Strappare di mano il cellulare è rapina

Strappare di mano il cellulare è rapina

I reati di cui agli artt. 628, comma I e 393 c.p. presentano due fattispecie che per alcuni aspetti collimano. Il reato di rapina propria, ai sensi del primo comma dell’art. 628 c.p., si configura quando taluno, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, mediante violenza alla persona o minaccia, si impossessa della cosa mobile altrui. Gli elementi costitutivi del reato sono l’impossessamento, inteso quale autonomo potere di signoria sulla cosa, la minaccia o violenza, quale energia fisica da parte dell’agente contro la persona offesa. Nella rapina propria le minacce o la forza fisica devono realizzarsi in un momento anteriore all’impossessamento ed essere funzionali allo stesso. Il momento della sottrazione distingue il reato di rapina propria (I comma) dal reato di rapina impropria (II comma). Nel caso in cui il comportamento minaccioso o violento avvenga successivamente alla sottrazione, al fine di assicurare a sé o ad altri il possesso sulla cosa o l’impunità da reato si configurerà il reato di cui al secondo comma (rapina impropria). Sul punto è opportuno precisare che mentre il reato ex art. 628, comma I, c.p. ammette pacificamente il tentativo, riguardo la forma tentata della rapina impropria si fronteggiano due tesi, l’orientamento minoritario non ammette il tentativo di rapina impropria, configurando piuttosto il concorso tra il tentato furto e altro reato commesso per assicurarsi la impunità. La tesi maggioritaria, invece, ritiene integrato il tentativo di rapina impropria quando l’agente commetta atti idonei alla sottrazione senza che, per ragioni indipendenti dalla sua volontà, avvenga lo spossessamento: si configura rapina impropria consumata, quando l’agente impiega violenza o minaccia al fine di conseguire il possesso della res, poiché il reato ex art. 628, comma II, prescinde dall’impossessamento che non rappresenta l’evento, bensì il dolo specifico del reato.

Le fattispecie ex artt. 392 e 393 c.p. puniscono chi, al fine di esercitare un preteso diritto, potendo ricorrere al giudice, si fa arbitrariamente ragione da sé medesimo usando violenza o minaccia alle cose o alle persone. Mentre l’art. 392 c.p. prevede che l’agente diriga la minaccia o forza fisica nei confronti della res, nel caso di cui all’articolo seguente il confine con la rapina è più labile. L’elemento distintivo dal delitto ai sensi dell’art. 628 c.p. risiede nell’elemento soggettivo: nella rapina l’autore agisce al fine di procurare a sé o ad altri un profitto ingiusto, è dunque ben consapevole che quanto pretende non gli spetta e non è giuridicamente azionabile. Nel caso dell’esercizio arbitrario delle proprie azioni, al contrario, il soggetto attivo agisce nella ragionevole opinione di esercitare un diritto che gli spetta. Peraltro, se la violenza utilizzata dal soggetto agente nei confronti della vittima è di intensità tale da risultare esuberante oltremodo le ragioni del credito, si realizza il reato ex art. 628, comma I c.p.

Ricapitolando, si incorre nel reato di esercizio arbitrario delle proprie azioni se taluno al fine di rientrare nel possesso di un proprio asserito credito, di cui vanti effettivamente il diritto ovvero agisca nella ragionevole opinione della legittimità della sua pretesa o in autotutela di un diritto che possa costituire oggetto di contestazione giudiziale, pone in essere violenza o minaccia contro chi detiene l’asserito credito (o altra res) al fine di impossessarsene nuovamente. Si precisa che, anche se tale diritto non sia effettivamente esistente, la pretesa (effettiva o ritenuta ragionevolmente tale) deve corrispondere perfettamente all’oggetto della tutela concretamente apprestata dall’ordinamento giuridico e non mirare ad ottenere qualcosa in più.

Tali considerazioni sono state oggetto di una recente pronuncia della Corte di Cassazione[i]. Nel caso che si è prospettato al vaglio della Suprema Corte, durante la discussione tra due coniugi in fase di separazione, la moglie, per documentare il danneggiamento su alcuni suoi effetti personali nella casa familiare da parte del coniuge, aveva effettuato delle riprese con il cellulare. In seguito a ciò il marito le aveva strappato di mano il telefono, al fine non di conseguire un profitto ma di impedire un atto a suo dire illecito. Tuttavia, la pretesa del marito, di farsi giustizia da sé e sottrarre il telefono alla moglie, non è tutelabile davanti all’autorità giudiziaria, né tanto meno può ritenersi condotta illecita, capace di cagionare danni a terzi, l’esecuzione di riprese con il proprio telefono cellulare, peraltro, di oggetti di proprietà della persona che le esegue. Difatti, anche se il marito in buona fede avesse ritenuto tale la condotta della moglie, non avrebbe potuto ottenere altro che un rimedio meramente risarcitorio (e non anche la sottrazione della disponibilità del cellullare alla proprietaria del bene).

In conclusione, la condotta violenta, commessa con minaccia dell’esercizio di un diritto, può integrare gli estremi della rapina se si estrinseca con modalità tali da evidenziare il mero intento di impossessarsi della cosa.

In un precedente arresto[ii], la Corte aveva già avuto modo di stabilire che l’impossessamento del cellulare del compagno al fine di leggere il contenuto dei messaggi che la persona offesa ha ricevuto da un soggetto terzo (situazione ben distante dall’esercizio di un diritto) integra il delitto di rapina e lede il diritto alla riservatezza e comprime la libertà di autodeterminazione del soggetto offeso. Così la Cassazione aveva individuato il delitto di rapina nella condotta del soggetto che aveva strattonato la ex fidanzata al fine di sottrarle il telefono per leggere il contenuto dei messaggi.

 

 

 

 


[i] Cass. Pen., II 11 settembre 2010, n. 26982, Caldo
[ii] Cass. Pen. Sez. II, 19 marzo 2015, n. 11467

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