Riforma Cartabia: da principi del Foro a pignoli burocrati iscritti all’Albo

Riforma Cartabia: da principi del Foro a pignoli burocrati iscritti all’Albo

Sappiamo che l’Italia vanta l’imbarazzante primato europeo per numero di condanne per violazione dell’art. 6 della CEDU, relativamente alla durata dei processi (ben 1202) e che la riforma Cartabia nasce e si muove in un contesto di spasmodica rincorsa verso il raggiungimento degli obiettivi strategici di maggiore efficienza e riduzione dei tempi dei processi, previsti da un piano di finanziamento , il PNRR, attraverso il quale ingenti fondi europei entrano nell’economia pubblica italiana.

E sappiamo anche che l’ambiziosa riforma ha introdotto diversi meccanismi e istituti premiali – basti pensare alla giustizia riparativa e all’ampliamento dell’ambito applicativo della sospensione del procedimento con messa alla prova – in un’ottica deflattiva, ispirata sia a ragioni di economia processuale sia alla volontà di una maggiore consapevolezza e coinvolgimento della persona indicata come responsabile del reato nel procedimento penale.

Pur riconoscendo i nobili intenti alla base dell’entrata in vigore del d.lgs. N. 150 del 2022 ed essendo a tutti gli operatori del diritto chiara la necessità di un effettivo cambiamento nell’organizzazione degli uffici giudiziari attraverso un ampliamento dell’organico (che, a mio parere, non può risolversi con un paio di concorsi pubblici con i quali possono essere assunti e ritrovarsi coadiuvare i giudici, scrivendo bozze di ordinanze e sentenze anche laureati in economia e commercio e scienze politiche) ed una effettiva digitalizzazione del processo, soprattutto penale, occorre tuttavia evidenziare che alcune delle modifiche al codice di procedura penale suscitano non poche perplessità e di seguito esaminerò brevemente e senza alcuna pretesa di completezza quelle che ritengo maggiormente significative.

In primo luogo, sono state ampliate le ipotesi di inammissibilità dell’appello attraverso l’introduzione di tre nuovi commi nell’art. 581 cpp :  “1-bis. L’appello è inammissibile per mancanza di specificità dei motivi quando, per ogni richiesta, non sono enunciati in forma puntuale ed esplicita i rilievi critici in relazione alle ragioni di fatto o di diritto espresso nel provvedimento impugnato, con riferimento ai capi e punti della decisione ai quali si riferisce l’impugnazione.

1 ter. Con l’atto d’impugnazione delle parti private e dei difensori è depositata, a pena d’inammissibilità, la dichiarazione o elezione di domicilio, ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio.

1-quater. Nel caso di imputato rispetto al quale si è proceduto in assenza, con l’atto d’impugnazione del difensore è depositato, a pena d’inammissibilità, specifico mandato ad impugnare, rilasciato dopo la pronuncia della sentenza e contenente la dichiarazione o l’elezione di domicilio dell’imputato, ai fini della notifica del decreto di citazione a giudizio .”.

Con il comma 1-bis il legislatore codifica il principio giurisprudenziale, già contenuto nella sentenza Galtelli delle Sezioni Unite, secondo il quale la mancanza di specificità estrinseca dei motivi di appello genera l’inammissibilità. Cosa succede se soltanto uno dei motivi di appello risulta carente del requisito della specificità estrinseca? Il resto dell’atto resta salvo? Sembrerebbe di sì, ma l’articolo per com’è formulato non offre risposte certe.

Per quanto riguarda il comma 1-ter, si introduce il nuovo onere per il difensore di depositare con l’atto di impugnazione anche la dichiarazione o elezione di domicilio dell’imputato, pena l’inammissibilità – si ricorda che la IV Sezione della Corte di Cassazione ha specificato con la recente sentenza del 23 maggio 2023 n. 22140 che tale comma non si applica all’appello cautelare.

Come può non apparire totalmente irragionevole e profondamente ingiusto precludere la possibilità di avere un secondo grado di giudizio alla persona che subisce un procedimento penale e che si vede addossare nel primo grado di giudizio una condanna che ritiene ingiusta e non corrispondente alla verità dei fatti, a causa di un’eventuale dimenticanza dell’avvocato di un adempimento meravigliosamente burocratico quale quello della dichiarazione di domicilio del suo assistito? Perché esporre i difensori al rischio di una causa per responsabilità professionale per un adempimento di poca rilevanza e quella poca di carattere esclusivamente formale?

Il comma 1-quater, letto in combinato disposto con l’art. 585, comma 1-bis, cpp, di nuova introduzione, prevede l’allungamento di 15 giorni dei termini di decadenza per la proposizione dell’appello quando questo sia proposto dal difensore dell’imputato giudicato in assenza. Pur comprendendo l’intento sotteso alla riforma, ritengo – con quello che per alcuni sarà pessimismo, per altri realismo – che ciò che concretamente potrebbe succedere è che i difensori saranno costretti a due settimane di “caccia all’uomo”, di rincorsa al cliente per ottenere la firma della procura speciale per non perdere la possibilità di potersi occupare del secondo grado o, nel peggiore dei casi, altri potrebbero farsi firmare un paio di fogli in bianco dal cliente all’inizio del procedimento in vista di un futuro appello.

Ma la novità di maggiore impatto è costituita dall’introduzione dell’art. 598 bis cpp ., che prevede che la Corte provvede sull’appello in camera di consiglio e giudica sui motivi, sulle richieste e sulle memorie senza la partecipazione delle parti.

Il contraddittorio in appello è diventato cartolare, regolato da tempistiche ben definite: entro 15 giorni prima dell’udienza il Procuratore Generale presenta le sue richieste e tutte le parti possono presentare motivi nuovi e memorie di (598-bis, comma 1); lo stesso termine vale per la presentazione della richiesta di concordato in appello (599-bis, comma 1, ultimo periodo); entro 5 giorni prima dell’udienza le parti possono presentare memorie di replica.

Lo svolgimento dell’udienza partecipata, quindi, da ora in poi costituirà un’eccezione alla regola ed è subordinato:

– alla richiesta dell’appellante o del suo difensore, presentata entro quindici giorni dalla notifica del decreto di citazione o dell’avviso della data fissata per il giudizio di appello (art. 598-bis, comma 2);

– alla decisione d’ufficio della Corte di procedere con udienza partecipata “per la rilevanza delle questioni sottoposte al suo esame” (comma 3, ipotesi facoltativa) o per la necessità di rinnovare l’istruttoria ex art. 603, comma 5 (comma 4, ipotesi obbligatoria);

– alla presentazione di una richiesta di concordato che la Corte abbia ritenuto di non poter accogliere (art. 599-bis, comma 3, cpp).

Dunque, con la riforma Cartabia la discussione del difensore in Appello ed in Cassazione è diventata una facoltà, una sorta di diritto potestativo dell’avvocato e del cliente, i quali possono richiedere la partecipazione o meno.

Qualcuno potrebbe obiettare: perché è così importante? È comunque possibile discutere, basta presentare la richiesta entro il termine di 15 giorni, cosa cambia?

Cambia l’impostazione generale del processo, diminuendo le garanzie dell’imputato, allontanandosi dal principio del contraddittorio. La verità è che avere il diritto di parlare ed avere il diritto di chiedere a qualcun altro di poter parlare non sono la stessa cosa.

Inoltre, togliere la parola ad un avvocato significa togliergli la sua principale ed unica arma.

Quello che è molto probabile che succeda nella prassi dei tribunali è che richiedono la partecipazione alla discussione in Appello ed in Cassazione da parte del difensore costituirà un fastidio per i giudici, i quali la vedranno il più delle volte come un’inutile perdita di tempo, più o meno strategica da parte dell’azzeccagarbugli di turno, e di conseguenza gli avvocati saranno sempre più inibiti nel presentare la richiesta e, col passare del tempo, quasi nessuno richiederà di discutere in udienza.

Sul punto, ritengo significativo l’intervento dell’Avvocato e Professore Roberto Borbogno nell’incontro di studio del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma, avvenuto il 11.04.2023, in cui ha ricordato che il fatto che la partecipazione dei difensori nella discussione in appello e in Cassazione sia diventata con la riforma Cartabia un diritto potestativo dell’avvocato è già una soluzione di compromesso. Racconta, infatti, che durante un’assemblea, il Presidente dell’Unione delle Camere Penali ha affermato che nel corso delle riunioni, dei tavoli che sono stati svolti in vista della riforma, la richiesta che proveniva dalla magistratura era quella di rendere la discussione orale in appello ed in Cassazione possibile solo a discrezionalità del magistrato.

Quello raggiunto oggi con la riforma Cartabia è, pertanto, già un ottimo risultato. Questo non può che costituire una magra consolazione.

L’approccio generale della riforma non può essere condiviso perché non si può ledere il diritto fondamentale, costituzionalmente garantito dall’art. 24, della difesa in nome dell’efficienza.

È vero che i giudici sono – giustamente – estenuati dall’eccessivo carico di lavoro e circondati dalla più totale disorganizzazione, ma non può ridursi tutto a timbri, fascicoli, carte, scadenze e 15 udienze al giorno da doversi togliere di mezzo alla svelta, con meno danni possibili.

Sia i difensori che i magistrati non sono e non possono essere relegati al ruolo di burocrati, non si può spersonalizzare questo lavoro e bisogna piuttosto ridargli dignità e prestigio sociale, smettendola di dare priorità ad obiettivi economici a scapito dei diritti delle persone; altrimenti la nuova generazione di giuristi – di cui faccio parte – rischia di non cogliere l’importanza della professione e di perdere di vista il fatto che qui si parla di persone e che in gioco c’è la loro libertà, anni e anni della loro vita, che nessuno potrà ridargli indietro.

Tirando le somme, ritengo che le modifiche introdotte dalla riforma Cartabia di cui sopra siano emblematiche del cambiamento sociale e giuridico a cui la professione di avvocato sta andando incontro e che tali innovazioni non tengano adeguatamente conto dei problemi pratici che affrontano quotidianamente i difensori, i quali oggi rischiano di trasformarsi da principi del Foro a pignoli burocrati iscritti all’Albo, sacrificio probabilmente necessario quando l’efficienza diventa efficientismo.


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