Risarcimento del danno e condotte riparatorie nel diritto penale

Risarcimento del danno e condotte riparatorie nel diritto penale

Il risarcimento del danno, inteso come categoria unitaria, comprensiva del defalco e del ristoro di ogni conseguenza del reato, trova nel diritto penale una espressa base giuridica nell’articolo 185 c.p. A mente di tale disposizione, ogni reato obbliga alle restituzioni e al risarcimento del danno, patrimoniale o non patrimoniale, che da esso rivenga.

Per risarcimento s’intende la riparazione del pregiudizio arrecato alla vittima, compiuta mediante la corresponsione di una somma di denaro equivalente al danno (risarcimento integrale) o avente carattere compensativo. Le restituzioni, invece, consistono nella reintegrazione dello status quo ante al reato e si declinano nella riconsegna, reale o simbolica, delle cose sottratte in ragione del reato, ovvero nel ripristino materiale della condizione antecedente la sua commissione, come avviene in caso di soppressione del prodotto di reato.

La disciplina cui il Codice Penale rinvia per la regolazione dei suddetti ristori è quella civilistica. In tal senso, rileva particolarmente l’art. 2043 C.c., norma che governa la responsabilità aquiliana, cioè la responsabilità per violazione del dovere di neminem laedere: qualunque fatto, doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto obbliga colui che l’ha commesso a risarcire il danno.

Se ne ricava che ogni reato integra, altresì, un illecito civile e come tale è atto a determinare un danno. Il danno, tuttavia, non sempre si configura a fronte della commissione di un illecito penale. Infatti, ritiene ormai l’opinione maggioritaria in dottrina che i reati si distinguano tra quelli senza danno, ad esempio il possesso ingiustificato di chiavi alterate o grimaldelli, i reati con danno immanente, come il furto, cui segue sempre un pregiudizio civilistico all’atto della loro commissione, nonché i reati con danno consequenziale ed esterno rispetto al fatto criminoso, quali sono i pregiudizi indirettamente derivanti dal reato: le perdite patrimoniali, in particolare.

Sebbene la sede naturale per proporre l’azione volta al risarcimento sia il processo civile, per gli stessi scopi, il legislatore consente al danneggiato dal reato e ai suoi successori di ingerirsi nel procedimento penale a carico del soggetto agente o del responsabile civile. Per ragioni deflattive del contenzioso processuale, nonché per evitare fenomeni di dispersione del materiale probatorio, gli articoli 74 e seguenti C.p.p. disciplinano la costituzione di parte civile nel processo penale che ciò permette.

Accanto al risarcimento del danno, inteso nel suddetto senso lato, il diritto penale prevede, inoltre, diverse forme di condotte riparatorie. Qualora il soggetto agente elida, ovvero solo attenui, le conseguenze dannose del reato, risarcendo prontamente la vittima, anche a prescindere da ogni accertamento processuale di responsabilità, ne ricava vantaggi alternativamente consistenti in sconti o sospensione della pena, ovvero nella estinzione stessa del reato. A tali condotte, quindi, corrispondono corrispettivi premiali, offerti al reo dall’ordinamento, al fine di promuovere la ricomposizione del conflitto generatosi col reato.

Tra le sopra menzionate condotte riparatorie si trova quella prevista all’art.62, comma 6, C.p.: chi commette un reato, ma prima del giudizio si adopera a riparare interamente il danno, si vede riconosciuta la circostanza attenuante de qua, che importa una diminuzione della sanzione comminata fino a un terzo rispetto a quella prevista per il reato base.

In proposito, si rende opportuno svolgere alcune precisazioni. Come si nota dall’analisi del dato letterale, la formulazione legislativa individua una duplice modalità di configurazione dell’attenuante. Da un lato, l’integrale riparazione del danno avvenuta -per restituzione, di preferenza, o per risarcimento- prima del giudizio; dall’altro, si riduce la pena a fronte di condotte che si risolvano in spontanee ed efficaci attività del reo volte a elidere o ad attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato, manifestatesi sempre prima del giudizio.

Mentre la prima ipotesi attenuante pare porre l’accento sul dato patrimoniale dell’integralità della riparazione, la seconda sembra imperniata, piuttosto, sulla spontaneità dell’attivazione del reo. Dacché, la giurisprudenza ha riferito il primo caso ai reati causativi di un danno patrimoniale in senso stretto, mentre il secondo caso afferirebbe ai soli danni a carattere non patrimoniale, come tali di difficile quantificazione oggettiva.

La distinzione conduce la riflessione ad apprezzare la natura delle condotte riparative in ambito penale. Invero, la previsione dell’integralità del risarcimento del danno da reato quale presupposto applicativo dell’attenuante ne suggerisce una finalità satisfattiva; diversamente, riporre il presupposto strutturale della diminuzione della pena sulla volontarietà e sull’adesione del reo all’interruzione o eliminazione delle conseguenze del reato, implica una finalità della riparazione più a carattere special preventivo e, in senso lato, punitivo.

Tanto troverebbe conferma in recenti pronunce della Corte di Legittimità, intervenute a chiarire la portata applicativa della norma in questione con riguardo ai casi di riparazione compiuta dal terzo. In particolare, ove sia una compagnia assicurativa a ristorare la vittima del danno, soprattutto nei casi in cui la copertura sia obbligatoria e prevista dalla legge, come avviene per la responsabilità professionale o nel caso di RCA, si è revocata in dubbio la possibilità di concedere il beneficio ex art.62, comma 6, C.p. al reo. In tal senso, assume rilievo la predetta distinzione finalistica e tipologica dei ristori: se la funzione è, infatti, schiettamente compensativa, per ridurre la pena sarà sufficiente l’integrale ristoro del danno, quantunque compiuto, prima del giudizio. Ove, invece, lo scopo della riparazione detenga una natura più pienamente penale, dovendosi estrinsecare l’azione di impedimento delle conseguenze in una sorta di ravvedimento operoso del reo, la riparazione svolta dal terzo non avrebbe attitudine a dimostrare il regresso del medesimo dal proposito criminoso e, di conseguenza, il reo non sarebbe meritevole di alcuno sconto di pena.

A sostegno dell’assunto delta funzionale, parrebbe porsi anche la precisazione compiuta dal legislatore con la clausola di riserva (“fuori del caso preveduto nell’ultimo capoverso dell’art.56 C.p”), indicativa della necessità di mantenere separati i casi di tentativo da quelli di intervenuto ravvedimento tardivo, posto in essere a reato integrato, ma indice del carattere sanzionatorio -più che compensativo- del ristoro.

La descritta questione, afferente la funzione della riparazione penalistica, non solo non è risolta in via definitiva, mancando una chiara indicazione legislativa in proposito, ma si estende al diverso aspetto della modulazione del risarcimento, se necessariamente integrale o meno, quale indice della ratio del ristoro.

Nel novero delle laconiche e ondivaghe indicazioni legislative sul punto, inadatte a dirimere il dubbio, tale problema interpretativo si manifesta con particolare evidenza in rapporto alla sospensione condizionale della pena.

Tra i benefici disposti a favore del reo, la sospensione condizionale trova il proprio fondamento normativo ordinario nell’art.163 C.p. La norma prevede che, nel pronunciare sentenza di condanna per un periodo non superiore a due anni, il giudice possa ordinare che l’esecuzione della pena resti sospesa per un tempo pari a cinque anni se la condanna è intervenuta per delitto; due, in caso di contravvenzione.

La citata previsione, letta in combinato disposto con l’art.165 C.p., consente al giudice di subordinare la sospensione all’adempimento dell’obbligo delle restituzioni, ovvero al pagamento di una somma determinata a titolo di risarcimento del danno o provvisionale.

Fa eccezione alla regola quanto disposto dal diverso comma secondo del medesimo art.165 C.p.: quando è concessa a persona che ne ha già usufruito, la sospensione deve essere subordinata all’adempimento di uno dei predetti obblighi, cui per completezza deve aggiungersi, accanto al risarcimento del danno, alle restituzioni o al pagamento di una somma a titolo di provvisionale, anche la pubblicazione della sentenza di condanna e il lavoro a favore della collettività, se il condannato non si oppone.

La sospensione si condiziona necessariamente, in tal caso, all’adempimento di uno dei descritti obblighi e quindi all’intervenuta riparazione del danno.

Come si nota, però, nel dettato dell’art.165 C.p., il legislatore omette ogni riferimento all’integralità del risarcimento e dunque dell’omissione si è dibattuto in dottrina, proprio con riguardo alla modulazione del ristoro che è questione avvinta, come si anticipava, alla natura compensativa o afflittiva della condanna al risarcimento in materia penale.

In proposito, giova evidenziare l’ulteriore previsione contenuta al quarto comma dell’art.163 C.p., in cui la legge esplicita una diversa ipotesi di sospensione condizionale della pena, detta breve, subordinata all’intervenuta riparazione -stavolta integrale- del danno, antecedente la sentenza di primo grado. L’integrazione di tali requisiti strutturali consente il congelamento della condanna a una pena non superiore a un anno. Analogamente a quanto accade nel richiamato dell’art.62, comma 6, C.p., può darsi il beneficio ove il reo provveda, alternativamente, all’attivazione efficiente e spontanea, volta a elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato da lui eliminabili.

Il legislatore, pertanto, torna a impiegare il termine “interamente”, con ciò alimentando il dubbio che ove non lo utilizzi voglia riferirsi a forme e modulazioni diverse di riparazione, sottintendendo una funzione altra da quella compensativa o riparativa svolta dal risarcimento in materia penale.

Se, infatti, non v’è dubbio intorno alla necessità civilistica di garantire alla vittima l’integrale riparazione del danno cagionato dal fatto illecito, ai sensi dell’art.2043 C.c., a mente della citata impostazione, parrebbe doversi ricavare che, in assenza di precisazioni, il risarcimento penale non si curi dell’interezza, rivolgendosi piuttosto a irrinunciabili scopi ulteriori e altri dal mero ristoro, concernenti esigenze speciali e general preventive, potendo la vittima adire il giudice civile per il differenziale.

Come chiarito, il problema resta aperto, non potendosi individuare una sicura volontà legale sul punto.

In ogni caso, ai sensi dell’art.167 C.p., ove nei predetti termini di sospensione il condannato non commetta delitti o contravvenzioni della stessa indole, il reato potrà essere successivamente dichiarato estinto.

Con riguardo alle contravvenzioni, invece, è l’oblazione l’istituto individuato dal legislatore per determinare l’estinzione del reato. Questa non pone particolari problemi in punto di quantum riparativo, poiché è la legge a indicarlo precisamente: è possibile pagare una somma pari alla terza parte del massimo della pena, oltre alle spese di procedimento, per accedere al beneficio. Laddove le contravvenzioni siano punite con pena alternativa, invece, la concessione dell’oblazione diviene facoltativa per il giudice e comporta il pagamento della metà del massimo della pena comminabile, oltre le spese. Non è consentito, tuttavia, accedervi, laddove permangano conseguenze dannose o pericolose del reato che siano eliminabili dal contravventore e questi non vi provveda (art.162-bis, comma 3, C.p.).

Tra gli istituti implicitamente impiegati a sollecitazione della riparazione del danno, vi è poi la querela.

Strumento tipicamente processuale, la querela integra una condizione di procedibilità che dimostra la volontà dell’ordinamento di rimettere alla persona offesa la valutazione d’opportunità della persecuzione penale del reo. Di fronte a reati primariamente offensivi di interessi personali, si vuole scongiurare per la vittima il cosiddetto strepitus fori. Soprattutto con riguardo a certe fattispecie, come i delitti di carattere sessuale, occorre evitare che la persona offesa si trovi costretta, pur non volendo, a subire il doppio pregiudizio in cui spesso consiste il processo; dacché, l’espressione “querela-garanzia”, formulata in dottrina.

Accanto a tale forma di querela se ne individua una diversa, detta “querela-selezione”, che si sostanzia in uno strumento di depenalizzazione in concreto: il fatto oggetto d’interesse integra un reato, ma in forza di determinati presupposti non si procede a sanzionarlo.

A differenza del primo caso, la querela selezione volge a sintetizzare le esigenze connesse alla superfluità della pena in concreto e alla deflazione processuale. Con la querela in parola, quindi, non si vogliono tanto offrire strumenti di garanzia alla vittima; piuttosto, essa guarda alla avvenuta riparazione del danno e alla rimozione delle conseguenze del reato come occasione di soddisfazione di esigenze ulteriori, d’ordine generale, quali la proporzionalità della pena all’offesa effettivamente realizzata dal reato, nonché il rispetto del principio di materialità e pratici bisogni d’alleggerimento del carico giudiziario.

In tale chiave di lettura può considerarsi la vicenda della querela, oggi assunta dal legislatore a strumento marcatamente deflattivo, atto a comporre la criminalità interpersonale, o “a due”, in contesti stragiudiziali e privatistici.

Lo strumento consente alle parti private di modulare la composizione dei loro interessi al di fuori del procedimento penale, sia prima della sua proposizione che, successivamente, mediante la rimessione. Accade sovente, infatti, che il soggetto agente (prima che sia proposta) o il querelato si offra di riparare il danno cagionato dal reato e che la vittima ritenga soddisfacente ottenere un ristoro privatistico al pregiudizio subìto, rinunciando sicché alla persecuzione giudiziale. In tali casi, dalla transazione discende la soddisfazione economica del danneggiato, integrandosi il richiamato contemperamento di esigenze private e d’interesse generale.

Essendo la vittima direttamente ad accordare il quantum riparativo, non sembra doversi fare questione della sufficienza compensativa del ristoro, né parrebbe assumere un ruolo rilevante la considerazione della sua funzione, atteso che -nei casi in cui la procedibilità non è officiosa- si verte in ambiti ove la vittima detiene un ruolo protagonistico, come brillantemente descritto in dottrina. Conseguentemente, si assisterebbe a una recessione dell’interesse generale, già confermata, per vero, dalla astratta previsione in sé della procedibilità a querela, nonostante non manchi, tuttavia, chi osserva come attualmente siano annoverate tra le ipotesi di reato perseguibile su impulso della vittima anche forme di odiosa criminalità, niente affatto collegate a casi di inopportunità sanzionatoria (come l’art.615 C.p., disciplinante la violazione di domicilio commessa da un pubblico ufficiale).

Dispone effetti analoghi a quelli sin qui rappresentati anche la previsione contenuta all’art.35 del D.lgs. 274/00, una disposizione che consente al giudice, sentite le parti e l’eventuale persona offesa, di dichiarare con sentenza estinto il reato quando l’imputato abbia riparato il danno prima dell’udienza di comparizione e sempre che ciò risulti idoneo a soddisfare le esigenze di riprovazione e di prevenzione del reato.

Circa la dedotta idoneità della condotta a soddisfare “le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione” si è sviluppato, anche in rapporto a tale istituto, un vivace dibattito dottrinale, volto a comprendere la natura del ristoro, se sostanzialmente civilistica o sostanzialmente penalistica. E’ stata sostenuta l’insufficienza a fini estintivi del reato di un risarcimento unicamente volto a soddisfare la persona offesa, in quanto esso parrebbe dover mirare anche a soddisfare le esigenze preventive tipiche della pena, di carattere generale e speciale, nonché quelle retributive, che non si rivolgono unicamente alla vittima, ma all’intero corpo sociale.

Nel dibattito è intervenuta una sentenza a Sezioni Unite della Corte di Cassazione che ha acclarato la funzionalizzazione sociale del ristoro di cui all’art.35 del D.lgs. 274/00. Ricorrendo all’espressione “danno criminale”, la Suprema Corte ha distinto il risarcimento civilistico, integrale e atto a coprire ogni voce di danno sofferta dalla vittima, dal diverso ristoro penalistico, avente una duplice connotazione. Esso si rivolgerebbe, in parte qua, a soddisfare la persona offesa, rendendo inutile la perpetrazione del processo penale, e, in parte alia, risulterebbe dotato degli scopi tipici della pena, cioè quelli di retribuzione e rieducazione del reo.

L’argomento poggia sulla assenza d’interesse della parte civile ad impugnare la sentenza che estingue il reato in applicazione dell’art. 35 del D. Lgs. n. 274/00, in quanto essa non fa stato nel giudizio civile, mancandone il richiamo nell’art.652 C.p.p. Conseguentemente, la vittima può adire il giudice civile per ottenere il differenziale tra il ristoro integrale e quello diverso, ottenuto in sede penale.

La Corte dimostra di assegnare un peso al dato letterale della norma: all’art.35, infatti, non solo non si prescrive la necessità dell’integrale riparazione del danno, ma -ai sensi del comma 2 dello stesso articolo- il giudice di pace pronuncia la sentenza di estinzione del reato solo ove ritenga le predette attività risarcitorie e riparatorie idonee a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e di prevenzione. Sicché, in tal caso, per volontà legislativa, la funzione del risarcimento si disvela quale non meramente compensativa e anzi subordinata alla effettiva soddisfazione di istanze a carattere generale, quali sono gli scopi ordinari della pena.

Nella suddetta ipotesi di riparazione offerta di fronte al giudice di pace, si è dato atto della duplice valutazione cui il legislatore assoggetta la condotta riparatoria: quella della vittima, sentita dal giudice, nonché quella ulteriore, compiuta autonomamente dal giudice, come chiarito volta a considerare aspetti d’ordine generale e non privato.

Nel diverso caso dell’art. 162-ter C.p., introdotto dal legislatore nel 2017, è prevista una ulteriore causa di estinzione del reato per condotte riparatorie in rapporto ai reati procedibili a querela rimettibile.

Si tratta di uno strumento per mezzo del quale il giudice, sentite le parti e la persona offesa, dichiara, cioè deve dichiarare, l’estinzione del reato, laddove sussistano i presupposti indicati dall’art.162-ter C.p. Tra questi s’individua l’avvenuta riparazione integrale del danno.

Avuto riguardo a quanto sin qui riportato in punto di autonomia del giudizio civile rispetto al procedimento penale, riferendosi la norma all’integralità del risarcimento, pare recepire le riportate indicazioni della Corte di Cassazione e appurare una soddisfazione piena già davanti al giudice penale, scongiurando così l’istaurazione dell’ulteriore contenzioso civilistico. Tale sarebbe, pertanto, il presupposto logico della prevalenza dell’opinione del giudice, rispetto a quella della persona offesa dal reato, nel ritenere integrata la congrua riparazione del danno.

In proposito, il comma 1, ultimo capoverso, del medesimo articolo, prevede la possibilità per il giudice di estinguere il reato anche qualora l’imputato abbia formulato offerta reale, ai sensi degli articoli 1208 e seguenti del Codice Civile, ed egli la ritenga congrua, nonostante la mancata accettazione della persona offesa. E’ il giudice, quindi, a sancire l’inopportunità della persecuzione penale, ritenendo satisfattiva, anche in relazione ai sopra richiamati fini sociali, di rieducazione e retribuzione, l’avvenuta od offerta riparazione del danno, compiuta mediante le restituzioni o il risarcimento e l’eliminazione, ove possibile, delle conseguenze dannose o pericolose del reato. L’istituto dimostra avere una natura garantista nei confronti del reo, posto che il legislatore parrebbe voler escludere fenomeni di persecuzione processuale, rimessi all’arbitrio della vittima.

Quel che è dato concludere alla luce delle richiamate pronunce e novelle legislative è che ove il legislatore voglia scongiurare la doppia proposizione dei giudizi, civile e penale, deve richiedere l’intera riparazione del danno già in quest’ultima sede. Tuttavia, accanto a tale funzione compensativa, di ristoro integrale del danno da reato, possono essere richieste dalla legge al giudice valutazioni di altro tipo, più strettamente connesse agli scopi tipici della pena. Ciò sembra connotare il risarcimento nel diritto penale d’una peculiare funzione, non riducibile alla mera soddisfazione della vittima, fatta eccezione per i reati “a due”, ove la composizione del conflitto e l’opportunità dell’an della persecuzione penale giudiziale è rimessa interamente alle valutazioni della persona offesa.

 

 


IL POTENZIAMENTO DELLA QUERELASELEZIONE E LA SUA GESTIONE GIUDIZIALE
IN PRESENZA DI CONDOTTE RIPARATORIE di Fausto Giunta in Discrimen, 10 Nov. 2018;
L’ESTINZIONE DEL REATO MEDIANTE RIPARAZIONE di Gian Paolo Demuro in Criminalia, Annuario di Scienze Penalistiche ex Discrimen 12 Nov. 2018;
CIFRA ESSENZIALE, STATUTO COSTITUZIONALE E RUOLO SISTEMATICO DELL’ILLECITO PUNITIVO
CIVILE di Roberto Bartoli in Discrimen 07 Feb. 2020;
PERSEGUIBILITÀ A QUERELA ED ESTINZIONE DEL DANNO PER CONDOTTE RIPARATORIE: SPUNTI DI RIFLESSIONE di Sergio Seminara in Criminalia ed. 2018 ex Discrimen dal 20 Lug. 2018

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