Usucapibilità del bene espropriato per pubblica utilità (S.U. n. 651/2023)

Usucapibilità del bene espropriato per pubblica utilità (S.U. n. 651/2023)

L’analisi della tematica sull’usucapibilità del bene oggetto di espropriazione per pubblica utilità prende le mosse da una recentissima pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite, n. 651 del 12.1.2023.

La questione sottoposta alle Sezioni Unite, con ordinanza interlocutoria Sez. II n. 19758/2022, riguarda gli effetti del decreto di esproprio emanato dalla Pubblica Amministrazione nei confronti del precedente proprietario, tutt’ora possessore del bene, e più nello specifico, la Corte chiede “se viene a verificarsi la condizione del cd. costituto possessorio in favore dell’ente espropriante e, quindi, l’automatica perdita dell’animus possidendi in capo al precedente proprietario che continui ad occupare il bene espropriato, con conseguente interruzione del pregresso possesso (utile ad usucapionem) da quest’ultimo esercitato o se, invece, il possesso continui a permanere in capo all’occupante con la possibilità di riacquistare il diritto di proprietà sul bene – ancorché oggetto di espropriazione, ma senza che sia intervenuta l’immissione in possesso o una condotta realizzativa delle opere previste nel decreto di esproprio a titolo di usucapione al successivo maturare dei venti anni continuativi”.

Le Sezioni Unite prendono atto del contrasto sul tema ed enunciano i due precedenti orientamenti.

Secondo un primo orientamento, sposato da Sez. I n. 5293/2000, Sez. II n. 5996/2014, n. 25594/2013, n. 13558/1999, il trasferimento coattivo di un bene (mediante espropriazione per pubblica utilità) non integra l’istituto del cd. costituto possessorio in favore dell’espropriante, dato che il trasferimento del diritto di proprietà sul bene avviene contro la volontà del precedente proprietario (espropriato), senza alcun accordo tra le parti. Il provvedimento di esproprio non determina la modifica dell’animus possidendi in animus detinendi in capo al precedente proprietario, il quale, pertanto, potrà invocare il compimento in suo favore dell’usucapione, laddove al decreto di esproprio non sia seguita né l’immissione in possesso, né l’esecuzione delle opere di pubblica utilità. Non assume alcuna rilevanza la conoscenza in capo al proprietario espropriato dell’esistenza di un altrui diritto dominicale sul bene (realizzata con la notifica del decreto di esproprio). Tale disciplina è altresì applicabile all’ipotesi in cui si verifica un trasferimento volontario del bene da parte dell’espropriato, mediante cessione volontaria ex art. 45 D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327.

A parere di altra giurisprudenza, con sentt. n. 23850/2018, n. 6742/2014, n. 13669/2007 e molte altre, il decreto di esproprio è idoneo a far acquisire in capo alla Pubblica Amministrazione la piena proprietà del bene e di conseguenza ad escludere qualsiasi altra situazione di diritto e di fatto incompatibile con esso sul bene. Pertanto, laddove il precedente proprietario (espropriato) continui ad avere un potere di fatto sul bene oggetto di espropriazione, con la conoscenza dell’altrui diritto dominicale, e quindi con la notifica del decreto di esproprio, perde l’originario animus possidendi, di talchè per maturare un nuovo possesso ad usucapionem dovrà effettuare un nuovo atto di interversione del possesso. L’animus possidendi si tramuta in animus detinendi.

Le Sezioni Unite dichiarano di condividere il secondo orientamento e quindi ribadiscono che «il decreto di espropriazione è idoneo a far acquisire la proprietà piena del bene e ad escludere qualsiasi situazione di diritto o di fatto con essa incompatibile e, qualora il precedente proprietario o un soggetto diverso continuino ad esercitare sulla cosa un’attività corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà, la notifica [o conoscenza] del decreto ne comporta la perdita dell’animus possidendi, conseguendone che, ai fini della configurabilità di un nuovo possesso ad usucapionem, è necessario un atto di interversio possessionis».

Le stesse ricordano che la mancata o irregolare notifica del decreto di esproprio al proprietario effettivo, pur impedendo il decorso del termine di decadenza per l’opposizione alla stima e abilitando il proprietario a invocare la tutela risarcitoria per la ritardata riscossione dell’indennità espropriativa, non danno luogo a carenza del potere espropriativo.

Inoltre, il Collegio sottolinea che tale disciplina è applicabile sia nelle controversie soggette al regime previgente al T.U. degli espropri (d.lgs. 8 giugno 2001, n. 327) – nelle quali il decreto di esproprio sia emesso in forza di una dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza antecedente alla data del 30 giugno 2003 di entrata in vigore dello stesso testo unico e sia – per ragioni parzialmente diverse – nelle controversie soggette alle disposizioni del medesimo testo unico.

Una prima argomentazione a sostegno dell’usucapibilità del bene espropriato prende le mosse da una considerazione, ossia: se è vero che la mera pianificazione urbanistica (se consistente in generiche previsioni prive di specifiche localizzazioni) non sembra di per sé idonea a configurare una specifica destinazione del bene a finalità di interesse pubblico, ci si deve interrogare se la medesima conclusione possa valere anche rispetto ad opere validamente dichiarate di pubblica utilità, in vista delle quali è stato emesso un valido ed efficace decreto di esproprio.

Quindi bisogna capire se in tali casi sia ragionevole e conforme al modello legale identificare il momento in cui il bene acquista la prerogativa dell’indisponibilità solo nel momento in cui l’opera sia stata realizzata e la funzione pubblica assicurata. Il Collegio dà risposta negativa. Il carattere dell’indisponibilità non si acquista solo nel momento in cui l’opera sia stata realizzata, ciò in quanto si possono presentare situazioni in cui vi sia un consistente distacco temporale tra la dichiarazione di pubblica utilità e il compimento dei lavori, all’interno del quale è possibile ravvisare situazione di fatto (possessorie) di qualche rilevanza, le quali potrebbero in concreto interferire con la procedura di espropriazione. Si pensi alle ipotesi in cui alla programmazione dell’opera o della struttura necessaria al servizio pubblico debbano seguire, in via preventiva, complesse procedure di acquisizione di aree, e successivamente consistenti opere di manipolazione o trasformazione dei fondi.

In questi casi, il problema non è tanto di concepire l’inizio dell’indisponibilità, che coincide con l’acquisizione in proprietà del bene al fine dell’utilizzo pubblicistico programmato, quanto di identificare un termine finale del periodo di “protezione” della destinazione pubblicistica alla cui scadenza avviene la cessazione del regime di indisponibilità. Detto termine è ora positivamente fissato (art. 46 d.p.r. 327/01) in dieci anni dall’esecuzione del decreto di esproprio (o nel termine anteriore da cui risulti l’impossibilità dell’esecuzione). Va da sé che ove l’opera pubblica non necessiti di materiali trasformazioni, il carattere dell’indisponibilità sarà assunto al momento dell’espropriazione, posto che è la stessa dichiarazione di pubblica utilità a dover contenere un esplicito provvedimento di destinazione all’uso pubblico (art. 13, comma 8)».

Nell’acquisizione dell’area mediante procedimento di espropriazione per pubblica utilità si rinvengono degli istituti dalla cui applicazione è possibile rinvenire un giusto equilibrio tra l’interesse pubblico alla realizzazione dell’opera senza interferenze da parte dei terzi e l’interesse privato riconoscibile in aspettative qualificate con riguardo allo specifico bene.

Si pensi al diritto potestativo dell’espropriato alla retrocessione del bene, a fronte della totale inerzia dell’ente espropriante protratta nel tempo, che consente, una volta decaduta la dichiarazione di pubblica utilità, di riacquistare sia la proprietà sia il possesso pieno del bene, tramite pronuncia costitutiva del giudice e previo pagamento del relativo prezzo.

Il dato centrale della sentenza in esame riguarda la qualificazione della situazione di fatto sul bene in capo al privato espropriato e quindi, se possa parlarsi di possesso o di detenzione.

Il Collegio ritiene che “non è possibile qualificare in termini di possesso la relazione fattuale dell’espropriato (occupante) con il bene, non essendogli concesso di proporre le azioni possessorie a tutela della pienezza del godimento del bene stesso o per contrastare le legittime attività appropriative poste in essere dall’amministrazione in conseguenza dell’espropriazione. Le azioni possessorie costituiscono modi di tutela del diritto di continuare a godere del bene nello stato di fatto in cui era precedentemente posseduto e sono proponibili nei confronti della pubblica amministrazione, «a meno che sul diritto non abbia inciso un provvedimento avente attitudine a sottrarre al privato la proprietà o disponibilità della cosa o a mutarne il modo di godimento» (Cass. SU n. 11351 del 1998), nel qual caso l’azione è proponibile solo se sia ravvisabile carenza di potere amministrativo, situazione non configurabile in presenza di un provvedimento espropriativo legittimo”.

La Corte inoltre precisa un aspetto con riferimento alla tematica in tema di consenso traslativo, sostenendo che l’efficacia traslativa del consenso abbia ad oggetto la proprietà e non il possesso, in mancanza di specifica pattuizione in senso diverso.

La vendita, come anche il decreto di esproprio, non accompagnato anche dal trasferimento del possesso, è di per sé già valida in quanto il trasferimento di quest’ultimo costituisce oggetto di una specifica obbligazione (ex art. 1476 c.c.) che, se non adempiuta, fa sì che l’alienante e l’espropriato rimangano nel possesso della cosa, pur avendo trasferito la proprietà.

Inoltre, bisogna evidenziare che l’espropriazione per pubblica utilità non è assimilabile ad una vicenda negoziale, trattandosi di un atto autoritativo con cui l’amministrazione acquista la proprietà a titolo originario (alla data del decreto di esproprio), con l’effetto di estinguere automaticamente tutti diritti gravanti sul bene espropriato, da far valere unicamente sull’indennità.

Proprio in virtù della non assimilabilità dell’espropriazione ad una vicenda negoziale, non è possibile creare un parallelismo tra vicende traslative disomogenee, l’una autoritativa e l’altra negoziale.

Infatti, indicano le Sezioni Unite, che il parallelismo tra vicende traslative disomogenee non è condivisibile e, di conseguenza, non lo è la conclusione: nell’espropriazione per pubblica utilità la volontà del proprietario per definizione non conta e, quindi, non è chiaro, visto che la proprietà si trasferisce contro o nonostante una diversa volontà dell’espropriato, come costui possa conservare l’animus possidendi.

Il proprietario espropriato può restare nel godimento del bene finché persiste l’assenso implicito o tolleranza dell’ente espropriante che in ogni momento è in condizione di ripristinare la relazione fattuale con il bene posseduto solo animo, senza vedersi opporre una inesistente pretesa di astensione da parte dell’occupante, la cui detenzione per diventare utile ai fini dell’usucapione deve trasformarsi in possesso mediante un apposito atto di interversione.

A tal fine non è sufficiente un semplice atto di volizione interna, occorrendo una manifestazione esteriore – rivolta specificamente contro il possessore (art. 1141, comma 2, c.c.), in maniera che questi possa rendersene conto – dalla quale sia consentito desumere che il detentore abbia cessato di esercitare il potere di fatto sulla cosa in nome altrui ed abbia iniziato ad esercitarlo esclusivamente in nome proprio, con correlata sostituzione al precedente animus detinendi dell’animus rem sibi habendi, non rilevando l’inottemperanza alle eventuali pattuizioni implicite in forza delle quali la detenzione era stata costituita, né meri atti di esercizio del possesso, traducendosi gli stessi in un’ipotesi di abuso della situazione di vantaggio determinata dalla materiale disponibilità del bene, né rilevando l’impugnazione del decreto di esproprio in sede giurisdizionale, cui va attribuito il solo intento di disconoscere il titolo di acquisizione del diritto reale. Il contenuto dell’interversione, idonea a trasformare la detenzione in possesso, deve poter significare la negazione dell’altrui possesso e l’affermazione del proprio, bastando all’uopo un comportamento oppositivo non soggetto a particolari formalità, secondo l’insindacabile valutazione del giudice del merito. In mancanza di atti di prova di uno specifico atto di interversione nel possesso dopo l’emissione del decreto di espropriazione per pubblica utilità, l’eventuale protrarsi del godimento del bene da parte dell’espropriato può integrare una detenzione precaria non utile ai fini dell’usucapione”.

In conclusione, le Sezioni Unite, con la sentenza n. 651 del 2023, enunciano tre importanti principi di diritto:

1) “nelle controversie soggette al regime normativo antecedente all’entrata in vigore del t. u. n. 327 del 2001, nelle quali la dichiarazione di pubblica utilità sia intervenuta prima del 30 giugno 2003, nel caso in cui al decreto di esproprio validamente emesso (…) che è idoneo a far acquisire al beneficiario dell’espropriazione la proprietà piena del bene e ad escludere qualsiasi situazione di fatto e di diritto con essa incompatibile – non sia seguita l’immissione in possesso, la notifica o la conoscenza effettiva del decreto comportano la perdita dell’animus possidendi in capo al precedente proprietario, il cui potere di fatto sul bene se egli continui ad occuparlo si configura come una mera detenzione, con la conseguenza che la configurabilità di un nuovo periodo possessorio, invocabile a suo favore «ad usucapionem», necessita di un atto di interversio possessionis da esercitare in partecipata contrapposizione al nuovo proprietario, dal quale sia consentito desumere che egli abbia cessato di esercitare il potere di fatto sulla cosa in nome altrui e iniziato ad esercitarlo esclusivamente in nome proprio. Resta fermo il diritto dell’espropriato di chiedere la retrocessione totale o parziale del bene”;

2) “nelle controversie soggette ratione temporis al t.u. n. 327 del 2001, l’esecuzione del decreto di esproprio con l’immissione in possesso del beneficiario dell’espropriazione (mediante redazione di apposito verbale) nel termine perentorio di due anni (art. 24, comma 1) costituisce condizione sospensiva di efficacia del decreto di esproprio (art. 24, comma 1, lett. f, h), con la conseguenza che il decreto di esproprio, se non è tempestivamente eseguito, diventa inefficace e la proprietà del bene si riespande immediatamente in capo al proprietario, perdendo rilevanza la questione dell’usucapione, salvo il potere dell’autorità espropriante di emanare una nuova dichiarazione di pubblica utilità entro i successivi tre anni (art. 24, comma 7), nel qual caso dovrà essere emesso un nuovo decreto di esproprio, eseguibile entro l’ulteriore termine di due anni di cui all’art. 24, comma 1; nel caso in cui il decreto di esproprio sia tempestivamente eseguito con la tempestiva redazione del verbale di immissione in possesso ma il precedente proprietario o un terzo continuino ad occupare o utilizzare il bene, si realizza una situazione di mero fatto non configurabile come possesso utile ai fini dell’usucapione”;

3) “analoga conclusione vale nel caso in cui il procedimento espropriativo si concluda con la cessione volontaria del bene, la quale produce gli effetti del decreto di esproprio, ai sensi dell’art. 45, comma 3, t.u. del 2001, tra i quali vi è anche l’effetto, previsto dall’art. 23, comma 1, lett. f), del t.u., di sottoporre il passaggio del diritto di proprietà alla «condizione sospensiva» della esecuzione dell’atto di trasferimento, mediante l’immissione in possesso nel termine perentorio e con le modalità previste dall’art. 24”.


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Marika Zanerolli

Nata a Piazza Armerina nel 1994. Diplomata al Liceo Classico nel 2013. Laureata in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Catania nell'ottobre 2018. Diplomata presso la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali "A. Galati" di Catania nel luglio 2020. Ha svolto Tirocinio ex art. 37 L. 111/11 presso la Prima Sezione Civile del Tribunale di Catania e pratica forense presso uno studio legale specializzato in diritto penale. Attualmente, abilitata all'esercizio della professione forense.

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