Sezioni Unite, discrimen tra estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni

Sezioni Unite, discrimen tra estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni

Le Sezioni Unite sono recentemente intervenute con la sentenza n. 29541 del 2020, a seguito dell’ordinanza di remissione n. 50696 del 2019, per dirimere i contrasti ermeneutici sorti in giurisprudenza in merito ai criteri distintivi tra il reato di estorsione e quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.

È opportuno analizzare, in via preliminare, i due reati al fine di comprendere le ragioni che hanno determinato le diverse interpretazioni giurisprudenziali.

Il reato di estorsione, disciplinato dall’art. 629 c.p., si configura nel caso in cui un soggetto, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualcosa, procuri a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno.

In primo luogo, emerge come si tratti di un reato comune, ove la qualità di pubblico ufficiale del soggetto attivo consentirebbe l’inquadramento del fatto, in presenta di tutti gli elementi costitutivi, nella fattispecie di concussione.

La condotta antigiuridica si sostanzia nell’uso di violenza o minaccia volti a creare un doppio evento: uno stato di costrizione psichica e coartazione della volontà, da un lato, e la disposizione patrimoniale lesiva della sfera giuridica del soggetto passivo, dall’altro.

Si ritiene che la violenza possa manifestarsi non solo verso le persone ma anche sulle cose (c.d. violenza reale) ingenerando il metus che contraddistingue il reato in esame, sebbene tale situazione non debba annullare completamente la libertà di autodeterminazione della persona offesa, venendosi, altrimenti, a configurare il reato di rapina.

Quanto alla minaccia, si tratta della prospettazione di un male futuro, non necessariamente ingiusto, purché idonea a condizionare la volontà della vittima e a garantire il perseguimento del fine della condotta posta in essere, ovvero il profitto.

È necessario, dunque, che sussista un nesso causale tra l’azione e la situazione di soggezione psicologica, che costituisce l’evento intermedio rispetto all’atto di disposizione patrimoniale del soggetto passivo che si realizza mediante un’azione o un’omissione dello stesso.

Può trattarsi dell’alienazione di un bene, piuttosto che dell’estinzione di un’obbligazione o, ancora, della rinuncia ad un’azione giudiziaria o della rinuncia all’eredità.

In simili ipotesi si sostanzia un’ulteriore differenza rispetto al delitto di rapina che ha per oggetto esclusivamente cose mobili, dove l’estorsione, invece, può causare l’aggressione a qualsiasi parte del patrimonio della vittima.

Quanto all’ultimo elemento, ovvero al fine che muove la condotta dell’estorsore, è necessario che il profitto procurato sia ingiusto e, dunque, fondato su una pretesa non tutelata dall’ordinamento e idoneo a cagionare un ingiusto danno, qualificato come qualsiasi deminutio patrimonii che incida sulla sfera patrimoniale del soggetto passivo.

La liceità o l’illiceità della pretesa che l’agente intende far valere si pone come elemento discriminante tra il reato di estorsione e quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni di cui all’art. 393 c.p., ove commesso con violenza sulle persone.

Da qui si sviluppa uno dei nodi controversi del rapporto tra i reati in esame che ha determinato l’intervento delle Sezioni Unite, funzionale a fornire una risposta a due interrogativi fondamentali: se la differenza tra il reato di estorsione e quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni consista nell’elemento materiale o nell’elemento psicologico; se il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni sia qualificabile come reato proprio esclusivo e in quali termini si possa configurare il concorso del terzo non titolare della pretesa giuridica azionabile.

Il caso di specie aveva ad oggetto una condanna, in capo a tre soggetti, per il reato di tentata estorsione aggravato dall’utilizzo del metodo mafioso e commesso in concorso.

Era emerso che uno degli imputati aveva stipulato un contratto con una società in base al quale si impegnava a trasferire in permuta un terreno di sua proprietà, con l’accordo che la società avrebbe trasferito una parte degli immobili costruiti sul quel terreno.

Successivamente la sorella dell’imputato in questione, avviando un contenzioso civile nei confronti della società, al fine di rivendicare dei diritti sul terreno trasferito, impediva l’esecuzione di una parte dell’accordo.

Incurante della pendenza della causa, l’imputato si recava presso il cantiere della società in compagnia di altri due imputati, intimando agli imprenditori di trasferire gli immobili costruiti sul terreno ed ostentando collegamenti con la criminalità organizzata.

Gli imputati contestavano, mediante ricorso in Cassazione, la qualificazione giuridica del fatto in termini di tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso ex art. 416-bis, sostenendo che il caso dovesse inquadrarsi nell’ipotesi di esercizio arbitrario delle proprie ragioni mediante violenza sulle persone ex art. 393 c.p., in quanto l’imputato vantava nei confronti della società una pretesa giuridicamente tutelabile in giudizio ai sensi dell’art. 2932 c.c.

Le Sezioni Unite, ripercorrendo i diversi orientamenti esistenti in materia, hanno evidenziato come si rinvenisse il discrimine tra i due reati nell’elemento intenzionale, consistente nel procurarsi un ingiusto profitto, in caso di estorsione, e nell’agire per conseguire un’utilità alla quale si ritiene di avere diritto, nel caso di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.

In epoca successiva è stato posto l’accento sull’elemento psicologico, per cui, nell’ipotesi dell’art. 393 c.p. l’autore perseguirebbe il conseguimento di un profitto nella convinzione di esercitare un diritto azionabile giudizialmente, mentre nell’ipotesi di estorsione sussisterebbe nell’agente la consapevolezza di non avere diritto al conseguimento del profitto.

Un diverso orientamento ha valorizzato la materialità del fatto, con riguardo alla gravità della violenza o delle minacce esercitate, evidenziando come nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni la condotta violenta o minacciosa, persuasiva e non strettamente costrittiva, sia strumentale al conseguimento del preteso diritto, mentre nel reato di estorsione la minaccia o la violenza si estrinsecano in forza intimidatoria idonea ad annullare la capacità volitiva della vittima.

Pertanto, ogni forma di intimidazione sproporzionata ed eccessiva rispetto al fine di far valere un preteso diritto si tradurrebbe in un’ipotesi inquadrabile nel reato di estorsione.

Le Sezioni Unite hanno sanato il contrasto asserendo che, sebbene l’intensità della violenza o della minaccia possano costituire un utile indizio, la differenza tra i due reati si fonda sull’elemento psicologico.

Il riferimento alla gravità delle violenze e delle minacce e, dunque, all’effetto costrittivo che ne deriva, parrebbe idoneo a distinguere il reato di estorsione da quello di rapina, in cui la condotta dell’agente determina l’annullamento delle capacità volitive della vittima.

Quanto alla seconda questione sottoposta alle Sezioni Unite, si fa riferimento alla qualificazione del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni come reato comune o reato proprio, ed eventualmente, reato esclusivo o di mano propria.

Occorre precisare che i reati propri esclusivi o di mano propria si contraddistinguono in quanto la condotta tipica deve essere posta in essere esclusivamente da un soggetto qualificato, che in caso di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, corrisponde al titolare della posizione tutelabile in giudizio.

Di conseguenza, qualsiasi condotta violenta o minacciosa posta in essere da un terzo determinerebbe l’applicazione della fattispecie estorsiva, potendo il terzo eventualmente concorrere ex art. 110 c.p.

Le Sezioni Unite, ripercorrendo anche in questo caso le diverse linee interpretative, hanno affermato la natura di reato proprio non esclusivo, sebbene la condotta del reato ex art. 393 c.p. possa essere posta in essere da un terzo a tutela di un diritto altrui, purché il terzo non sia mosso dall’interesse per un profitto proprio; in tal caso la condotta sarebbe configurabile come ipotesi di concorso nel reato di estorsione ex artt. 110 e 629 c.p.

La dottrina risulta divisa con riguardo all’individuazione del soggetto attivo del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.

La dottrina tradizionale qualificava il reato ex art. 393 c.p. come reato comune alla luce dell’argomento letterale tratto dal testo della norma che riporta il termine «chiunque», ammettendo la responsabilità a titolo di concorso per chiunque agisca insieme al soggetto che ritiene di esercitare un preteso diritto, pur non potendo far valere alcuna situazione giuridica.

Inoltre, sulla base dell’argomento sistematico, traendo spunto dal bene giuridicamente tutelato, ovvero il monopolio giurisdizionale dello Stato nella risoluzione delle controversie, si riteneva inammissibile l’intromissione di terzi, in quanto il legislatore ha consentito limitate deroghe esclusivamente nei casi di procedibilità a querela.

L’orientamento dominante, confermato dalle Sezioni Unite, riteneva che si dovesse parlare di reato proprio, in quanto possono qualificarsi autori del reato non solo i soggetti che vantano un preteso diritto ma anche colui che eserciti in sua vece il preteso diritto e anche il negotiorum gestor.

L’orientamento che considerava il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni come reato proprio esclusivo non risultava condivisibile, in quanto fondato esclusivamente sul fatto che l’agente, pur potendo ricorrere al giudice, si fa arbitrariamente ragione «da sé medesimo».

L’espressione, in realtà, era già presente nel codice Zanardelli, ove i lavori preparatori attribuivano un significato diverso, nel senso di mera «surrogazione dell’arbitrio individuale al potere della pubblica Autorità».

Alla luce delle considerazioni esposte, le Sezioni Unite hanno, dunque, affermato due principi di diritto:

– «il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione si differenziano tra loro in relazione all’elemento psicologico, da accertarsi secondo le ordinarie regole probatorie»;

– «il concorso del terzo nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone è configurabile nei soli casi in cui questi si limiti ad offrire un contributo alla pretesa del creditore, senza perseguire alcuna diversa ed ulteriore finalità».


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Ilenia Vitobello

Ilenia Vitobello, nata a Trani (BT) il 18 maggio 1997. Ha conseguito il diploma di maturità classica presso il Liceo Classico "A. Casardi" di Barletta con votazione 100/100 e Lode. Termina il corso di laurea magistrale a ciclo unico in Giurisprudenza presso l'Università LUISS Guido Carli il 6 luglio 2020, con votazione 110/110 e Lode, discutendo una tesi in diritto penale dal titolo "Il trattamento punitivo dei sex offender". Attualmente svolge la pratica forense presso uno Studio Legale di Roma.

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