Utilizzabilità dibattimentale di prove da fonti informatiche e social network

Utilizzabilità dibattimentale di prove da fonti informatiche e social network

Il presente contributo cerca di chiarire quale sia la portata probatoria di ciò che il singolo individuo può reperire sul web e quindi dedurre come prova in dibattimento, a fondamento della propria difesa.

È infatti vero che la continua mutevolezza delle informazioni reperibili online si ripercuote talvolta sull’autenticità delle notizie veicolate: la visualizzazione del contenuto di un sito internet  in un determinato momento è solo una delle possibili versioni di quanto è presente online, ed è per questo che l’aggiornamento della pagina web permette di visualizzare contenuti diversi dai precedenti.

Da ciò deriva che l’estrapolazione di una “schermata” web (c.d. screenshot), anche autenticata con un timbro postale o inviata via PEC, non costituisce prova di quanto fosse effettivamente online: può costituire prova che in un determinato momento storico vi fossero quei contenuti in rete.

Nel 2004 la Corte di Cassazione – sez. lavoro – ha affrontato il tema dell’autenticità e modificabilità dei contenuti presenti sul web nella pronuncia. nr. 2912 del 2004: il Supremo consesso in questa sede aveva statuito l’assenza di valore probatorio di stampe cartacee o salvataggi da siti web prodotti in giudizio, affermando che “Le informazioni tratte da una rete telematica sono per natura volatili e suscettibili di continua trasformazione e, a prescindere dalla ritualità della produzione, va esclusa la qualità di documento in una copia su supporto cartaceo che non risulti essere stata raccolta con garanzie di rispondenza all’originale o di riferibilità a un ben individuato momento”. Con questa affermazione la Corte, da un lato ammetteva che informazioni reperite con queste modalità potessero entrare come prova documentale (art. 234 c.p.p.) in dibattimento, ma allo stesso tempo che doveva esserne garantita la riferibilità ad un ben individuato momento.

Successivamente il legislatore ha statuito qual è la portata probatoria delle “copie cartacee” di una schermata internet all’art. 23 comma 2bis del Codice dell’amministrazione digitale, affermando che esse “sostituiscono ad ogni effetto di legge l’originale da cui sono tratte se la loro conformità all’originale in tutte le sue componenti è attestata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato”, indirizzando quindi specificamente quella “garanzia di rispondenza all’originale” che la Suprema Corte aveva individuato quale parametro a garanzia dell’autenticità di prove così fragili.

La garanzia di conformità della copia cartacea al sito web che questa riproduce (o allo stato di informazioni presente su un social network cristallizzata in un dato momento) era individuata nell’attestazione compiuta da un pubblico ufficiale: così da un lato, il Consiglio nazionale del Notariato si è dotato di uno studio per il rilascio di copie conformi di pagine web, dall’altro si sono sviluppati veri e propri team informatici competenti a rilasciare “download certificati”.

L’insufficienza della mera riproduzione cartacea di una schermata web o da social network è stata ribadita dalla Corte di Cassazione nel recente passato (sent. nr. 49016/2017): in ordine all’utilizzabilità di conversazioni scambiate via Whatsapp e riprodotte in cartaceo, la Suprema Corte ha sostenuto la necessità di acquisire altresì il supporto telematico o figurativo in cui erano presenti tali contenuti, avendo la trascrizione una “funzione meramente riproduttiva del contenuto della principale prova documentale”. Per la Suprema Corte quindi l’acquisizione del supporto era necessaria per verificare certezza attendibilità di quanto veniva documentato.

Diversamente la quinta sezione penale ha di recente statuito (sent. 8736/2018) come la copia cartacea di schermate telematiche costituisca prova documentale ai sensi dell’art. 234 c.p.p.: si è riconosciuto infatti che possono acquisirsi documenti – come tali devono intendersi dati di carattere informatico contenuti in un PC poichè rappresentativi di cose – da porre a fondamento della decisione a prescindere dalla loro autenticazione o provenienza da un pubblico ufficiale. L’estrazione di dati da un supporto informatico infatti non costituisce accertamento tecnico irripetibile: la mancata adozione degli eventuali protocolli comportamentali che la legge nr. 48/2018 ha imposto alla polizia giudiziaria, non incide sulla validità delle operazioni compiute – che la Corte considera “meccaniche” – potendo le conseguenze ripercuotersi in termini di attendibilità della prova, comunque rimessa al vaglio del giudice.

Certamente vietato è per il giudice reperire informazioni direttamente dal web: con la sent. 4951/2017 la Corte ha escluso che dette notizie siano riconducibili alla nozione di “fatto notorio”, concetto da sempre interpretato molto restrittivamente. Sulla scorta che le informazioni presenti nel web non sono nozioni di comune esperienza, la Corte ha statuito che “la circostanza che attraverso il ricorso ai moderni strumenti informatici un’informazione sia agevolmente accessibile ad una vasta platea di soggetti non rende di per sé “notoria” l’informazione”, precisando poi che la “notorietà” nel caso di informazioni reperite sul web è esclusa ipso facto dalla circostanza che si tratta di conoscenze oggetto di ricerca (sul punto, la sent. 36315 del 2016 ha statuito l’inutilizzabilità di fotogrammi reperiti dal giudice in Camera di Consiglio tramite Google Heart).

In conclusione la prova da fonte informatica costituisce prova documentale rimessa al libero apprezzamento del giudice, nel rispetto dei parametri di ammissibilità di cui all’art. 190 c.p.p.

Poiché probabile è la presenza di insidie circa provenienza e attendibilità di tali prove – specie in mancanza di un’attestazione ufficiale della parte interessata ad avvalersene – il giudice ben può vagliare l’utilizzabilità dei documenti prodotti con ogni strumento a sua disposizione, finanche spingendosi a disporre d’ufficio perizie ove ciò risulti “assolutamente necessario”.

Resta fermo che la prova da fonte informatica possa comunque costituire elemento indiziario, valutabile dal giudicante in rapporto al complessivo compendio probatorio a sua disposizione.


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Arianna Monelli

Laureata in Giurisprudenza con lode presso l'Università degli studi di Ferrara, con una tesi in Teoria generale del diritto dal titolo "Contrattualizzare la gravidanza: la maternità surrogata tra dibattito biogiuridico ed evoluzione giurisprudenziale". Ho svolto la pratica forense presso uno studio di diritto civile e contestualmente tirocinio ai sensi dell'art. 73 d.l. 69/2013 c/o Ufficio GIP/GUP del Tribunale di Ferrara. Ho conseguito nel settembre 2019 l'abilitazione all'esercizio della professione forense presso la Corte d'Appello di Bologna Attualmente esercito la professione di avvocato presso il Foro di Mantova

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