanze univoche, è liberato se prova di essere stato in buona fede; altresì, colui che ha ricevuto il pagamento è tenuto alla restituzione al vero creditore secondo le regole stabilite per la ripetizione dell’indebito soggettivo.

Le due norme (art. 1189 e art. 2036 cod. civ.) debbono allora venir lette in modo coordinato, alla luce della ratio legis che informa la disciplina del pagamento al creditore apparente, avente un chiaro vincolo teleologico con la soddisfazione dell’esigenza generale di favorire la speditezza dei traffici: tale obiettivo viene raggiunto evitando di imporre al debitore l’onere di controlli eccessivamente accurati in ordine legittimazione del soggetto ricevente il pagamento, il quale, se diverso da quello che appariva come tale secondo l’id quod plerumque accidit, troverà proprio nelle regole sull’indebito (che invece, come si è visto, assolvono alla funzione di dare concreta attuazione al principio di causalità degli spostamenti patrimoniali e al correlato divieto di locupletazione) la tutela per il pagamento eseguito non rite.

L’intero combinato di norme, finalizzato sia a garantire la velocità degli scambi sia a tutelare chi abbia effettivamente fatto un pagamento, ha tuttavia quale baricentro e condizione necessaria lo stato di buona fede del debitore, indotto, secondo consolidata giurisprudenza, da un’oggettiva sovrapponibilità tra vero e verosimile, di talché la colpa, intesa come negligenza, nella mancata individuazione del corretto destinatario del pagamento fa sì, come già richiamato, che non trovi applicazione il disposto di cui all’art. 1189 cod. civ.[24], mentre la mera condizione di dubbio del solvens rispetto all’identità dell’accipiens, secondo la giurisprudenza, può integrare a tutti gli effetti lo stato soggettivo di buona fede[25].

Naturalmente la sussistenza di detto stato soggettivo, con tutte le conseguenze giuridiche di cui si è trattato, al momento del pagamento (richiamandosi per la nozione di “pagamento” quando già argomentato supra in tema di analogia estensiva), in caso di controversia, non potrà che gravare sul soggetto che ha effettuato il pagamento al creditore apparente[26], considerando che nell’esperienza della giurisprudenza (sin dalla risalente sentenza n. 1008/61 della Corte di Cassazione, inevitabilmente informata anche dall’approccio “familistico” che connota la storia culturale del nostro Paese) costituiscono elementi idonei a formare il ragionevole convincimento che la controparte sia autorizzata all’incasso i rapporti familiari tra l’accipiens e il creditore, e soprattutto tutti i pagamenti andati a buon fine ed eseguiti per il tramite della stessa persona, senza che il creditore abbia mai mosso rilievi circa la loro regolarità, e a maggior ragione il fatto che talvolta il creditore sia stato presente ai suddetti pagamenti: è evidente che la concomitanza di simili circostanze induca un elevato grado di affidamento nel solvens, e a fronte di una simile situazione di fatto, appare ragionevole il bilanciamento effettuato dal legislatore tra la tutela di suddetto affidamento[27] (entro alcuni limiti sottolineati dalla giurisprudenza, quale ad esempio la circostanza che la persona del creditore sia in qualche modo oggetto di pubblicità, verificabile pertanto con l’utilizzo dell’ordinaria diligenza[28], e in ogni caso che il suddetto affidamento abbia i crismi della ragionevolezza[29]), il divieto di locupletazione e infine anche il principio, costituzionale e sovranazionale, di economia processuale, atteso che applicando il combinato disposto tra l’art. 1189 cod. civ. e l’art. 2036 cod. civ. si verrà a produrre al massimo un contenzioso, quello del creditore “vero” che propone azione di restituzione dell’indebito al creditore apparente.

3. Rapporto tra azione di nullità e condictio. Cenni ai rapporti tra azione di ripetizione dell’indebito e altre azioni previste dall’ordinamento

Altra tematica oggetto di dibattito dottrinale e giurisprudenziale[30] è quella che problematizza il rapporto tra l’azione di ripetizione dell’indebito e l’azione di nullità.

Come noto, la nullità, disciplinata dagli artt. 1418 ss. cod. civ., costituisce il più grave vizio genetico presente nel nostro ordinamento[31], al punto che l’inefficacia del contratto viene fatta retroagire al momento della stipula del contratto stesso, così comportando l’obbligo di restituzione di tutto quanto corrisposto in ragione del contratto dichiarato nullo a seguito di pronuncia giudiziale.

Eccezioni alla retroattività ex tunc degli effetti della nullità si hanno solo in presenza di specifiche casistiche giudicate particolarmente meritevoli dal legislatore, tra cui occorre richiamare quantomeno la norma contenuta nell’art. 2126 cod. civ. (rubricato “Prestazioni di fatto con violazione di legge“), ai sensi della quale la nullità (così come l’annullamento) del contratto di lavoro non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, salvo che (facendo così riemergere il valore protezionistico e per così dire pubblicistico della nullità) detta nullità non derivi dalla illiceità della causa o dell’oggetto del contratto sottostante: in generale, vista la meritevolezza riconosciuta dal legislatore rispetto alle prestazioni lavorative eseguite dalla persona del lavoratore, pur senza in alcun modo sanare l’invalidità originaria del contratto, gli effetti prodotti dallo stesso vengono fatti salvi sino al momento della dichiarazione di nullità, precludendo così ogni possibilità di ripetizione in capo al soggetto (solo atecnicamente definibile come datore di lavoro) che ha effettuato il pagamento o i pagamenti.[32]

Ma qual è il rapporto che intercorre tra le due fattispecie? La cosiddetta condictio richiede di essere esperita al fine di ottenere la ripetizione di quanto corrisposto o trasferito nell’adempimento delle prestazioni derivanti dal contratto nullo, ovvero trattasi di due azioni differenti e che si escludono vicendevolmente?

Tale interrogativo costituisce il principale “pomo della discordia” dottrinale in relazione alle fattispecie oggetto dell’odierna analisi.

Le risposte possibili al quesito si attestano su due poli opposti: secondo una certa dottrina[33], che dà una lettura per così dire estensiva dell’istituto, l’azione di ripetizione dell’indebito deve considerarsi applicabile a ciascuna ipotesi in cui il vincolo contrattuale venga sciolto, dunque anche in caso di nullità (e anche, per analogia, ad altra causa estintiva del contratto, vale a dire in presenza di vizi genetici connotati da minor gravità rispetto alla nullità, come l’annullabilità, e anche alle ipotesi di vizi funzionali e rescissori).

Tale lettura, da considerare minoritaria sia in ragione della più comune applicazione nella giurisprudenza di merito sia in ragione delle argomentazioni logico – sistematiche che verranno infra riepilogate, poggia sulla lettura del disposto di cui all’art. 1422 cod. civ., secondo cui “L’azione per far dichiarare la nullità non è soggetta a prescrizione, salvi gli effetti dell’usucapione e della prescrizione delle azioni di ripetizione”, nonché sulla basilare considerazione che tutto quanto dovuto in funzione di un contratto invalido costituisce di per sé un indebito, e pertanto la tutela approntata in favore del soggetto che chiede la restituzione sia quella prevista dagli artt. 2033 – 2036 cod. civ., venendo meno il titolo (id est: il contratto) che costituiva la “giustificazione” (mutuando il lessico legislativo della norma contenuta all’art. 2041 cod. civ.) allo spostamento patrimoniale del quale le parti, a seguito della pronuncia giudiziale che ne travolge gli effetti, ottengono la ripetizione.      

In posizione antipodale si trova chi ritiene, dando una lettura maggiormente restrittiva dell’istituto, che la condictio debba essere applicata solo nelle ipotesi in cui non intercorresse tra le parti alcun vincolo negoziale di alcun genere; storicamente la giurisprudenza si è attestata su questo orientamento, da ritenersi ancor oggi prevalente.[34]

La dottrina che sostiene detto orientamento argomenta sulla scia delle differenze procedurali e sostanziali intercorrenti tra l’azione restitutoria derivante dall’invalidità del contratto e quella di ripetizione dell’indebito, tra cui spicca la regola in funzione della quale l’azione di nullità travolge altresì le situazioni giuridiche dei terzi acquirenti, a prescindere dallo stato soggettivo di buonafede o malafede al momento dell’acquisto; parimenti, al di là delle questioni attinenti alla concreta disciplina giuridica conferita alle due diversi azioni, i sostenitori di questa tesi evidenziano anche un profilo di incompatibilità sistematica tra le due azioni, atteso che, se la mens legislatoris fosse consistita nel configurare la ripetizione dell’indebito quale azione rimediale per la restituzione del bene (o del denaro: sull’accezione della nozione di “pagamento”, si veda amplius supra) dovuta alla cessazione degli effetti contrattuali, lo avrebbe esplicitamente collocato a livello codicistico nella sezione dedicata all’invalidità del contratto, e non agli artt. 2033 ss cod. civ. come ha invece fatto.

Da ultimo, si è affermato che il contratto nullo, a seguito della sentenza dichiarativa del giudice che fa retroagire ab origine l’improduttività degli effetti giuridici derivanti dal contratto stesso, non può che considerarsi (come già l’etimologia della parola suggerisce) come mai esistito, con la conseguenza che non dovrebbe essere apposto alcun limite alla restituzione delle prestazioni (tant’è che l’azione di nullità è di base imprescrittibile), mentre nell’azione di ripetizione di indebito sussistono vari limiti e discriminanti, tra cui la buona o mala fede dell’accipiens, l’irripetibilità della prestazione posta in contrasto con i principi del buon costume, e da ultimo la differenza nel trattamento della posizione del terzo di cui supra).

Il trasferimento del bene (ovvero il pagamento) nel contratto nullo dunque si ha per mai avvenuto; diverso è invece il caso della ripetizione di indebito, in cui invece l’effetto traslativo si verifica, previa possibilità, al ricorrere delle condizioni di legge già riepilogate, di chiedere la ripetizione per il solvens: di talché, in un’applicazione logico – sistematica, se il pagamento di una prestazione non dovuta è idoneo a trasferire (seppur interinalmente, con l’eventualità, entro i termini prescrizionali, di agire per la restituzione) la titolarità su una cosa, non altrettanto si può affermare per quanto ricevuto in funzione di un contratto nullo, ai sensi del quale mai si verifica, agli occhi della legge, alcun effetto traslativo (tale ricostruzione, come si vedrà a breve, ha importanti riverberi anche in tema di sovrapposizione tra azione di ripetizione dell’indebito e azione di rivendicazione della proprietà).

Tale interpretazione può tuttavia essere modulata in una posizione intermedia tra le due polarità sopra esposte[35]; secondo tale declinazione, l’azione di ripetizione dell’indebito è applicabile alle ipotesi di pagamento non dovuto solo nei limiti della compatibilità con la disciplina che regola le singole azioni di ripetizione, con la ratio di fornire una tutela ai terzi, suscettibili di subire un trattamento peggiorativo in ragione dell’applicazione della disciplina della condictio rispetto ad altre norme previste nell’ordinamento[36].

Un cenno finale merita infine il rapporto intercorrente tra l’azione di ripetizione dell’indebito secondo i lineamenti precedentemente esposti e l’azione di rivendicazione della proprietà di cui all’art. 948 cod. civ., azione cosiddetta “petitoria” preposta, come noto, a chiedere la restituzione della cosa da chiunque la possieda o la detenga[37], con esplicita legittimazione attiva solo a carico del proprietario[38].

Secondo gli orientamenti dominanti, le due azioni debbono essere considerate alternative[39], e il soggetto legittimato sarà chiamato a scegliere quale azione esperire in funzione dei diversi periodi prescrizionali previsti (considerando che l’azione di rivendicazione della proprietà è imprescrittibile (salvi gli effetti dell’acquisto per usucapione[40]) e anche dei maggiori oneri probatori richiesti per il positivo esperimento dell’azione di cui all’art. 948 cod. civ., da taluni addirittura definita probatio diabolica per via della necessità per l’attore di dimostrare l’intera catena traslativa di passaggi a titolo derivativo della proprietà del bene.[41]

Le due azioni, pertanto, avrebbero la medesima finalità teleologica, volta al recupero della materiale disponibilità del bene, ma conservando una significativa serie di differenze di carattere ontologico, tra cui la natura reale dell’azione di rivendicazione e quella personale dell’azione di restituzione[42]; aderendo a tale teoria si può dedurre che, a titolo esemplificativo, il soggetto divenuto acquirente di un immobile in forza di un contratto successivamente dichiarato nullo possa esperire l’azione di ripetizione per rientrare nella disponibilità dell’immobile stesso, godendo così di un regime probatorio semplificato, ma di un termine prescrizionale stabilito in dieci anni; se tuttavia il detto termine prescrizionale fosse decorso, non vi sarebbero alternative all’esperimento della (più complessa) azione di rivendicazione.

Tale orientamento, tuttavia, non è unanimemente condiviso, atteso che secondo la dottrina precedentemente richiamata il pagamento dell’indebito è idoneo a produrre gli effetti reali traslativi sulla proprietà della cosa consegnata: corollario logico sarebbe che, una volta effettuato il pagamento non dovuto (in ragione, restando nell’esempio di prima, del contratto dichiarato nullo), la rivendica diventerebbe impossibile, poiché la proprietà sarebbe passata in capo all’accipiens, e, come si è visto, solamente il proprietario è legittimato ad agire per la rivendicazione: si giungerebbe dunque alla conclusione che l’unica azione esperibile in questo caso sia l’azione di ripetizione dell’indebito ex art. 2033 cod. civ.

 

 

 

 

 


[1] Avvocato in Milano e docente esterno di Diritto Privato presso l’Università degli Studi di Milano, Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali
[2] Specificamente, nel diritto romano erano previste due ipotesi di azioni di ripetizione, teleologicamente indirizzate a definire la regolamentazione in caso di prestazioni eseguite e non dovute: la condictio indebiti, che veniva applicata alle ipotesi di prestazione non dovuta (o, più tecnicamente, consentiva la ripetizione di quanto erroneamente trasferito all’accipiens nell’infondata convinzione di esservi obbligato), e la condictio ob turpem rem vel iniustam causam qualora alla base della dazione vi fosse una causa illecita. Mutatis mutandis, entrambe le fattispecie (rectius: i presupposti fattuali che vengono poi fatti oggetto di specifica regolamentazione) risultano disciplinate anche nell’attuale legislazione codicistica, con riferimento alle fattispecie di indebito e a quella delle obbligazioni naturali, su cui meglio si vedrà infra.
[3] Il principio in questione, sebbene ricondotto a Pubililio Sirio, è affermato sostanzialmente dal giurista Modestino nel suo Digesto (40, 1, 3).
[4] P. Trimarchi, Istituzioni di Diritto Privato, XIX Edizione, Milano, 2011, pag. 345
[5] Sul punto si veda anche P. Perlingieri, Manuale di Diritto Civile, Napoli, 1997, p. 237; per una ricostruzione maggiormente sistematica dell’istituto de quo, il riferimento va diffusamente a F. Caiaffa, Rivista del Consiglio, Ed. Grifo, n. 1/2004
[6] Relativamente alla caratteristica della sussidiarietà dell’azione di arricchimento, si richiama quanto affermato da Cass. n. 1738/83, che esprime la seguente massima di diritto: “L’azione generale di indebito arricchimento ha natura complementare e sussidiaria, potendo essere esercitata quando manchi un titolo specifico sul quale possa essere fondato un diritto di credito talché si differenzia da ogni altra azione sia per i presupposti che per i limiti oggettivi, con la conseguenza che (integrando un’azione autonoma) deve essere proposta in modo specifico senza alcuna possibilità per il giudice di sostituirla ex officio ad altra, proposta per un titolo creditorio, che egli ritenga per qualsiasi ragione inefficace, secondo cui ne consegue che il giudice al quale è richiesta l’emissione di una condanna al pagamento di somma di denaro a titolo di indennità di requisizione non può accogliere la domanda stessa a titolo di arricchimento senza causa, né può ritenere la domanda di arricchimento implicitamente contenuta in quella espressamente formulata”.
[7] Puntuale nel ricostruire i profili generali della tematica la risalente, ma ancora attuale (soprattutto alla luce del richiamo alle “morale corrente“, concetto generico suscettibile di essere diversamente declinato in funzione dei continui mutamenti del mos in seno alla società), sentenza della Corte di Cassazione n. 888/62, così massimata: “L’art. 2034 c.c. ha distinto le obbligazioni naturali in due categorie: il secondo comma prevede fattispecie tipiche di obbligazioni naturali, casi cioè esplicitamente contemplati dalla legge di atti socialmente e moralmente leciti, che non assurgono però a vincoli giuridici e sono quindi sforniti di azione: tali sono, oltre la disposizione fiduciaria (art. 627 c.c.), i casi del pagamento del debito prescritto (art. 2940 c.c.) e del pagamento del debito di giuoco (art. 1933 c.c.); la norma del primo comma è invece molto più ampia, bastando per la stessa che vi sia un dovere morale o di coscienza e l’esecuzione spontanea di esso. E’ quest’ultima una disposizione di carattere generico per la quale qualsiasi dovere, che tale sia secondo la coscienza individuale e sociale, secondo la morale corrente, può costituire obbligazione naturale, sempre che rimanga nel campo della patrimonialità”.
[8] La minor meritevolezza va intesa sia in senso morale, come nell’ipotesi del pagamento effettuato per prestazioni in contrasto con il principio del buon costume, ma anche in senso più eminentemente giuridico, come nel caso del pagamento di debito prescritto, ove in qualche modo si abbassano le tutele per il creditore che negligentemente abbia omesso di far valere il proprio diritto per tutta la lunghezza del periodo prescrizionale previsto per legge.
[9] Per quanto attiene l’obbligo al pagamento degli interessi, si osserva quanto affermato da Cass. 11969/92, successivamente confermata dalla più recente sentenza sempre del Giudice di legittimità n. 1581/04, che esprime la seguente massima di diritto: “La natura degli interessi dovuti in sede di ripetizione di indebito di una somma di denaro non esclude l’applicabilità dell’art. 1224 c.c., ancorché ad essi deve attribuirsi natura corrispettiva, atteso che la messa in mora dell’accipiens, in quanto debitore di un’obbligazione pecuniaria, comporta l’applicabilità anche dell’art. 1224 c.c. in tema di liquidazione dei relativi danni, con la conseguenza, però, che essendo l’art. 2033 c.c. norma parzialmente derogatoria sia all’art. 1282 c.c. che all’art. 1224 c.c., il debito dell’accipiens, pur avendo ad oggetto una somma di denaro liquida ed esigibile, produce interessi solo a partire dalla domanda giudiziale – salvo che questi non versi in mala fede – e che non è sufficiente alla produzione di interessi e alla risarcibilità del danno un qualsiasi atto di costituzione in mora del debitore, ma è necessaria la specifica proposizione della domanda giudiziale”.
[10] Sul concetto di malafede si richiama l’esaustiva massima espressa dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 10978/97): “La mala fede giuridicamente rilevante affinché il percettore di un pagamento
[11] Secondo l’illustre Autore, il formante è la base giuridica su cui si sviluppa l’ordinamento giuridico di una società; nella cultura giuridica occidentale si rinvengono tre formanti: legislativo, giurisprudenziale, dottrinale. L’esposizione completa del concetto è diffusamente rinvenibile in R. Sacco, Introduzione al Diritto Comparato, Torino, 1992
[12] Solo per citare la giurisprudenza di merito più recente, si riporta quanto affermato da T.A.R. Napoli, che con pronuncia n. 3647/2021 si è così espresso sul punto: “La limitazione degli interessi dalla data di proposizione della domanda giudiziale si impone in ragione del consolidato principio secondo cui, nella ripetizione dell’indebito oggettivo ex art. 2033 c.c., il debito dell’accipiens, a meno che egli non sia in mala fede, produce interessi solo a seguito della proposizione di un’apposita domanda giudiziale, atteso che all’indebito si applica la tutela prevista per il possessore in buona fede in senso soggettivo dell’art. 1148 c.c., a norma del quale questi è obbligato a restituire i frutti soltanto della domanda giudiziale, secondo il principio per il quale gli effetti della sentenza retroagiscono al momento della proposizione della domanda“.
[13] Naturalmente il discorso sulla causalità dello spostamento patrimoniale è applicabile anche al contratto di donazione, atteso che la “causa”, ossia, secondo la prevalente interpretazione dell’istituto lasciato privo di definizione dall’art. 1343 cod. civ., la funzione economico – sociale assolta dal contratto, non si identifica necessariamente con il sinallagma, ossia con la validazione reciproca data dall’esecuzione di una prestazione rispetto alla prestazione di un’altra, ben potendo coincidere la causa del contratto con il cosiddetto “animus donandi“, vale a dire la volontà, derivante affectionis causa, di arricchire unilateralmente un altro soggetto: non a caso Bianca, in Diritto Civile, Milano, 1994, pp. 813 ss. afferma che “l’arricchimento è senza causa quando è correlato ad un impoverimento che non è remunerato, non costituisce liberalità, e non costituisce adempimento di un’obbligazione naturale”.
[14] Va altresì rilevato come il lessico del legislatore codicistico faccia precipuo riferimento all’ “ordinamento“, il che non significa solo rinvio alla legge, la quale già direttamente prevede atti o fatti tipici produttivi di obbligazioni, ma anche atti o fatti non previsti in norme specifiche che possono produrre obbligazioni, purché in conformità all’ordinamento giuridico (si pensi, ad esempio, alle obbligazioni discendenti da deliberazioni di organi collegiali, le quali, al di fuori dello schema contrattuale, vincolano anche la minoranza).
[15] L’assimilazione è stata oggetto di costanti pronunce della giurisprudenza di legittimità, tra cui si ricordano: Cass. n. 3152/1973; Cass. 2525/1987; più recentemente, Cass. 3802/2003)
[16] Sul punto appare esaustiva la massima di diritto espressa da Trib. Torino nella recente sentenza n. 3393/2020, ove si legge: “Nella domanda di ripetizione di indebito oggettivo l’onere della prova grava sul creditore istante, il quale è tenuto a provare i fatti costitutivi della sua pretesa, perciò, sia l’avvenuto pagamento, sia la mancanza di una causa che lo giustifichi (ovvero il venir meno di questa). Questo principio generale, vale anche nel caso in cui non si assume che l’intero pagamento è indebito, ma solo una parte, per cui si agisce in ripetizione solo per l’eccedenza. Infatti, poiché l’inesistenza della causa debendi – parziale, se l’obbligo è esistente in minor misura – è un elemento costitutivo (unitamente all’avvenuto pagamento e al collegamento causale) della domanda di indebito oggettivo, la relativa prova – mediante fatti positivi contrari, o anche presuntivi – incombe all’attore.”
[17] Sul punto si veda, ex multis, la recente sentenza di merito di Trib. Teramo, n. 707/2021, in DeJure, secondo cui: “L’azione di indebito ex art. 2033. c.c. si fonda sui presupposti dell’esecuzione di una prestazione da parte del solvens e del suo carattere non dovuto in ragione dell’invalidità o dell’inesistenza del vincolo obbligatorio. Nella prima ipotesi, l’attore deve dimostrare che il titolo del pagamento sia invalido; nel secondo caso deve allegare l’inesistenza di qualsiasi vincolo sotteso al pagamento, mentre sarà onere del convenuto dimostrare che il pagamento era sorretto da una giusta causa”.
[18] Corretto pertanto l’ “aggancio” tra la disciplina del vizio genetico della nullità e la disciplina della ripetizione dell’indebito oggettivo di cui all’art. 2033 cod. civ. riaffermato dalla sentenza di Trib. Lanusei, 10/03/2021, massimata come segue: “Nell’ipotesi di dichiarazione di nullità di un contratto, la disciplina degli obblighi restitutori tra le parti è mutuata da quella dell’indebito oggettivo, poiché viene a amncare la causa giustificativa delle rispettive attribuzioni patrimoniali eseguite in forza del contratto nullo; di conseguenza, in coerenza con la previsione di cui all’art. 2033 c.c., colui che ha ricevuto un pagamento non dovuto, in base al contratto dichiarato nullo, è tenuto a restituire al solvens la somma percepita, con fruitti e interessi dal giorno del pagamento, qualora l’accipiens fosse in mala fede, ovvero dal giorno della domanda, qualora in buona fede”.
[19] Così la Corte di Cassazione, con sentenza n. 5624/2009, in DeJure: “L’art. 2033 c.c., pur essendo formulato con riferimento all’ipotesi del pagamento ab origine indebito, è applicabile per analogia anche alle ipotesi di indebito oggettivo sopravvenuto per essere venuta meno, in dipendenza di qualsiasi ragione, in un momento successivo al pagamento, la causa debendi”.
[20]Va qualificata come ripetizione di indebito, ai sensi dell’art. 2033, qualunque domanda avente ad oggetto la restituzione di somme pagate sulla base di un titolo inesistente, sia nel caso di inesistenza originaria, che di inesistenza sopravvenuta o di inesistenza parziale. Ne consegue che il diritto alla restituzione dell’indennizzo assicurativo, per la parte che l’assicuratore assuma di aver pagato in eccedenza rispetto al dovuto, è soggetto alla prescrizione ordinaria decennale e non a quella breve di cui all’art. 2952 in quanto scaturente dall’indebito e non dal contratto di assicurazione” (Cass. n. 7897/2014).
[21] Particolarmente chiara sul punto la pronuncia della Corte di Cassazione n. 2029/82, successivamente confermata anche da Cass. 10498/01 e 25270/2016), che esprime la seguente massima di diritto: “Il termine <<pagamento>> non è riferibile soltanto a una somma di denaro, bensì è comprensivo dell’effettuazione di ogni prestazione derivante da un vincolo obbligatorio, che risulti a posteriori non dovuta, abbia essa ad oggetto un dare o un facere, e ciò sia alla luce della disciplina dell’istituto, chiaramente concernente anche cose determinate diverse dal denaro, sia in base alla ratio degli artt. 2033 ss c.c., diretti ad apprestare un rimedio giuridico completo per tutte le situazioni in cui un’attribuzione patrimoniale sia stata eseguita senza una giustificata ragione giuridica”.
[22] Puntuale la precisazione sul tema espressa dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 5257/1999, che così sottolinea: “Passivamente legittimato all’azione di ripetizione è l’accipiens, cioè il soggetto che ha ricevuto il pagamento indebito, al quale va, pertanto, rivolta la domanda di restituzione, che comprende, oltre al capitale, anche i frutti e gli interessi, dal giorno della domanda, ove sussista la buona fede del ricevente”.
[23] Così la Corte di Cassazione con sentenza n. 17497/08: “La surrogazione contemplata dal combinato disposto degli artt. 1203, n. 5, e 2036, terzo comma, c.c., postulando un’indagine sull’elemento soggettivo del pagamento, consistente nella consapevolezza e nella volontà del solvens di pagare un debito altrui, comporta l’emergere di un tema di discussione e di decisione nuovo e diverso, rispetto a quello derivante dall’applicazione dell’art. 1203, n. 3, con conseguente inammissibilità dell’introduzione di tale nuovo tema per la prima volta nel giudizio di cassazione, ove in precedenza sia stata invocata soltanto l’applicazione di quest’ultima disposizione”.
[24] Esaustiva sul punto la pronuncia della Corte di Cassazione n. 20906/05, che così riassume i lineamenti fondamentali dell’istituto: “In relazione alla norma di cui all’art. 1189, che riconosce effetto liberatorio al pagamento fatto dal debitore in buona fede a chi appare legittimato a riceverlo, il principio dell’apparenza del diritto, che mira alla tutela della buona fede dei terzi, trova applicazione quando concorrono le due condizioni costituite dallo stato di fatto non corrispondente alla situazione di diritto e dal convincimento del terzo, derivante da errore scusabile, che lo stato di fatto rispecchi la realtà giuridica.
Pertanto, per l’applicazione di siffatto principio, occorre procedere all’indagine, da compiersi caso per caso, non solo sulla buona fede del terzo, ma anche sulla ragionevolezza dell’affidamento, il quale, perciò, non può essere invocato da chi versi in una situazione di colpa (riconducibile alla negligenza) per aver trascurato l’obbligo, derivante dalla stessa legge oltre che dall’osservanza delle norme di comune prudenza, di accertarsi della realtà delle cose, facilmente controllabile, e per essersi affidato alla mera apparenza”
[25] Così Cass. 24696/09, che propone la seguente ricostruzione: “Ai fini del riconoscimento dello stato di buona fede del debitore il cui pagamento produce effetto liberatorio qualora effettuato a chi appare legittimato a riceverlo, ai sensi dell’art. 1189, deve tenersi conto della opinabilità e incertezza nell’individuazione del creditore, per cui non solo il vero e proprio errore di diritto, ma anche il dubbio può costituire buona fede e, al limite, anche la piena convinzione personale circa la soluzione opposta a quella seguita con i propri comportamenti può far escludere la mala fede, ove le circostanze oggettive autorizzino a ritenere che, nel caso concreto, al problema possa essere data una soluzione diversa”.
[26] Può essere utile una breve rassegna cronologiche delle massime espresse dalla Corte di Cassazione nel corso dei decenni: “Colui che invoca a proprio favore il principio dell’apparenza deve fornire la prova di avere confidato senza propria colpa nella situazione apparente, e che il proprio erroneo convincimento è stato determinato dal comportamento colposo del soggetto contro il quale il detto principio deve trovare applicazione” (sentenza n. 4406/83); “Chi contesti l’efficacia a suo danno della situazione di apparenza fornisca la prova contraria della mala fede della controparte ovvero dimostri che l’affidamento della stessa sia stato determinato da colpa” (Cass. 5741/86); “Allorquando risultino elementi idonei a configurare una situazione di apparenza giuridica, spetta a chi contesta l’efficacia in suo danno della medesima, l’onere della prova contraria” (Cass. n. 3287/99).
[27] La tutela dell’affidamento, per consolidata e autorevole dottrina, costituisce attuazione della generale clausola di buona fede prevista dall’art. 1375 cod. civ. (la quale, a sua volta, è volta ad applicare la previsione di solidarietà sociale sancita dall’art. 2 Cost.): sul punto si veda V. Roppo, Il Contratto, Milano, 2001, p. 493
[28] Inappuntabile il percorso logico enucleato dalla sentenza n. 12273/16 della Corte di Cassazione, che esprime la seguente articolata massima di diritto: “Il principio dell’apparenza del diritto e dell’affidamento, traendo origine dalla legittima e quindi incolpevole aspettativa del terzo di fronte a una situazione ragionevolmente attendibile, ancorché non conforme alla realtà, non altrimenti accertabile se non attraverso le sue esteriori manifestazioni, non è invocabile nei casi in cui la legge prescrive speciali mezzi di pubblicità mediante i quali sia possibile controllare con l’ordinaria diligenza la consistenza effettiva dell’altri potere, come accade nel caso di organi di società di capitali regolarmente costituiti; tuttavia, anche in tale ipotesi, il principio dell’affidamento può essere invocato, qualora il potere sulla cui esistenza si assume di aver fatto incolpevolmente affidamento possa sussistere indipendentemente dalla sua regolamentazione statutaria e possa essere conferito per determinati atti e senza particolari formalità”
[29] Così Cass. n. 6563/16: “Il principio dell’apparenza del diritto ex art. 1189 trova applicazione quando sussistono uno stato di fatto difforme dalla situazione di diritto ed un errore scusabile del terzo circa la corrispondenza del primo alla realtà giuridica, sicché il giudice – le cui conclusioni, sul punto, sono censurabili in sede di legittimità se illogiche e contraddittorie – deve procedere all’indagine non solo sulla buona fede del terzo, ma anche sulla ragionevolezza del suo affidamento, che non può essere invocato da chi versi in una situazione di colpa, riconducibile alla negligenza, per aver trascurato l’obbligo, derivante dalla legge stessa, oltre che dall’osservanza delle norme di comune prudenza, di accertarsi della realtà delle cose”.
[30] Sul punto si veda diffusamente, e in particolare alle pp. 291 ss., C. Ruperto, La Giurisprudenza sul Codice Civile Coordinata con la Dottrina, Libro V, Roma, 2012
[31] L’istituto della nullità viene addirittura definito il “gendarme dell’autonomia privata stessa, costituendo lo strumento attraverso cui selezionare la meritevolezza degli interessi delle parti rispetto ai valori perseguiti dalla comunità, al punto che l’ordinamento, ove quel riscontro sia negativo, non assegna ad esso alcuna tutela, ed anzi, assoggetta il voluto delle parti alla sanzione della nullità” (F. Camilletti, Invalidità Civilistica, Invalidità Giuslavoristica e Nullità di Protezione, in Lavoro Diritti Europa n. 1/2018, p. 8
[32] Si vedano le considerazioni generali della giurisprudenza di legittimità, ben riassunte nella pronuncia della Corte di Cassazione n. 685/87, in DeJure, ove si legge: “L’art. 2126 c.c. non equipara il rapporto di lavoro invalido a quello valido, né regola lo svolgimento di un rapporto di fatto, ma disciplina unicamente gli effetti già realizzatisi di un rapporto di fatto in concreto svoltosi tra le parti, al quale riconosce efficacia limitatamente al periodo in cui esso ha avuto attuazione nell’intento di evitare che la portata retroattiva della pronuncia di nullità del contratto di lavoro possa incidere sulla prestazione già resa”
[33] Addirittura G. Passagnoli, Invalidità del Contratto e Restituzioni, in Persona e Mercato, 2010, pp. 100-101, ritiene che l’ingresso della condictio sia “dato per scontato” dal legislatore, che lo ha considerato alla stregua di un “corollario logico, ancor prima che giuridico”
[34] Ex multis si richiama quanto affermato da Cass. 1738/83, successivamente confermato da Cass. 9594/00 e Cass. 4365/03: “L’azione generale di indebito arricchimento ha natura complementare e sussidiaria, potendo essere esercitata quanto manchi un titolo specifico sul quale possa essere fondato un diritto di credito talché si differenzia da ogni altra azione sia per presupposti che per limiti oggettivi, con la conseguenza che (integrando un’azione autonoma: 95/3496) deve essere proposta in modo specifico senza alcuna possibilità per il giudice di sostituirla ex officio ad altra, proposta per un titolo creditorio, che egli ritenga per qualsiasi ragione inefficace, secondo cui ne consegue che il giudice al quale è richiesta l’emissione di una condanna al pagamento di somma di denaro a titolo di indennità di requisizione non può accogliere la domanda stessa a titolo di arricchimento senza causa, né può ritenere la domanda di arricchimento implicitamente contenuta in quella espressamente formulata”.
[35] U. Breccia, La Ripetizione dell’Indebito, 1974, Milano, pp. 236 ss.
[36] Sul punto si veda l’esauriente analisi svolta da P. Franceschetti al seguente riferimento sitografico: https://www.altalex.com/documents/altalexpedia/2016/04/22/ripetizione-dell-indebito, ove si precisa opportunamente che “Nelle azioni di nullità e di annullamento il terzo acquirente a titolo gratuito è obbligato anche oltre i limiti dell’arricchimento; nelle ipotesi di risoluzione e rescissione non è tenuto ad alcuna restituzione neppure nei limiti dell’arricchimento; nel caso di pagamento dell’indebito, invece, è obbligato, una volta che l’accipiens sia stato inutilmente escusso, nei limiti dell’arricchimento.”.
[37] Il riferimento alla detenzione risulta peraltro opinabile, atteso che, per sua stessa natura, la detenzione contiene in sé la connotazione psicologica del riconoscimento dell’altruità del bene, di talché apparirebbe più opportuno circoscrivere la legittimazione passiva al solo possessore, il quale invece, per definizione, è connotato dal cosiddetto animus rem sibi habendi che fa sì che si comporti uti dominus, come se fosse il proprietario, giustificando così la contrapposizione destinata a sfociare nell’azione di rivendicazione (o di restituzione, come si è visto) da parte del proprietario che veda frustrato il proprio diritto.
[38] Puntuale sul tema la massima espressa da Cass. 13882/10, che afferma: “Ai fini dell’accoglimento dell’azione di rivendicazione è sufficiente che le condizioni sussistano al momento della pronunzia giudiziale; la qualità di proprietario, che legittima l’azione stessa, non costituisce un presupposto processuale, che è necessario che sussista al momento della proposizione della domanda, bensì una condizione dell’azione la quale, estrinsecandosi nel potere di provocare, mediante l’esercizio dell’attività giurisdizionale, il riconoscimento di un diritto realmente spettante, è sufficiente che sussista nel momento della decisione”.
[39] Chiara sul punto la risalente sentenza della Corte di Cassazione n. 439/85, che in ordine all’alternatività delle due azioni esprime la seguente massima di diritto: “L’azione di rivendicazione e quella di restituzione possono essere proposte in via (anche implicitamente) alternativa, ovvero, essendo stata promossa espressamente soltanto una di esse, questa può trasformarsi in corso di giudizio nell’altra in relazione alle eccezioni del convenuto”
[40] Tale previsione, finalizzata a tutelare la figura del possessore in ragione dell’utilizzo concreto e prolungato che fa del bene, è storicamente inserita in tutti gli ordinamenti moderni e contemporanei; secondo il celeberrimo giurista tedesco Savigny, una simile disposizione era finalizzata “ne cives ad arma veniant“, “affinché i cittadini non vengano alle armi”, atteso che la possibilità di chiedere in restituzione a qualcuno un bene posseduto con profitto dopo un lungo orizzonte temporale avrebbe potuto costituire una fonte di entropia in seno alla società.
[41]L’azione di rivendicazione esige che l’attore provi il proprio diritto di proprietà risalendo sino all’acquisto a titolo originario attraverso i propri danti causa, o dimostrando il compimento dell’usucapione in suo favore, mentre il convenuto può limitarsi a formulare l’eccezione possideo quia possideo, senza onere di prova” (Cass. n. 19653/14, successivamente confermata da Cass. 8215/16).
[42] Pietra miliare sul punto è la sentenza n. 13605/00 della Corte di Cassazione, successivamente confermata dalle Sezioni Unite con sentenza n. 7307/14, che dispiega un’ampia disamina sul tema, di cui si riportano i passaggi essenziali connessi all’odierna analisi: “In tema di difesa della proprietà, l’azione di rivendicazione e quella di restituzione, pur tendendo al medesimo risultato pratico del recupero della materiale disponibilità del bene, hanno natura e presupposti diversi: con la prima, di carattere reale, l’attore assume di essere proprietario del bene, e, non essendone in possesso, agisce contro chiunque di fatto ne disponga onde conseguirne nuovamente il possesso, previo riconoscimento del suo diritto di proprietà; con la seconda, di natura personale, l’attore non mira a ottenere il riconoscimento di tale diritto, del quale non deve, pertanto, fornire la prova, ma solo ad ottenere la riconsegna del bene stesso, e quindi, può limitarsi alla dimostrazione dell’avvenuta consegna in base ad un titolo e del successivo venir meno di questo per qualsiasi causa, o ad allegare l’insussistenza ab origine di qualsiasi titolo. In tale seconda ipotesi, la difesa del convenuto che pretenda di essere proprietario del bene in contestazione non è idonea a trasformare in reale l’azione personale proposta nei suoi confronti”

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Luigi Antonio Beccaria è nato a Melzo nel 1990. Laureato in Scienze Politiche e Giurisprudenza, è avvocato e consulente del lavoro. La sua principale area di attività è quella giuslavoristica, che esercita presso lo Studio Elit S.a.s. di Melzo, ove esercita l'attività di consulente del lavoro (iscritto all'albo di Milano al n. 2659) e presso lo Studio Legale Camilletti a Milano, ove ha svolto la pratica forense. Collabora da anni con la cattedra di Diritto Privato e con la cattedra di Diritto del Lavoro rispettivamente nelle facoltà di Scienze Politiche e di Economia e Giurisprudenza presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

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