Stop all’automatismo e al modello di stampo patriarcale: i figli potranno avere il doppio cognome

Stop all’automatismo e al modello di stampo patriarcale: i figli potranno avere il doppio cognome

Il 27 aprile 2022, la Corte Costituzionale annunciava con un comunicato stampa una decisione storica e senza precedenti, in seno alla quale dichiarava illegittime tutte le norme che attribuivano automaticamente il cognome del padre al nascituro.

Difatti la Suprema Corte nelle motivazioni depositate il 31 maggio 2022, riteneva discriminatoria e lesiva dell’identità del figlio la regola che attribuiva meccanicamente il cognome del padre al neonato, per contrasto con gli artt. 2, 3 e 117 primo comma della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

L’automatismo, oggi tanto discusso, fonda le sue radici ancor prima della Riforma sul diritto di famiglia del 1975. Già negli anni ’70 dello scorso secolo, la famiglia era considerata prima di ogni cosa una figura giuridica, un nucleo compatto che nasce dal  reciproco affetto. Tale è sempre stato nella storia, un’unione salda, resa possibile dalla forza dell’elemento affettivo, dalla severità del costume e dalla robustezza del sentimento religioso, l’aggregato familiare è il presupposto naturale e necessario che giustifica lo Stato nei confronti della casa paterna»[1]

I rapporti tra coniugi e tra genitori e figli, si dicevano «regolati dall’affetto , dall’onore , dall’impulso altruistico ( spirito di sacrificio, senso del dovere ecc.) e da spirito di solidarietà , prima che dall’ordinamento giuridico» .[2] «La famiglia, infatti, è un’istituzione sociale, che l’etica, il costume e la religione mirano a disciplinare, ciascuno per proprio conto e in atto da quanto l’ordinamento giuridico dispone»[3].

E come ogni istituzione che si rispetti, all’apice vi era una figura apicale il cd pater-familias.

Ad onore del vero, andando a ritroso nel tempo, il cd ordine delle famiglie – rigorosamente di stampo patriarcale – aveva retto sostanzialmente su due pilastri : l’autorità maritale e la patria potestà , successivamente se ne affiancò un terzo di importazione francese: l’ autorizzazione matrimoniale . Ciò spiega come in seno all’art. 213 del code Napoléon si stabiliva che: “Il marito deve protezione alla moglie, e la moglie deve obbedienza al marito”, laddove il richiamo all’obbedienza, legittimava nella vita quotidiana il più severo potere correzionale che il pater-familias aveva, e persino la violenza sessuale ai danni della moglie, purché nei limiti previsti dai costumi e dalla legge e senza cadere in gravi sevizie [4].

Nel predetto codice,   si trovava un fondamento normativo agli artt. 215 e seguenti, la vigilanza (del marito nei riguardi della moglie e dei figli); laddove veniva sancita la totale interdizione della donna coniugata rispetto a qualsiasi attività giuridicamente rilevante che non fosse autorizzata o per meglio dire legittimata dal marito. L’art. 215 recita:  “La moglie non può stare in giudizio senza l’autorizzazione del marito, quand’anche ella esercitasse pubblicamente la mercatura, o non fosse in comunione, o fosse separata di beni”; ed ancora, l’art. 217 statuisce:  “La donna, che ancora non sia in comunione o sia separata di beni, non può donare, alienare, ipotecare, acquistare, a titolo gratuito od oneroso, senza che il marito concorra all’atto, o presti il suo consenso per iscritto”.

Ma, se questa era la situazione della Francia post rivoluzionaria, nell’Italia preunitaria, invece, con la sola eccezione del Lombardo Veneto, tutti gli Stati prevedevano l’istituto dell’autorizzazione maritale e una volta conquistata l’unità si rese necessaria una legislazione nazionale in materia.

Ulteriore pilastro, espressione di un vecchio archetipo di famiglia gerarchico-patriarcale è la cd autorità maritale, [ 5 ] vigente nel codice civile del 1865, il quale riconosceva una serie di prerogative nei confronti del marito in quanto capo della famiglia :[6] il marito dava il nome alla famiglia; il marito fissava la residenza della famiglia; la moglie seguiva la cittadinanza del marito; la moglie aveva il domicilio legale presso il marito; il marito aveva un potere preminente nel seguire tutta la situazione economica della famiglia. In questo codice, non si parla più di dovere di obbedienza a carico della moglie, come nel codice francese, ma piuttosto si riscontra l’esplicita attribuzione al marito della qualità di capo della famiglia .[7]

Ed è proprio da tale potere  di “capo della famiglia”, riconosciuto al padre e al marito all’interno di ogni società familiare, che si cristallizzano nel Codice Pisanelli una serie di norme le quali assegnavano al marito un dominio assoluto anche nei rapporti con i figli , i quali pur essendo tenuti ad onorare e rispettare entrambi i genitori (art.220, I comma), fino alla maggiore età o all’emancipazione erano soggetti alla potestà del padre e, solo in caso di impedimento di quest’ultimo, a quella della madre (art.220, II e III comma).[8]

Anche, per quanto riguarda l’aspetto patrimoniale il padre la rappresentanza dei figli nati e nascituri in tutti gli atti civili, e ne amministrava i beni (art.224); aveva l’usufrutto dei beni che provenissero al figlio da successione, donazione o altro titolo lucrativo (art. 228). Ancora, sul disciplinare, poteva allontanare dalla famiglia il figlio traviato e collocarlo in un istituto di educazione o correzione (art. 222). [9] Infine, il padre poteva per testamento o per atto conforme alle condizioni per l’educazione dei figli e per l’amministrazione dei beni; la madre che, al contrario, non voleva accettare tali condizioni poteva richiedere di far convocare dal pretore un consiglio di famiglia a norma degli articoli 252 e 253 affinché deliberasse su tale richiesta.

Quella appena descritta è la situazione normativa che rimarrà vigente dal 1865 al 1942: quasi ottant’anni.

Successivamente, dopo l’entrata in vigore della legge n°151 del 19 maggio 1975, stante la tendenza della stessa a valorizzare i principi costituzionali di eguaglianza tra i coniugi e l’ampia tutela della filiazione naturale, le regole comunque non cambiano. Difatti, per  effetto della sentenza di divorzio, la donna perdeva il cognome del marito, che, in seguito al matrimonio aveva aggiunto al suo. Inoltre, la legge  prevedeva la possibilità per la moglie che aveva conservato il cognome del marito per autorizzazione del tribunale di perdere tale facoltà se sussistevano motivi di particolare gravità che riguardavano elementi relativi alla personalità o alla condotta di uno dei coniugi. Tale decisione veniva adottata con sentenza poiché la stessa era annotata automaticamente nel pubblico registro. Invece la donna perdeva di diritto il cognome del marito nel caso in cui contraeva nuove nozze.[11]

Sul punto, è la stessa Corte Costituzionale che aveva da tempo rilevato che la norma sull’attribuzione del cognome del padre è sinonimo di un «retaggio legato ad una concezione patriarcale della famiglia, il riflesso di una disparità di trattamento che, concepita in seno alla famiglia fondata sul matrimonio, si è proiettata anche sull’attribuzione del cognome al figlio nato fuori dal matrimonio, ove contemporaneamente riconosciuto»[12]

Inoltre, non è chiaro come, malgrado la riforma del diritto di famiglia del 1975 che definiva il matrimonio come l’unione basata sugli stessi diritti e sui medesimi doveri dei coniugi (art. 143 c.c.), sulla reciproca solidarietà e sulla condivisione delle scelte (art. 144 c.c.), permane una visione discriminatoria rispetto alle norme censurate dalla Corte che, attraverso il cognome, si riflette sull’identità di ciascuno.

Un lascito che la Corte definisce “non più tollerabile”.

Ne discende, quindi, un cambio di rotta nel quale la Corte evidenzia una svolta epocale e chiarisce, allo stesso tempo, che il cognome rappresenta «il nucleo dell’identità giuridica e sociale della persona: le conferisce identificabilità, nei rapporti di diritto pubblico, come di diritto privato», oltre a collegare ogni personalità individuale con un contesto familiare di provenienza.

Nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, è costante l’affermazione secondo cui il nome è un segno distintivo dell’identità personale nonché tratto essenziale della personalità, riconosciuto come diritto fondamentale della persona umana.

È di palmare evidenza, dunque, che la Suprema Corte voglia distaccarsi dalla norma consuetudinaria adottata fino a poco tempo fa, la quale attribuiva meccanicamente al figlio legittimo il cognome del padre, anziché prevedere che il figlio potesse assumere i cognomi di entrambi i genitori, nell’ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l’accordo, al momento del riconoscimento, di attribuire il cognome di uno di loro soltanto. L’illegittimità costituzionale è stata estesa anche alle norme sull’attribuzione del cognome al figlio nato nel matrimonio e al figlio adottato

A rigor di logica, nasce un automatismo che attribuisce il cognome paterno individuando una diseguaglianza fra i genitori, che si imprime sull’identità del figlio, così determinando la contemporanea violazione degli artt. 2 e 3 Cost.

A fronte, quindi, di una disciplina civilistica che garantisce soltanto l’attribuzione del cognome del padre, la madre è posta in una situazione di asimmetria, che intacca tanto la parità tra i genitori, quanto le possibilità di un accordo, tanto più improbabile nel caso avesse ad oggetto l’attribuzione del solo cognome materno, ossia il radicale sacrificio di ciò che spetta attualmente di diritto al padre. Ciò dimostra come senza eguaglianza vengono a mancare le stesse condizioni logiche e assiologiche di un accordo.

Un secolo dopo, la “moderna” pronuncia dei Supremi Giudici, smuove le coscienze di molti. Ma nonostante sia mutato il modello familiare arcaico (di stampo patriarcale, più nuclei conviventi sotto la guida dell’anziano capostipite, prole numerosa, abitazione unifamiliare, il patrimonio unico e indivisibile, il primato materno e maritale etc.), rispetto a quello attuale ( poco numerosa, l’autorità tende a ripartirsi tra i coniugi, abitazione appartamentale con redditi da lavoro, precoce emancipazione dei figli ecc.); non sembrano però mutati gli usi e i costumi della società odierna che con affanno si allontana dai vecchi archetipi.

Nella sentenza si legge, in proposito, che proprio per la funzione svolta dal cognome, è opportuno che nel caso in cui uno o entrambi i genitori possiedano un doppio cognome, sia data a questi la facoltà di scegliere uno tra i due cognomi da tramandare al figlio. Diversamente, i genitori possono sempre optare, nel superiore interesse del minore, per l’attribuzione del doppio cognome di uno di loro soltanto.

Ebbene, ciò che preme alla Suprema Corte è di prevenire i rischi legati a vuoti normativi, motivo per cui la Stessa ha rivolto un chiaro invito al legislatore: in primo luogo, un impellente intervento per «impedire che l’attribuzione del cognome di entrambi i genitori comporti, nel succedersi delle generazioni, un meccanismo moltiplicatore che sarebbe lesivo della funzione identitaria del cognome.

In secondo luogo, i giudici costituzionali hanno rimesso alla valutazione del legislatore «l’interesse del figlio a non vedersi attribuito, un cognome diverso rispetto a quello di fratelli e sorelle». Anche al riguardo la sentenza segnala una possibile soluzione, e cioè che la scelta del cognome attribuito al primo figlio sia vincolante rispetto ai figli successivi della stessa coppia. [13]

Tuttavia, nonostante, consensi e i dissensi ottenuti in merito ad una decisione rivoluzionaria e storica, la Corte ha voluto dare un chiaro segno: un netto distacco, una volta per tutte, dal sistema patriarcale su cui ha retto fino ad oggi l’aggregato familiare.

Alla luce di ciò, all’indomani della predetta sentenza, si è verificato in Italia il primo caso di doppio cognome. I giudici del Tribunale di Pesaro, hanno infatti ordinato all’anagrafe di un piccolo comune marchigiano di modificare l’atto di nascita di una bambina aggiungendo al cognome paterno anche quello della madre. È stata quest’ultima ad appellarsi al tribunale chiedendo che fosse riconosciuto in questo modo lo sforzo compiuto per crescere la figlia, dopo la fine della relazione con il padre di lei.

Da ora in poi, il cognome, o l’ordine dei due cognomi, sarà il risultato di una scelta personale e condivisa che si lascia alle spalle il vecchio circuito meccanicistico, secondo cui il cognome paterno è stato assegnato a protezione di quello materno.

Ad oggi, se entrambi i genitori non riusciranno a trovare un accordo a scegliere sarà il giudice, poiché un figlio nasce da uomo e da una donna.

 

 

 

 

 


Bibliografia:
[1]Barassi, La famiglia legittima nel nuovo codice civile, Milano, 1940, 5 ss. Per i secoli passati basta ricordare il valore della matrimonio affetto ai fini della costituzione e persistenza del vincolo nel diritto matrimoniale romano : «La reciproca volontà dei coniugi, chiamata appuntoaffetio maritalis, consensus, mens coeuntium, ecc., quale alla i giuristi attribuiscono l’effetto di far sorgere il vincolo matrimoniale, deve, per avere tale efficacia giuridica, essere diretta a un’unione monogamica per la durata della loro esistenza, avente come scopo la formazione della famiglia, cioè di una società domestica fondata su rapporti reciproci di protezione e di assistenza, che importa una comunanza di vita dell’uomo e della donna ed è diretta alla procreazione ed all’educazione dei figli nati da questa unione » (Volterra, Istituzioni di diritto privato romano, Roma, 1967, 648).
[2]Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, vol. I, Milano, 1946, 399.
[3]Coco, il cd “Femminicidio” Tra delitto passionale e ricerca di un’identità perduta, Napoli, 2016.op, cit. 86.
[4]Arnaud duc, “Le contraddizioni del diritto in Storia delle donne”. L’800 (a cura di G.Fraisse e M.Pierrot), Roma-Parigi 1991, 74 ss.
[5]L’argomento era trattato prevalentemente in tema di diritti e doveri dei coniugi; cfr. Borsari, Commentario del codice civile italiano, vol. I, Torino-Napoli, 1871, art 131; De Filippis, Corso completo di diritto civile italiano comparato, vol. IX, I diritti di famiglia, Napoli, 1881; Gianturco, Sistema di diritto civile italiano, vol. I, Parte generale e diritto di famiglia, Napoli, 1884; Abello, Trattato di diritto civile italiano, Torino, 1904, vol. IO; Cicu, Diritto di famiglia, Roma, 1914; Dusi, Istituzioni di diritto civile, vol. I, Torino, 1929.
[6]Art.131, cod. civ. Pisanelli <Il marito è capo della famiglia: la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome, ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli creda opportuno di fissare la sua residenza>.
[7] Così Bianchi, Corso di codice civile italiano, Torino, 1893, vol.2, 10 ss. “Né con ciò, può dirsi che sia fatta offesa al principio di eguaglianza tra le persone che si sono unite in società coniugale; poiché la vera uguaglianza giuridica non consiste nel parificare, quanto i rispettivi rapporti, più esseri che rispettivi attitudini, per natura loro, qualità bisogni e speciali destinazioni differenti, ma nel rispetto a pari modo in tutte le loro condizioni naturali, dal momento che l’uguaglianza nel diritto non può veramente considerarsi in senso assoluto, ma è necessariamente relativa .D’altra parte, nei rapporti derivanti da un matrimonio, l’uomo e la donna non possono essere considerati solo individualmente, ma come costituiti in quello stato di famiglia di cui il matrimonio stesso è la base. O questo stato induce la necessità di stabilire un’autorità da cui la famiglia sia retta, autorità che deve risiedere in capo ad una sola persona, affinché al governo degli interessi domestici si imprima quella unità che è necessaria all’ordine della famiglia .Guardando anche a quelle che sono le disposizioni date in natura alla donna sia fisica assegnata che morali, le è stata una missione dedicata più alle cure interne e minute, destinando invece, l’uomo a sviluppare la propria attività in una sfera più ed esterna , di conseguenza il legislatore ha riconosciuto capo della famiglia il marito, come più adatto, per le sue sue naturali e per tutelare gli interessi più importanti della vita civile>.
[8]Id, Ibidem.
[9]Così Pacifici Mazzoni, Istituzioni di diritto civile italiano, VII, 2, Firenze, 1924, 151 ss. Previsione derivata dal Codice Napoleone, che in caso di figlio disobbediente consentiva al padre di ricorrere addirittura al carcere (artt. 375-377). «(…) il diritto di educare i figli consiste nel potere che ha il genitore che esercita la patria potestà di dirigere e sorvegliare la condotta, di scegliere il culto in cui debbono essere allevati; di regolarne il genere di vita e tutto quel complesso di rapporti che costituiscono l’educazione o influenza sulla medesima. Egli può educare i propri figli da sé nella propria casa o collocarli presso istituti educativi. (…) in garanzia di tale diritto, la legge accorda al genitore il potere di infliggere al figlio i castighi domestici per frenarne i traviamenti. Quali castighi genitori possono infliggere ai figli per correggerli, viene determinato dai costumi, si devono eliminare, senza dubbio, gli atti di brutalità i quali moralizzano i figli. Del resto l’uso moderato dei castighi è garantito anche giuridicamente. (art. 233)».
[10]ID, Ibidem.
[11]Domenico Bellantoni, “Del Matrimonio”, Cedam, Padova 1996.
[12] Sentenza n. 268 del 2002 ; nello stesso senso,  Sentenza n. 120 del 2001Sentenza n. 286 del 2016 .
[13] così commenta Debora Rizza, in www.ecointernazionale.com , “Doppio cognome, cosa dice la sentenza della Corte Costituzionale”.

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Sara Spanò

Dott.ssa con Laurea Magistrale in Giurisprudenza conseguita presso l'Università "La Sapienza" di Roma e praticante Avvocato.

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