Ruolo e facoltà della parte civile nel processo penale

Ruolo e facoltà della parte civile nel processo penale

Il fatto di reato, quale evento materiale che si esplica nella realtà, non implica solamente l’incriminazione del soggetto agente, ma nella maggior parte dei casi costituisce anche una fonte di danno. Infatti, accade di frequente che l’evento delittuoso vada ad interessare la sfera giuridica di soggetti terzi estranei al reato i quali, a causa di questa intromissione esterna subiscono nocumento.

Tale concetto emerge innanzitutto nel Titolo VII del Libro I del codice penale, dedicato alle sanzioni civili: l’art. 185 c.p. non solo statuisce, in caso di reato, l’obbligo di restituzione a norma delle leggi civili, ma soprattutto enuncia il principio in base al quale “ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui”. Questo primo assunto dimostra che, così come in ottica retributiva e rieducativa il colpevole deve rispondere degli addebiti per ristabilire l’ordine sociale, allo stesso modo, qualora le sue azioni abbiano cagionato un danno ad altri, questo deve essere risarcito, in forma specifica (restituzioni) o per equivalente (risarcimento), al fine di eliminare le conseguenze dannose del reato.

Per questo motivo, nel processo penale troviamo la figura della parte civile che, in tale sede richiede le restituzioni o il risarcimento che per legge le sono dovuti. In particolare l’art. 74 c.p.p. statuisce che è legittimato ad agire in tale sede a norma dell’art. 185 c.p. colui al quale il reato ha recato danno ovvero i suoi successori universali. Emerge quindi chiaramente che in questo ambito si assiste ad uno stretto collegamento tra processo penale e una azione che si ritrova tipicamente nel processo civile, ovvero quella per il risarcimento dei danni. Per questo motivo si è resa necessaria innanzitutto una regolamentazione dei rapporti tra azione penale e azione civile.

A tale proposito l’art. 75 c.p.p. prevede che: ”l’azione civile proposta davanti al giudice civile può essere trasferita nel processo penale fino a quando in sede civile non sia stata pronunciata sentenza di merito anche non passata in giudicato. L’esercizio di tale facoltà comporta rinuncia agli atti del giudizio”; ciò significa che un trasferimento in sede penale di un’azione radicata inizialmente presso il giudice civile è ammissibile fino a quando non sia stata pronunciata sentenza di merito, quindi fino alla conclusione del primo grado di giudizio e comunque non oltre i termini previsti dall’art. 79 c.p.p.. Se si decidesse in questo senso, tuttavia, si rinuncerebbe definitivamente a far valere tale pretesa in sede civile e l’azione civile si innesterebbe in quella penale, di conseguenza, in un’ottica di economia processuale, il giudice penale deciderà su entrambe le questioni nonché sulle spese del procedimento civile.

Al contrario, “l’azione civile prosegue in sede civile se non è trasferita nel processo penale o è stata iniziata quando non è più ammessa la costituzione di parte civile”; in questo secondo caso i processi procederebbero autonomamente e parallelamente lasciando separati i due giudizi. Questa possibilità è quella che nella pratica viene a creare maggiori problematiche, infatti, oltre alla duplicazione dei giudizi su una materia parzialmente coincidente che causerebbe sprechi in termini di costi e risorse, ancor più grave è la situazione che si verrebbe a creare in presenza di giudicati difformi. A completamento di questa disciplina si inseriscono anche gli artt. 651 ss. c.p.p. i quali disciplinano l’efficacia delle sentenze penali nel giudizio civile o amministrativo di danno.

Il principio di autonomia e separazione del giudizio civile da quello penale è stato più volte affrontato dalla giurisprudenza della Suprema Corte, la quale ha avuto modo in più occasioni di specificarne la portata. Tale principio comporta tra l’altro che, “qualora un medesimo fatto illecito produca diversi tipi di danno, il danneggiato possa pretendere il risarcimento di ciascuno di essi separatamente dagli altri, agendo in sede civile per un tipo e poi costituendosi parte civile nel giudizio penale per l’altro” (Cass. pen. Sez. II, 6 febbraio 2014, n. 5801, Montalti e altro). Tale pronuncia riesce infatti a cogliere una nuova lettura di tale principio, il quale assume sempre più una portata sostanzialistica. L’orientamento sopra esplicitato rafforza ed estende le tutele del danneggiato, permettendogli addirittura di scomporre il danno subito e, in virtù di questo principio farlo valere in sedi diverse, favorendo in tal modo la personalizzazione del danno al fine di ottenere il ristoro integrale dei pregiudizi subiti.

Infine il terzo comma dell’art. 75 c.p.p. prevede che “se l’azione è proposta in sede civile nei confronti dell’imputato dopo la costituzione di parte civile nel processo penale o dopo la sentenza penale di primo grado, il processo civile è sospeso fino alla pronuncia della sentenza penale non più soggetta a impugnazione, salve le eccezioni previste dalla legge”. In tale ultimo caso il meccanismo prescelto è quello di sospendere il processo civile e attendere la conclusione di quello penale che si trova in uno stato più avanzato. Nei casi menzionati dall’articolo infatti il processo penale pregiudica quello civile e i due procedimenti sono collegati e indivisibili in regione della scelta operata dal danneggiato di prediligere in primo luogo la sede penale per la definizione della questione.

Dopo aver analizzato i rapporti tra processo penale e processo civile e quali sono le scelte a disposizione del danneggiato per far valere nel migliore dei modi i suoi diritti, è necessario inquadrare meglio la figura della parte civile e chi sono più nello specifico i soggetti legittimati alla costituzione.

Innanzitutto va chiarito che la ratio di questo istituto è quella di provvedere in sede penale al ristoro patrimoniale dei danni derivanti da reato. I soggetti nei confronti dei quali tale diritto è garantito sono individuati in primis dall’art. 74 c.p.p. che legittima all’azione civile il soggetto al quale il reato ha recato danno, ovvero i suoi successori universali.

A tale proposito, va enunciata una prima distinzione che è quella tra danneggiato e persona offesa dal reato. Mentre il primo si identifica genericamente con colui il quale ha subito dei danni, economicamente valutabili e che trovano la loro fonte nell’azione posta in essere dal reo, la persona offesa o soggetto passivo della condotta, invece, è il titolare del bene giuridico protetto dalla norma penale ed è colui sul quale ricade l’azione del colpevole. Benché tale distinzione spesso non sia rilevante in quanto non è infrequente che le due figure coincidano, in alcuni casi si assiste alla scissione delle due posizioni. Esempio tipico è il reato di omicidio dove la persona offesa si identifica con la vittima e i danneggiati con i congiunti di quest’ultima i quali, benché non direttamente investiti dall’azione delittuosa hanno a causa di questa patito notevoli danni patrimoniali e non patrimoniali; questi, essendo successori universali della persona offesa, sono legittimati a costituirsi parte civile ex art. 74 c.p.p.

Sempre per quanto riguarda i soggetti legittimati alla costituzione di parte civile, bisogna menzionare anche gli enti e le associazioni rappresentative di interessi lesi dal reato. A questi infatti l’art. 91 c.p.p. conferisce la possibilità, in ogni stato e grado del procedimento, di esercitare i diritti e le facoltà attribuiti alla persona offesa. Tale possibilità è tuttavia subordinata a determinate condizioni: gli enti e le associazioni devono essere senza scopo di lucro, inoltre, anteriormente alla commissione del delitto devono essere riconosciute loro, in forza di legge, finalità di tutela degli interessi lesi da reato, ci deve essere il consenso della persona offesa e infine il termine per l’intervento è sempre quello della costituzione delle parti. Il momento a partire dal quale è invece ammissibile l’intervento è la fase delle indagini preliminari, così come si deduce dal secondo comma dell’art. 95 c.p.p. Una previsione di questo tipo si è resa necessaria in quanto, oltre ai reati esclusivamente lesivi di interessi individuali, esistono reati che violano interessi collettivi o diffusi, si pensi, per esempio, agli illeciti penali collegati alla violazione della normativa sulla salubrità dell’ambiente di lavoro o di quella finalizzata a contrastare l’inquinamento (G. Conso, V. Grevi, M. Bargis, Compendio di procedure penale, 6ª ed., 2012, CEDAM).

Pertanto, analizzando le singole fattispecie di reato previste dal nostro ordinamento si può facilmente comprendere che molto spesso il delitto è fonte di danno, in questi casi, qualora il danneggiato decidesse di far valere le sue ragioni in sede penale dovrebbe seguire le indicazioni del codice di rito al fine di formalizzare legittimamente la sua costituzione.

Innanzitutto il danneggiato deve inserirsi nell’iter processuale con modi e tempi ben precisi: soltanto attraverso la costituzione di parte civile potrà infatti azionare i suoi diritti in sede penale. Tale costituzione può essere esercitata anche a mezzo di procuratore e secondo le formalità previste dall’art. 78 c.p.p..

La costituzione può essere presentata all’udienza preliminare ma non oltre, pena decadenza, il compimento degli adempimenti previsti dall’art. 484 c.p.p.. Da ciò si comprende che il primo momento utile per la costituzione di parte civile è proprio l’udienza preliminare.

Per quanto riguarda le tutele accordate al danneggiato durante le indagini preliminari, invece, assume una fondamentale importanza la distinzione tra soggetto danneggiato civilmente e persona offesa, infatti solo quest’ultima può esercitare le facoltà che in tale delicata fase il codice riconosce. Tale concetto emerge chiaramente anche nella giurisprudenza della Cassazione, la quale ha statuito che “solo la persona offesa, cioè il soggetto titolare dell’interesse specifico direttamente tutelato dalla norma, ha diritto alla notifica della richiesta di archiviazione, che non spetta invece alla persona danneggiata denunciate, cioè a chi, non titolare dell’interesse protetto ha comunque subito un danno dal reato” (Cass. pen. Sez. VI, 21 agosto 1995, n. 2453, Ferri).

Alla persona offesa infatti, a causa del suo stretto collegamento con l’azione delittuosa, sono riservate anche prima della costituzione di parte civile, alcune prerogative espressamente conferitele dalla legge: oltre a ricevere, fin dal primo contatto con l’autorità procedente una serie di informazioni (art. 90 bis c.p.p.) è destinataria dell’informazione di garanzia (art. 369 c.p.p.), può richiedere al Pubblico Ministero di promuovere incidente probatorio (art. 394 c.p.p.), può nominare un proprio consulente che prenda parte agli accertamenti irripetibili (art. 360 c.p.p.) e può anche proporre opposizione all’archiviazione (art. 410 c.p.p.). Infine la persona offesa può avvalersi delle facoltà previste dall’art. 90 c.p.p., ovvero, in ogni stato e grado del procedimento le è data facoltà di presentare memorie e, con esclusione del giudizio di Cassazione, indicare elementi di prova che possono, soprattutto in fase di indagini preliminari, indirizzare gli inquirenti. Tali diritti potranno essere esercitati dal danneggiato solo qualora rivesta anche la qualifica di persona offesa. Il momento ultimo per esercitare la facoltà di costituirsi parte civile, invece coincide con il termine indicato dall’art. 484 c.p.p.. A tale proposito parte della giurisprudenza ha dichiarato “inammissibile la costituzione di parte civile che sia avvenuta successivamente al compimento degli adempimenti per la verifica della regolare costituzione delle parti, pur se siano ancora proponibili le questioni previste dall’art. 491 c.p.p., le quali, invece, la presuppongono” (Cass. pen. Sez. V, 20 settembre 2013, n. 38982, Zoccali).

La costituzione di parte civile deve inoltre avvenire secondo ben precise formalità, contenute nell’art. 78 c.p.p. e deve esplicitamente indicare l’esposizione delle ragioni che giustificano la domanda del danneggiato, in modo tale da fondare l’interesse della parte privata a stare in giudizio.

Una volta enunciati gli strumenti di cui dispone il danneggiato, deve essere infine enunciato un principio fondamentale in materia, ovvero quello dell’immanenza della parte civile. Tale assunto prende avvio dall’art. 76 comma 2 c.p.p. il quale afferma espressamente che la costituzione di parte civile produce i suoi effetti in ogni stato e grado del processo; da ciò discenderebbe che, la parte civile si costituisce una volta per tutte e che tale atto, disciplinato nel dettaglio dalle norme appena analizzate, oltre a sancire l’ingresso della parte privata nel processo penale produrrebbe i suoi effetti fino alla conclusione dell’iter processuale.

Tale principio è stato compiutamente enunciato dalla giurisprudenza, la quale ha statuito che: “per il principio di immanenza della costituzione di parte civile di cui all’articolo 76, comma 2, C.P., questa, una volta intervenuta, produce i suoi effetti in ogni stato e grado del processo: la parte privata, pertanto, una volta costituita fa parte del processo anche se non è presente di persona al momento dell’accertamento della costituzione delle parti nella udienza preliminare o in quella dibattimentale del primo grado o di quelli successivi. Da ciò consegue anche che alla parte civile costituita spetta la citazione per i gradi ulteriori del giudizio, senza obbligo di rinnovare la costituzione”(Cass. pen., Sez. V, 27 gennaio 2010, n. 3519).

A riprova della fondatezza di tale principio si devono inoltre analizzare gli artt. 80, 81 e 82 c.p.p. che prevedono le ipotesi tipiche che privano di efficacia la costituzione di parte civile; pertanto, se il legislatore ha ritenuto necessario disciplinare espressamente i casi in cui la parte civile abbandona il processo, ciò implicitamente dimostra che al di fuori di tali casi la costituzione perdura per tutto il procedimento.

Il primo caso è quello che attiene all’esclusione di parte civile: infatti il Pubblico Ministero, l’imputato e il responsabile civile possono proporre richiesta motivata di esclusione della parte civile, stabilendo inoltre i termini entro cui tale richiesta può essere proposta. L’esclusione può inoltre essere disposta ex officio dal giudice, fino a che non sia stato aperto il dibattimento di primo grado, qualora questo accerti che manchino i requisiti previsti dalla legge per la costituzione (tale possibilità è concessa al giudice anche in riferimento agli enti e alle associazioni rappresentative ex art. 95 comma 4 c.p.p. in ogni stato e grado del processo).

Infine il codice di rito conferisce alla parte civile la facoltà di recesso, ovvero ammette la revoca della costituzione di parte civile in ogni stato e grado del procedimento con dichiarazione fatta personalmente dalla parte o da un suo procuratore speciale.

Più problematica potrebbe sembrare la questione della revoca tacita, ma anche qui il codice offre una disciplina analitica della questione stabilendo al secondo comma dell’art 82 c.p.p. che la revoca tacita si ha solo in due casi: qualora la parte civile non presenti le conclusioni a norma dell’art. 523 c.p.p., ovvero qualora decida di promuovere l’azione davanti al giudice civile. Da ciò discendono due fondamentali conseguenze: da un lato il trasferimento dell’azione civile che comporta la revoca della costituzione e l’estinzione del rapporto processuale civile in sede penale impedisce al giudice penale di mantenere ferme le statuizioni civili relative ad un rapporto processuale ormai estinto (Cass. pen., Sez. IV, 16 luglio 2004, n. 31320, Di Tria ed altro), dall’altra, tale meccanismo, che è finalizzato ad escludere la duplicazione di giudizi, opera solo qualora ci sia coincidenza fra le due domande (Cass. pen., Sez. IV, 26 gennaio 2015, n. 3454, Di Stefano e altro). La tassatività della revoca tacita è poi avvalorata da una pronuncia a Sezioni Unite nella quale viene statuito che “l’assenza della parte civile nel giudizio di appello non può interpretarsi come comportamento equivalente a revoca tacita o presunta, non essendo riconducibile ad alcuna delle specifiche ipotesi previste dall’art. 82 comma 2 c.p.p.” (Cass. pen. Sezioni Unite, 29 gennaio 1996, n. 930, Clarke).


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