Tenuità del fatto e restituzione degli atti al P.M., le SS.UU. sui profili di abnormità dell’atto

Tenuità del fatto e restituzione degli atti al P.M., le SS.UU. sui profili di abnormità dell’atto

Con la sentenza n. 20569, depositata in data 9 maggio 2018, le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione hanno affermato il principio di diritto secondo cui “non è abnorme, e quindi non è ricorribile per cassazione, il provvedimento con cui il giudice per le indagini preliminari, investito della richiesta di emissione di decreto penale di condanna, restituisca gli atti al pubblico ministero perché valuti la possibilità di chiedere l’archiviazione del procedimento per particolare tenuità del fatto, ex art. 131-bis cod. pen.”.

Il Pubblico Ministero chiedeva al Giudice per le Indagini Preliminari l’emissione di un decreto penale di condanna nei confronti di un imputato in ordine al delitto di cui agli artt. 56, 624 c.p., contestatogli per avere compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco ad impossessarsi della somma di euro 4,60 e di due pacchetti di sigarette, introducendosi in un furgone in sosta lasciato aperto dal suo proprietario, senza riuscire a portare a compimento l’azione perché fermato da una pattuglia delle forze dell’ordine.

Il Giudice per le Indagini Preliminari, senza respingere formalmente la richiesta di emissione del decreto penale di condanna, restituiva gli atti al Pubblico Ministero, invitandolo a valutare, dopo avere acquisito il certificato penale dell’imputato, se chiedere l’archiviazione del procedimento ai sensi dell’art. 131-bis c.p.

Avverso il provvedimento di restituzione degli atti, ritenuto abnorme, il Pubblico Ministero proponeva ricorso per cassazione censurando l’indebito superamento da parte del giudice dei limiti che l’ordinamento processuale gli impone nell’esercizio della funzione di controllo sulle determinazioni del magistrato inquirente in tema di esercizio dell’azione penale.

In particolare, il ricorrente evidenziava che, a norma dell’art. 459, comma 3, c.p.p., il Giudice per le Indagini Preliminari che sia investito della richiesta di emissione del decreto penale di condanna, qualora non rinvenga i presupposti per pronunciare il proscioglimento dell’imputato ai sensi dell’art. 129 c.p.p., può respingere la richiesta, restituendo gli atti al Pubblico Ministero, soltanto per ragioni attinenti alla legittima introduzione del rito, alla qualificazione giuridica del fatto, oppure all’idoneità ed adeguatezza della pena in riferimento al caso concreto.

Inoltre, nel procedimento per decreto non è consentito al giudice respingere la richiesta del Pubblico Ministero per mere ragioni di opportunità, per cui, l’unica alternativa possibile alla pronuncia della sentenza di proscioglimento dell’imputato, ai sensi dell’art. 129 c.p.p., è costituita dall’emissione del decreto di condanna.

Da ultimo, il provvedimento di restituzione degli atti per valutare l’ipotetica applicabilità dell’art. 131-bis c.p. è abnorme, perché non consentito, tenuto conto, inoltre, che nel procedimento per decreto non potrebbe essere applicata la causa di non punibilità per particolare tenuità, che presuppone la previa instaurazione del contraddittorio con l’imputato e determina l’effetto pregiudizievole dell’iscrizione della sentenza nel casellario giudiziale, in quanto il procedimento monitorio è caratterizzato dall’assenza di contraddittorio, sicché non vi sarebbe spazio per una sentenza di proscioglimento ex art. 129 c.p.p.

In ordine alla legittimità della determinazione del giudice di non dare corso alla richiesta del Pubblico Ministero e di rimettergli gli atti per formulare eventuale richiesta di archiviazione del procedimento per particolare tenuità del fatto di reato, era dato rinvenire, sino alla pronuncia in esame, un contrasto di opinioni nella giurisprudenza di legittimità.

Un primo orientamento (cfr., ex pluribus, Cass. Pen., sez. IV, sent. n. 10209 del 4.2.2016; Cass. Pen., sez. VI, sent. n. 6663 del 1.12.2015) escludeva l’abnormità del provvedimento di restituzione degli atti sulla base della funzione di controllo demandata al Giudice per le Indagini Preliminari rispetto alle determinazioni assunte dal Pubblico Ministero all’atto dell’esercizio dell’azione penale.

Premesso che, per il principio di tassatività dei mezzi d’impugnazione di cui all’art. 568 c.p.p., il provvedimento di restituzione degli atti al pubblico ministero va considerato inoppugnabile, si è ritenuto che la sua contestazione mediante ricorso per cassazione non sia consentita nemmeno mediante il richiamo alla nozione di abnormità dell’atto giudiziario, ravvisabile soltanto quando siano riscontrabili anomalie genetiche o funzionali così radicali da porre il provvedimento al di fuori dello schema legale delineato dall’ordinamento e da rivelare l’assenza del potere decisorio.

Nel provvedimento di restituzione degli atti, che rientra nel novero dei poteri attribuiti al giudice ex art. 459, comma terzo, c.p.p., si ravvisa, in altri termini, un mero invito ad assumere una diversa determinazione, non un’indebita interferenza con le prerogative del Pubblico Ministero, rimaste impregiudicate anche nelle valutazioni da esprimere nel prosieguo, e nemmeno un differente apprezzamento circa l’opportunità di introdurre il rito speciale.

A tale interpretazione si giustapponeva quella di altra giurisprudenza di legittimità (cfr., ex pluribus, Cass. Pen., sez. IV, sent. n. 48888 del 25.10.2016; Cass. Pen., sez. VI, sent. n. 36216 del 27.6.2013) secondo cui il provvedimento del Giudice per le Indagini Preliminari, investito della richiesta di emissione di decreto penale di condanna, col quale si disponga la restituzione degli atti al Pubblico Ministero per verificare l’applicabilità della causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis c.p., è affetto da abnormità strutturale per carenza di potere giurisdizionale, tenuto conto che la restituzione prevista dall’art. 459, comma terzo, c.p.p. si inserisce in una situazione diversa e quindi non risponde al modello legale.

Precisamente, il rifiuto di emettere il decreto penale di condanna è consentito dall’art. 459, comma 3, c.p.p. soltanto per ragioni attinenti alla legittimità del rito, alla definizione giuridica del fatto ed all’adeguatezza della pena, non per altri profili oggetto di apprezzamento discrezionale, quali l’indicazione della possibile archiviazione del procedimento.

In secondo luogo, la restituzione degli atti interviene dopo l’esercizio dell’azione penale nelle forme previste dall’art. 459, comma 1, c.p.p., a fronte del quale al giudice è consentito pronunciare il decreto di condanna, o, in alternativa, emettere sentenza di proscioglimento ex art. 129 c.p.p.

Ancora, il rito monitorio, caratterizzato da finalità premiali e dall’assenza di contraddittorio, è inconciliabile con la previsione dell’art. 131-bis c.p., disciplinante una causa di non punibilità del fatto di reato accertato come sussistente e riferibile alla persona dell’imputato e non introduttiva di un ostacolo alla procedibilità dell’azione penale.

Da ultimo, la mancanza del contraddittorio nel rito monitorio preclude la possibilità del passaggio, grazie alla sollecitazione del giudice per le indagini preliminari, ad un diverso tipo di giudizio che pretende la partecipazione effettiva delle parti, sicché l’applicazione dell’istituto di cui all’art. 131-bis c.p. nell’ambito del procedimento per decreto di condanna è ammissibile soltanto nella fase giudiziale a contraddittorio pieno, introdotta dalla proposizione dell’opposizione al decreto già emesso.

Risolvendo il contrasto di giurisprudenza appena evidenziato, le Sezioni Unite mostrano di aderire al primo e maggioritario degli orientamenti illustrati, anzitutto richiamando l’esegèsi dogmatica offerta in relazione alla categoria dell’”abnormità” la quale, come noto, rappresenta un forma di patologia dell’atto giudiziario priva di riconoscimento testuale in un’esplicita disposizione normativa, ma frutto di elaborazione da parte della dottrina e della giurisprudenza, tramite cui si è inteso porre rimedio, attraverso l’intervento del giudice di legittimità, agli effetti pregiudizievoli derivanti da provvedimenti non previsti nominatim come impugnabili, ma affetti da tali anomalie genetiche o funzionali, che li rendono difformi ed eccentrici rispetto al sistema processuale e con esso radicalmente incompatibili.
La categoria dell’abnormità così elaborata presenta carattere eccezionale e derogatorio al principio di tassatività dei mezzi d’impugnazione, sancito dall’art. 568 c.p.p., mantenuto inalterato nel suo testo anche dopo la riforma introdotta con la legge 23 giugno 2017, n. 103, ed al numero chiuso delle nullità deducibili secondo la previsione dell’art. 177 c.p.p. È, dunque, riferibile alle sole situazioni in cui l’ordinamento non appresti altri rimedi idonei per rimuovere il provvedimento giudiziale, che sia frutto di sviamento di potere e fonte di un pregiudizio altrimenti insanabile per le situazioni soggettive delle parti.

Applicando le suesposte coordinate ermeneutiche al provvedimento di restituzione degli atti adottato dal Giudice per le Indagini Preliminari, l’ordinanza in questione costituisce espressione del legittimo esercizio del potere cognitivo conferito al giudice ex art. 459, comma terzo, c.p.p. che, al di fuori di qualsiasi automatismo decisorio ed in coerenza col ruolo funzionale di quel giudice, gli riconosce la possibilità di un ampio sindacato sul merito dell’istanza.

Al contempo, la giurisprudenza di legittimità (Cass. Pen., sez. I, sent. n. 1426 del 24.3.1994; Cass. Pen., sez. VI, sent. n. 17702 del 1.4.2016) ha sostanzialmente qualificato come abnorme il provvedimento di restituzione degli atti, motivato da ragioni di mera opportunità, che si traduca in una manifestazione di dissenso rispetto alla scelta, di esclusiva pertinenza dell’organo dell’accusa, di introdurre il procedimento monitorio ed in un’arbitraria usurpazione da parte del giudice di facoltà, riservate dall’ordinamento alla parte pubblica, in conseguenza della difforme considerazione sull’utilità del rito e sui suoi futuri sviluppi.

Talché è costante l’affermazione per cui l’apprezzamento discrezionale del giudice sulla richiesta di introduzione del rito monitorio, pur riconosciutogli dall’art. 459, comma terzo, c.p.p. non può estendersi sino ad interferire con le attribuzioni istituzionali della pubblica accusa circa le modalità di esercizio dell’azione penale e di strutturazione dell’imputazione ed a negare il provvedimento richiesto in forza di un personale criterio di opportunità, stimato preferibile rispetto alle valutazioni del Pubblico Ministero. Una decisione che comportasse tali effetti stravolgerebbe la ripartizione delle funzioni nel sistema processuale e, pur rientrando nell’esercizio di un potere astrattamente attribuito al giudice dall’ordinamento, sarebbe affetta da abnormità perché al di fuori della previsione normativa per il suo contenuto eccentrico e singolare e per gli effetti prodotti di indebita regressione del procedimento.

La correttezza della suindicata linea interpretativa che attribuisce al Giudice per le Indagini Preliminari la possibilità di sindacare l’istanza proposta ai sensi dell’art. 459 c.p.p.., utilizzando ogni risultanza processuale, con l’unico limite di non invadere la sfera di competenza del pubblico ministero richiedente, è corroborata anche dalle chiare indicazioni esegetiche, rinvenibili nella sentenza della Corte costituzionale n. 447 del 1990.

Né a differenti conclusioni può giungersi quando il provvedimento sia motivato dalla necessità di verificare se sussista o meno la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, che non si esaurisce in una valutazione di inopportunità dell’introduzione del procedimento monitorio ed esula quindi dalla nozione di abnormità come dinanzi richiamata.

Resta, parimenti, escluso che possa ravvisarsi l’abnormità del provvedimento per il fatto che la restituzione degli atti intervenga ad esercizio dell’azione penale già avvenuto mediante la formulazione della richiesta di emissione del decreto di condanna, caratterizzato dall’assenza di qualsiasi interlocuzione preliminare con la difesa.

L’art. 131-bis c.p. ha effettivamente configurato l’istituto quale causa speciale di non punibilità dell’autore del reato e quindi rientrante nell’ambito del diritto sostanziale, e non come condizione di procedibilità dell’azione penale.

Dunque esso pretende, per la sua applicazione, la previa instaurazione del contraddittorio tra l’accusa, la difesa e persino la persona offesa, se esistente, perché implica l’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità e della riferibilità all’imputato; esso comporta peraltro effetti non integralmente liberatori per l’imputato e la necessità di assicurare tale garanzia viene riconosciuta anche nella fase dell’archiviazione del procedimento dall’art. 411, comma 1-bis, c.p.p.

Pertanto, è corretto ritenere che sia preclusa al giudice, richiesto di emettere decreto penale di condanna, la possibilità di prosciogliere l’imputato ai sensi dell’art. 129 c.p.p. a ragione della minima offensività del comportamento illecito per l’ostacolo procedurale rappresentato dalla connotazione del rito monitorio, che, per perseguire finalità deflattive e di accelerazione nella trattazione del processo, viene attivato dall’accusa in assenza di qualunque tipo di confronto preventivo con l’imputato e la sua difesa.

Dunque, ad avviso delle Sezioni Unite, la segnalata problematica trova soluzione nella facoltà di restituzione degli atti al pubblico ministero, espressamente contemplata dal sistema e niente affatto eccentrica alla sfera di controllo assegnata al giudice.

Il rigetto della richiesta del decreto penale di condanna, con restituzione degli atti, non giustificato da valutazioni opinabili sull’opportunità l’introduzione del rito, costituisce, in definitiva, determinazione assunta non in carenza di potere, ma rientrante nella tipologia di decisione che il giudice può assumere secundum legem.


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