Rischio suicidario: strategie di prevenzione

Rischio suicidario: strategie di prevenzione

È importante, in maniera preliminare, tentare di dare una definizione generale di suicidio, nonostante risulti un’impresa estremamente difficile, se non impossibile, a causa dell’estrema soggettività del fenomeno. Tuttavia, solo grazie alla specifica conoscenza dello stesso si può intervenire in maniera efficace sulla prevenzione, la cura e la tutela delle persone, all’interno del contesto penitenziario.

Sicuramente la formulazione più semplice per definire il suicidio è la seguente: «il suicidio è la morte di un soggetto conseguita ad una sua azione od omissione indirizzata a questo specifico fine. Il tentato suicidio si ha quando indipendentemente dalla volontà dell’autore, la morte non viene conseguita»[1].

Baldi definisce diverse tipologie di condotte suicidarie sulla base di due variabili, ossia il suicidal intent, ovvero la motivazione più o meno forte e la medical letality, ossia la probabilità che quella determinata condotta possa provocare effettivamente la morte. In questo modo arriva a classificare tre tipologie di condotte suicidarie su una scala di intensità che prevede, al livello più alto, «il suicidio completo o quello mancato laddove, nonostante un suicidial intent molto alto, la morte non è avvenuta. A livello di intensità intermedio si collocano i tentati suicidi e, a quello più basso di intensità, i para-suicidi che denotano una certa strumentalità in funzione della necessità di attirare l’attenzione su di sé e di porre in essere un acting-out utile per evadere da una realtà considerata intollerabile»[2].

L’Amministrazione penitenziaria si occupa attivamente di prevenzione del rischio suicidario, a partire dagli anni ’80, con Nicolò Amato (1933-2021), tramite alcune circolari, con le quali si iniziano a delineare i profili di possibili soggetti a rischio.

Solo nel 2012, a seguito della Conferenza Stato-Regioni, si disciplina il dovere in capo all’Amministrazione penitenziaria di provvedere, nelle sue varie articolazioni, congiuntamente ai rispettivi livelli organizzativi e gestionali del Servizio Sanitario Nazionale, all’elaborazione di protocolli d’intesa finalizzati a dare corpo ad un sistema integrato di prevenzione ispirato alle linee guida dell’O.M.S.

Il primo protocollo, ispirato alle linee dell’O.M.S. nasce in Emilia Romagna, dopo un anno e mezzo di lavoro, grazie al coinvolgimento di diversi soggetti, con svariate qualifiche e si sviluppa per punti chiave.  Difatti, per prima cosa tale documento chiarisce le proprie finalità. Questo è indispensabile sia per comprendere come investire le risorse, sia per intervenire su più situazioni possibili, evitando l’esclusione delle categorie deboli. Di seguito, prevede delle forme di intervento in un’ottica preventiva, non solo a livello generale, ma anche e soprattutto a livello locale, con la creazione di strutture specifiche, attive su base regionale e provinciale.

Strettamente legato a questo punto è il controllo della fase di sperimentazione, ossia la verifica dell’utilità e dell’applicabilità concreta delle soluzioni previste all’interno del protocollo in modo astratto. Inoltre, tale protocollo ribadisce come sia necessario intervenire anche con attività di monitoraggio, tramite forme di collaborazioni con enti sanitari esterni, ovvero ci deve essere trasparenza sulle modalità di operazione dei soggetti coinvolti, unita alla condivisione di informazioni, necessaria per poter delineare delle strategie di intervento efficaci, da poter adottare rapidamente nei casi di emergenza.

In tale documento si ribadisce che per garantire una tutela e una prevenzione effettiva l’Amministrazione penitenziaria ha il dovere di intervenire sia sui detenuti, che sul personale penitenziario. Questa interviene sui detenuti attraverso l’elaborazione di nuovi schemi, per la verifica del rischio. Questo vuol dire che non si devono valutare solo i singoli soggetti, ma gruppi, individuati attraverso screening sistematici, fatti al momento dell’ingresso in carcere.

Inoltre è importante l’osservazione dei detenuti nel corso della detenzione, soprattutto in caso di modifica delle condizioni detentive e la personalizzazione del trattamento tramite attività (possibilmente esterne, nel rispetto del comma 3 dell’art. 27 della Cost.), sulla base anche di specifici protocolli clinici e sempre nel rispetto della dignità dell’individuo, evitando procedure umilianti, che comportino il restringimento degli spazi e accentuino il trauma per la perdita della libertà personale. Mentre, per quanto riguarda il personale penitenziario, è importante intervenire, attraverso attività di formazione integrata con il personale sanitario e tramite procedure di debriefing (secondo quanto sancito dalle linee guida dell’O.M.S.), che hanno lo scopo di aiutare, attraverso forme specifiche di ascolto e sensibilizzazione, tutti coloro che si sono trovati coinvolti, in fase di ritrovamento di soggetti suicidi, soprattutto per liberarli, per quanto possibile, da ogni forma di senso di colpa o di responsabilità.

Infine, oltre alle forme di sostegno tecnico è importante mantenere una collaborazione anche con sostegni a-tecnici, come per esempio i peer supporter. Questi sono soggetti, che su base volontaria, a seguito di specifiche verifiche di idoneità, si propongono di stare vicino a soggetti a rischio, tentando di costruire con gli stessi dei rapporti, necessari in un’ottica di abbassamento del rischio. Tali soggetti tuttavia non possono essere considerati responsabili, in caso di morte del detenuto, avendo una funzione di mero supporto.

Ciò, che si ricava da questa breve trattazione è che l’unico modo per garantire l’abbassamento del rischio suicidario è la piena collaborazione, in un’ottica di attenzione, sostegno e cura, di tutti i soggetti, appartenenti all’aree tecniche, a-tecniche, sanitarie e decisionali, presenti all’interno dell’Amministrazione penitenziaria.

 

 

 

 

 

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[1] Baldi E., Il suicidio in carcere, in http//dex1.tsd.unifi.it/altro dir., 1997.
[2] Buffa P., Definire il suicidio, in La prevenzione dei suicidi in carcere contributi per la conoscenza del fenomeno, Quaderni ISSP Numero 8, 2011, p.7.

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Chiara Ottaviano

Dottoressa in giurisprudenza. Ho conseguito la laurea presso il dipartimento di Roma tre, ad ottobre 2022, con una tesi in diritto missionario, analizzando gli Acta Apostalicae Sedis dal 1918 al 1963. Attualmente, praticante avvocato in diritto civile, con attenzione al diritto di famiglia ed al diritto fallimentare. A settembre 2023 ho conseguito un Master di II livello in diritto penitenziario e Costituzione, presso il dipartimento di Roma tre, discutendo una tesi sulla condizione delle recluse transgender all'interno dell'amministrazione penitenziaria e sviluppando un grande interesse per la normativa concernente la comunità LGBTQAI+. Ho da poco terminato, presso il dipartimento di Giurisprudenza di Roma tre il corso in materia diritti umani e ONG curato in collaborazione con CILD. Attualmente collaboro come volontaria presso Antigone nell'ufficio del Difensore civico.

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